Archivi categoria: Critica letteraria

Compiuta da Firenze: l’enigma di una poetessa

 

da

ilpalazzodisichelgaita.wordpress.com

 

 

Era conosciuta, fino a poco tempo fa, come “la Compiuta Donzella“: così avevano soprannominata quella misteriosa poetessa gli eruditi dell’Ottocento, facendo eco ai poeti che corrispondevano con lei, i quali affiancavano al suo nome, Compiuta, l’appellativo donzella, signorina. Oggi si preferisce chiamarla semplicemente Compiuta da Firenze, dato che null’altro… 

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Dante Alighieri: il fabbro fiorentino della lingua italiana

 

 

 

Il sommo Dante è stato, senza dubbio alcuno, avanti Francesco Petrarca, Pietro Bembo e Alessandro  Manzoni,  il  primo e più abile  fabbro della  nostra  lingua.  Proprio  a  lui, infatti, si  deve la forgiatura dei caratteri della parlata italiana. Voglio fornirvi degli incredibili dati numerici, tratti dalla mitica enciclopedia multimediale Treccani.it: è stato calcolato che il 90% 1del lessico fondamentale dell’italiano oggi in uso (cioè, il 90% delle 2000 parole più frequenti, che a loro volta costituiscono il 90% di tutto ciò che diciamo, leggiamo o scriviamo ogni giorno), sia già nella Divina Commedia. La sua opera principale è invero a tal punto vasta, da potersi considerare un’epitome dell’intero sapere antico e medievale. E’ così piena di parole, anche specialistiche, che Dante ha temprato, non solo la nostra parlata comune, ma anche quelle tecniche. Lungo le tre cantiche del divino poema, infatti, sono molte le micro lingue presenti, come si definiscono, in linguistica, i lessici propri di una specifica disciplina, che, ad elencarli tutti, riempirei qualche pagina. Anche parolacce e bestemmie non mancano, appunto per non lasciar fuori nulla. Eccovi qualche esempio: Inferno, canto XVIII, vv. 133: “Taide è, la puttana che rispuose”; Inferno, canto XXI, v. 139: “Ed elli avea del cul fatto trombetta”; Inferno, canto XXV, vv. 1-3: “Al fine de le sue parole il ladro/ le mani alzò con amendue le fiche,/ gridando: “Togli, Dio, ch’a te le squadro!”). Prima di Dante, il vocabolario italiano era alquanto povero ma dopo di lui, è diventato tra i più ricchi al mondo. Prima, si poteva parlare soltanto di poche cose. Dopo, di quasi tutto. Anzi, di tutto! 2Pose le basi, inoltre, affinché il latino, presto o tardi, fosse messo in soffitta, soprattutto come registro scritto per la trasmissione della cultura, tanto buono era stato, nella sua opera, il lavoro compiuto sul linguaggio. Grazie al sommo poeta  (immagine a sinistra)  e alla lingua della Divina Commedia, noi tutti, ancora oggi, possiamo affermare: “Il fiorentino è il dialetto che di più si avvicina all’italiano perfetto!”. Ciò è accaduto perché la vastissima diffusione del sublime poema, già immediatamente dopo la morte del suo Autore, veicolò anche la lingua con il quale era stato composto. Quest’ultima, infatti, funse da modello linguistico per tutti coloro che lo lessero. La Divina Commedia ha insegnato agli italiani a leggere e a scrivere correttamente, permettendo loro, dalle Alpi alla Sicilia, di comprendersi reciprocamente. Potrei, dunque, proclamare che l’Italia sia stata unita da Dante più di cinquecento anni prima di Garibaldi, Cavour e i Savoia, ma questa, per chi come me è meridionale, è un’altra storia!

 
 
 

Friedrich Schiller, il poeta della libertà

 

di

Carlo Lottieri

 

 

È sufficiente passare qualche ora a Weimar, visitare la casa in cui visse e farsi conquistare dello magia del luogo per avvertire in che modo Friedrich Schiller ha saputo incarnare lo spirito liberale e borghese di quella Germania che poi verrà spazzata via dalla reazione nazionalista successiva all’invasione napoleonica…

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Friedrich Schiller (1759-1805)

 

 

Nell’aiuola sotto l’albero di pere, non spuntano più i ciclamini a settembre

 

Piccolo ragguaglio critico sulla mia poetica

 

 

Il maggior grattacapo di ciascun critico letterario è certamente quello di non poter mai, o quasi mai, ascoltare dalla viva voce dell’autore che critica alcunché riguardo la sua poetica. Il primo, infatti, deve sempre procedere gattoni, con una lampada in mano, anche in pieno giorno, per cercare di districarsi, di individuare quello che, molto spesso, costituisce un vero e proprio bandolo di matassa della mente del secondo. Ciò detto, semmai qualche critico letterario in un lontano futuro dovesse interessarsi alla mia opera poetica, ecco un piccolo ragguaglio su di essa.

ciclamino

Nel settembre del 2002, in un’aiuola sotto un albero di pere, nel mio giardino, a Sant’Agata sui Due Golfi, spuntarono alcuni ciclamini. Avrei creduto, per molto tempo, che vi fossero germogliati spontaneamente, fino a quando, qualche anno dopo, seppi da mia madre che era stata mia sorella a piantarli. Trascorrevo molte ore di quei pomeriggi settembrini in giardino, perché vi erano comode poltrone sulle quali sedevo a leggere e, di tanto in tanto, il mio sguardo si posava su quei ciclamini.
Nel mio immaginario, non soltanto poetico, i ciclamini hanno sempre rappresentato, anche pascolianamente, la mia infanzia. Agli inizi degli anni ’80, il mio paese era pieno di prati che a settembre cominciavano a colorarsi del viola dei ciclamini. Questi fiori sono stati tra i primi che noi, bambini, donavamo a nostra madre o a qualche compagnuccia.

Fioritura-annuale-di-Cyclamen-hederifolium

Alla fine di quel settembre del 2002 ritornai per gli ultimi mesi a Urbino, terminando i miei studi universitari. Anche il mio giardino mutò d’aspetto, a causa di una diversa destinazione che fu decisa per la nostra proprietà, seppure quella aiuola vi è rimasta. Si chiuse, così, un periodo della mia esistenza, che ho cristallizzato in quei ciclamini. Da allora, ogni settembre, nel mio cuore sboccia sempre un fascetto di ciclamini, nei cui petali e nei miei versi rivivono quel bimbo, quel giovane e  quel tempo che non ci sono più.

 

Italia

Canto d’autunno

Blues di un amore lontano

 

IMG_20160904_184655L’aiuola sotto l’albero di pere dove spuntavano i ciclamini a settembre, oggi (settembre 2017)

 

 

Con gli occhi chiusi: Federigo Tozzi e la sofferenza del mondo moderno

 

di

Mattia Bonasia

 

 

C’è dell’autobiografismo in ogni opera di Federigo Tozzi. Ma forse è proprio in Con gli occhi chiusi (1919), il romanzo che l’ha accompagnato per una vita, l’opera nella quale riusciamo ad apprezzare al meglio il vero Tozzi, dallo stile alle tematiche affrontate…

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Federigo Tozzi (1883-1920)

 

 

“Les Fleurs du mal”: Charles Baudelaire e il ritratto dell’uomo moderno

 

di

Lisa Di Iasio

 

 

Compie oggi (25 giugno 2017, ndr) 160 anni una delle raccolte di poesie più amate in assoluto, Les Fleurs du mal, pubblicato per la prima volta proprio il 25 giugno del 1857 con la firma di Charles  Baudelaire (Parigi, 9 aprile 1821 – Parigi, 31 agosto 1867).
A causa delle tematiche trattate l’opera ha suscitato da subito molto scandalo: fu infatti denunciata per oltraggio e offesa alla morale pubblica e religiosa, e agli occhi delle critica letteraria successiva costò all’autore l’associazione alla categoria dei poeti maledetti…

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Charles Baudelaire

 

 

 

Dante Alighieri e l’Islam

 

di 

Maria Soresina

 

 

Un secolo fa, nel 1919, usciva il libro La escatología musulmana en la Divina Comedia di Miguel Asín Palacios che fece molto scalpore e che in Italia fu accolto da una dantista autorevolissima, Maria Corti, la quale arrivò a titolare un articolo sul Corriere della Sera «Dante. Il sommo poeta partorito dall’Islam». Un versetto del Corano, il primo della sura XVII, recita…

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Dante Alighieri (1265 – 1321)

 

 

L’effimero e la poesia crepuscolare

 

 

Effimero è qualcosa di fugace e passeggero. E’ ciò che è fragile nel suo essere nel tempo. La sua attrattiva e la sua bellezza, quella che seduce e che si vorrebbe poter fissare, trova la propria ragion d’essere nell’incostanza. Nella mancanza di continuità. Nella negazione dell’eternità e, persino, nella deliberata rinunzia all’Assoluto. Proprio lì, in quell’attimo di non perpetuo, guido_gozzanodavanti alla vacuità del tempo, saltano gli schemi, i piani e tutte le certezze. Si annullano le distinzioni e le consuetudini. Si mandano all’aria le regole. Si sovverte lo status quo ante. I poeti crepuscolari, Guido Gozzano (immagine a destra) (1883-1916), Corrado Govoni (1885-1965), Tito Marrone (1882-1967) e Sergio Corazzini (1886-1907), massimi cantori dell’effimero nella storia della Letteratura italiana, dopo la stagione della poesia celebrativa di Giosuè Carducci e dell’estetismo superomistico di Gabriele D’Annunzio, con il mito del poeta, come animatore della storia e creatore delle forze del futuro, avevano ripiegato su temi e movimenti più semplici, declinanti, smorzati e quasi spenti. Il loro verso si presenta privo di qualsiasi ornamento e fluttua libero dal peso della tradizione formalistica. Tutto è accomunato dal bisogno del compianto e della confessione, nonché da una sorta di rimpianto pascoliano per un tempo che non c’è più e che diviene, giocoforza, fonte di perenne insoddisfazione: un’insoddisfazione che non si trasforma, giammai, in ribellione, piuttosto in rifugio dell’anima. La poesia crepuscolare evoca la tristezza e canta la coscienza infelice, la musica raminga, le canzoni d’amore del tempo perduto, le suppellettili che sanno di polvere, le luci soffuse nelle chiese, dove le candele si consumano lente, gli autunni nostalgici, fatti di addii e, persino, le primavere disadorne, senza alberi in fiore e senza profumi di vita rinnovata. Un lirismo della malinconia, la cui bellezza diventa canto dell’illusione. Quell’illusione che, seppure concepita in un momento di entusiasmo o di disperazione, si trasforma, poi, in verità, in realtà, disvelando, come un lampo improvviso, i misteri più nascosti, gli abissi più cupi della natura, i rapporti più lontani e segreti, le cause più inaspettate e remote, le astrazioni più sublimi, nei confronti delle quali la poetessa, paziente tessitrice di stati dell’animo, per dirla leopardianamente: “si affatica indarno per tutta la vita, a forza di analisi e di sintesi”.

 

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Quantunque la bellezza brilli,
essa cade. Così
in questo mondo chi
potrebbe essere in eterno?
Valicando oggi
le profonde valli dell’esistenza
non farò più vani sogni
né mai più m’illuderò!”.

Così, il monaco buddhista giapponese Kobo Daishi, vissuto tra l’ottavo e il nono secolo d. C., medita sulla fugacità della bellezza. “Cosa bella e mortal passa e non dura”, scrive Francesco Petrarca nel sonetto 248 del “Canzoniere”. E Molière, nel terzo atto della commedia “Le donne sapienti”, ricorda come “La bellezza del viso è un fragile ornamento, un fiore che appassisce presto, il bagliore di un istante”. Il bardo immortale William Shakespeare, in “Sogno di una notte di mezza estate”, si presenta sulla stessa lunghezza d’onda: “Tanto presto, quel che risplende è pronto a sparire”. Riecheggia anche “La canzone di Marinella” di Fabrizio De André: “E come tutte le più belle cose, vivesti solo un giorno, come le rose”. Non valgono patti faustiani con il demonio, oppure trasferimenti wildiani su tavole dipinte! La parola diviene tutto quello che resta. “Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus”, recita l’excipit del romanzo di Umberto Eco, “Il nome della rosa”. La rosa, che era, ora esiste solo nel nome, noi possediamo soltanto nudi nomi! Nomi, parole, versi, specula dell’ispirazione poetica, cifre del vissuto dei poeti crepuscolari, pendoli silenti che oscillano tra la realtà e l’immaginazione, tra l’illusione e il disincanto.

 

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Cino da Pistoia e la discriminazione territoriale contro i napoletani

 

 

Esistesse una Commissione Disciplinare anche nella Letteratura Italiana, Cino da Pistoia dovrebbe essere sanzionato pesantemente per discriminazione territoriale! Guittoncino, detto Cino, della nobile famiglia dei Sighibuldi, nacque a Pistoia nel 1270. Studiò legge all’estero, prima a Bologna (per un pistoiese del XIII secolo, Bologna era all’estero!), poi, a Orleans, in Francia. Tornato in patria, esercitò l’avvocatura ma pochissimo tempo dopo, nel 1303, fu costretto a lasciare Pistoia perché i guelfi avevano cacciato i ghibellini dalla città. 2Rientratovi dopo tre anni, si dedicò alla scrittura di opere giuridiche, guadagnandosi, così, molti apprezzamenti e la cattedra di diritto presso le Università di Siena, di Perugia e di Napoli. All’ombra del Vesuvio conobbe e frequentò Giovanni Boccaccio, col quale, molto probabilmente, ragionava di donne e di poesia d’amore. L’insegnamento accademico, comunque, non gli impedì di celebrare, in versi, la sua amata, Selvaggia. Compose venti canzoni, undici ballate e centotrentaquattro sonetti (dopo Dante è lo stilonovista di cui ci sono giunte più rime). Quando morì, nel 1337, Francesco Petrarca, suo allievo di stile, gli dedicò un sonetto, Piangete, donne, e con voi pianga Amore. Se lo scontroso, geloso e un po’ invidioso letterato aretino si scomodò per Cino, è la prova che questi era stato un uomo e un poeta di grande valore. Quando lo incontrai al Liceo per la prima volta, mi fu subito simpatico perché il suo nome mi faceva tornare alla mente quello di un personaggio che ho molto amato durante la mia infanzia: il mago Zurlì, il cui vero nome è, appunto, Cino Tortorella. Mia madre aveva regalato a me e a mia sorella Tiziana un cofanetto di musicassette con le più famose fiabe, raccontate proprio dal mago dello Zecchino d’Oro. Ricordo ancora il mangianastri nero con i pulsanti rossi e i pomeriggi trascorsi insieme con Anna, la nostra babysitter, ascoltando Pollicino, La bella addormentata nel bosco, Cenerentola, Biancaneve e i sette nani, Heidi, Lutra la lontra e Raperonzolo. Quando, però, cominciai a ricercare materiali per la mia Storia della Letteratura Italiana, il pistoiese si rese antipatico perché scoprii che aveva scritto, non un semplice sonetto, ma una lunga canzone contro i napoletani, Deh, quando rivedrò ‘l dolce paese, in cui ci conciò davvero male:

“Deh, quando rivedrò ‘l dolce paese
di Toscana gentile,
dove ‘l bel fior si mostra d’ogni mese,
e partiròmmi del regno servile
ch’anticamente prese
per ragion nome d’animal sì vile?
Ove a bon grado nullo ben si face,
ove ogni senso fallace – e bugiardo
senza riguardo – di virtù si trova,
però ch’è cosa nova,
straniera e peregrina
di così fatta gente balduina.
O sommo vate, quanto mal facesti
(non t’era me’ morire
a Piettola, colà dove nascesti?),
quando la mosca, per laltre fuggire, i
n tal loco ponesti,
ove ogni vespa deveria venire
a punger que’ che su ne’ tocchi stanno,
come simie in iscranno – senza lingua
la qual distingua – pregio o ben alcuno.
Riguarda ciascheduno:
tutti compar’ li vedi,
degni de li antichi viri eredi.
O gente senza alcuna cortesia,
la cu’ ‘nvidia punge
l’altrui valor, ed ogni ben s’oblia;
o vil malizia, a te, perché t’allunge
di bella leggiadria,
la penna e l’orinal teco s’aggiunge.
O sòlo, solo voto di vertute,
perché trasforme e mute – la natura,
già bella e pura – del gran sangue altero?
A te converria Nero
o Totila flagello”.

Concluse, poi, passando la palla agli juventini, ai milanisti, agli interisti, agli atalantini e ai veronesi, anche se, oggi, da Roma in su, non c’è tifoseria, tranne quella genoana, che non canti, quasi ogni domenica, “Noi non siamo Napoletani!” o “Vesuvio lavali col fuoco!”:

“Vera satira mia, va’ per lo mondo,
e de Napoli conta
che ritén quel che ‘l mare non vole a fondo”.2

Ad ogni modo, a parte la discriminazione territoriale contro i miei conterranei dell’epoca, Cino fu un rimatore molto bravo che seppe cantare il dolore e l’inquietudine per la mancanza d’amore, in uno stile dolce e armonioso, malinconico e mesto, espresso con un’accuratezza linguistica da grande poeta. Il pistoiese era capace di arrivare al cuore delle donne, di tutte le donne, tranne, evidentemente, a quello della donna bramata (succede sempre così!).

“La dolce vista e ‘l bel guardo soave
de’ più begli occhi che lucesser mai,
c’ho perduto, mi fa parer sì grave
la vita mia ch’i vo traendo guai”.

E ancora:

“Angel di Deo simiglia in ciascun atto
questa giovane bella
che m’ha con gli occhi suoi lo cor disfatto”.

Che tenerezza, poi, la canzone Oïmè lasso, quelle trezze bionde, composta quando l’amata Selvaggia morì. Le bionde trecce, gli occhi azzurri e poi… il viso, il suo sorriso, la morte s’era portata via tutto, pure le sue calzette rosse (W Mogol-Battisti!).

Rifatevi gli occhi!!!

 

 

L’inutilità di mandare a memoria le poesie

 

 

 

Riflettendo su La pioggia nel pineto di Gabriele D’Annunzio, pensavo alla sostanziale inutilità di quella pratica, in voga quando io ero studente elementare, di far imparare a memoria le poesie più famose della Letteratura Italiana. Ecco quanto scrivevo, qualche anno fa, a proposito del mandare le cose a memoria, in una mia pubblicazione sulla Letteratura Italiana: “Che sia maledetto! (riferito a Carducci e alla sua San Martino). Mi ricordo, quando frequentavo la quarta elementare, di aver passato un pomeriggio ad imparare a memoria questa poesia, di essermi svegliato un’ora prima la mattina dopo per ripassarla e, nonostante ciò, davanti alla maestra, piansi perché non la ricordavo tutta. Ho sempre odiato dover imparare le cose a memoria. Che vantaggio c’è a conoscere il testo di una poesia senza poi riconoscerne e capirne i temi?” Per tornare al Vate ed a La pioggia nel pineto, qualcuno riesce a spiegarmi cosa può capirne un bambino dei “freschi pensieri/ che l’anima schiude/ novella,/ su la favola bella/ che ieri/ t’illuse, che oggi m’illude”, oppure, è in grado di sapere che si possa piangere anche di piacere? “Piove su le tue ciglia nere/ sì che par tu pianga/ ma di piacere”. E tantissimi altri esempi potrei addurre, non soltanto relativi a questa poesia. Ecco, allora, a cosa serve la memoria di una poesia se, poi, non se ne capisce il senso? Pensate che un poeta abbia appagamento a che i suoi versi siano mandati a memoria senza intenderne il significato? Non credo proprio!