«Se esiste al mondo un libro che merita la parola sublime, credo che sia quello di Giobbe». Parole pronunciate da Jorge Luis Borges in una conferenza tenutasi all’Instituto Cultural Argentino-Israelí nel 1965. Lo stesso aggettivo impiega Paul Claudel, dell’Académie Française, che nella sua monografia sul Libro di Giobbe dice che, tra i libri del Vecchio Testamento, «Giobbe è il più sublime, il più commovente, il più audace, e allo stesso tempo il più enigmatico, il più scoraggiante, anzi, oserei dire, il più rivoltante». Giustificando i suoi aggettivi, l’autore francese aggiunge…
“Tutte le nostre cose son cosi fatte: uno zibaldone mescolato di dolcie et amaro e mille sapori varii”.
Questa citazione è presa da una delle tante lettere che Luigi Pulci scrisse a Lorenzo de’ Medici, il principe che, per la sua autorevolezza nel potere e interesse per le arti, fu chiamato il Magnifico. Ma in fondo, non è che la massima aurea di chi ha compreso l’incomprensibilità del destino dell’uomo, e senza rimpianti si lascia trascinare dal vento...
Wilfrid Voynich era un antiquario e mercante di libri rari polacco. Nel 1912 si recò in Italia e durante il suo viaggio giunse a Frascati. L’Ordine dei Gesuiti voleva restaurare Villa Mondragone, ma non avendo molti fondi a disposizione decise di vendere una parte dei libri antichi in suo possesso. Fu così che l’antiquario divenne proprietario di uno dei manoscritti più controversi che sia mai stato rinvenuto. Del manoscritto non non si conosce l’autore né il titolo, ma quello che lo rende “misterioso” sono i caratteri utilizzati e la lingua…
Venticinque anni fa in pochi avrebbero immaginato che un romanzo carico di ironia e di dottrina, sorprendente per ampiezza ed erudizione, a metà strada tra il teologico e il poliziesco, sarebbe diventato quello che ogni scrittore spera che accada, ma non confiderebbe neppure alla propria mamma, cioè un sogno da quindici milioni di copie. Il nome della rosa è stato questo…
Per chi è in grado di ravvisarli, un lirismo e uno stile da far tremar le vene e i polsi!!! Seppure dovesse mancarci tutto basta meditare una pagina del genere per urlare a se stessi di essere vivi e di percepirlo!!!
“Scendeva dalla soglia d’uno di quegli usci, e veniva verso il convoglio, una donna, il cui aspetto annunziava una giovinezza avanzata, ma non trascorsa; e vi traspariva una bellezza velata e offuscata, ma non guasta, da una gran passione, e da un languor mortale: quella bellezza molle a un tempo e maestosa, che brilla nel sangue lombardo. La sua andatura era affaticata, ma non cascante; gli occhi non davan lacrime, ma portavan segno d’averne sparse tante; c’era in quel dolore un non so che di pacato e di profondo, che attestava un’anima tutta consapevole e presente a sentirlo.“…
Giuseppe Parini nacque a Bosisio (dal 1929 Bosisio Parini) il 23 maggio del 1729, figlio di un modesto mercante di stoffe: le sue umili origini sicuramente lo aiutarono ad assumere uno sguardo oggettivo sulla nobiltà del tempo…
“Vedrà, vedrà. Qualcuno ogni tanto si perde. E non si può neanche telefonare e dire: mi sono perso al bar. Perché dentro, come punto di riferimento, non c’è neanche la capanna di Tarzan. Ma è questo il divertimento, no? Io non ci sono ancora stato ma la mia famiglia sì. È un capolavoro. Ci hanno messo quindici anni a costruirlo”. “Quindici anni?”. “Be, non so. Ma più o meno”…
Martedì 13 settembre Repubblica ha pubblicato un articolo di Natalia Aspesi che parla delle reazioni aggressive e violente che ha subìto dopo aver scritto nella sua rubrica “Questioni di cuore” – pubblicata sul settimanale di Repubblica, Venerdì – di non conoscere Ugo Foscolo…
Nacque a Valdicastello, un borgo di Pietrasanta, in Versilia, quando questa, però, non era ancora famosa per i locali notturni e la movida, il 27 Luglio 1835. Trascorse l’infanzia tra prati, colline e boschi, lunghe passeggiate nel verde e le calde serate estive a giocare all’aperto col fratello e gli amichetti. Ma anche tra i libri, che il papà Michele gli faceva leggere. Michele Carducci, medico condotto e uomo di buona cultura, aveva idee liberali e non disdegnava l’azione. Per questo, fu accusato di attività antigovernative e dovette trasferirsi con la famiglia a Firenze. Nella città dell’Arno Giosuè continuò i suoi studi e, nel 1853, entrò alla Scuola Normale Superiore di Pisa, laureandosi, in soli tre anni, in Filosofia e Filologia. Dopo la laurea e il primo insegnamento in un ginnasio di San Miniato, la vita gli si cominciò a presentare in tutta la sua durezza: il fratello Dante si suicidò o, molto più probabilmente, fu ammazzato involontariamente dal padre dopo una lite, e lo stesso genitore, poco dopo, forse per la disperazione, forse per il rimorso, volle volontariamente raggiungere il figlio morto. Il futuro poeta dovette farsi carico della madre e dell’altro fratello, arrangiandosi come poté. Nel 1859, sposò Elvira Menicucci e parve trovare un po’ di sollievo alla sua tristezza. L’anno successivo, ottenne la cattedra di Eloquenza italiana alla prestigiosa Università di Bologna e, anche se tra mille difficoltà e pochi soldi, si dedicò con passione all’insegnamento. Nel 1870, altre sciagure si abbatterono sulla sua vita: la morte della madre e del figlio Dante. Tentò di consolarsi, allora, con una relazione amorosa con Carolina Cristofori Piva, donna intellettualmente molto vogliosa, e si mise a far politica, candidandosi al Parlamento per le elezioni del 1876. Conobbe personalmente i sovrani, dedicò alla regina Margherita, moglie di Umberto I, l’ode Alla regina d’Italia e non perse mai occasione per lodare e celebrare la reale coppia. Nel 1890, fu nominato senatore del Regno e nel 1906, fu il primo italiano a ricevere il premio Nobel per la letteratura. Morì nel 1907.
Le opere
Per meglio comprendere l’opera di Carducci, è necessario raccontare ciò che gli capitò durante gli studi all’Università: insieme con un gruppo di colleghi, costituì la società degli Amici Pedanti, una sorta di accademia in cui si riunivano poeti o quanti ambivano ad esserlo, che avevano la poesia del romanticismo sulle scatole. Di più, ne erano proprio oppositori! Contro Manzoni, contro gli scapigliati, contro la poesia moderna, essi predicavano un ritorno al classicismo, alle forme di una volta. La maggior parte della produzione poetica di Carducci, quindi, è proprio orientata in questo senso: classicismo, classicismo, classicismo! Effettivamente, questo rigore nel suo modo di verseggiare si mostra bene già soltanto guardando un suo ritratto: il volto austero, lo sguardo severo, sembra sempre arrabbiato, senza ridere mai, pronto a sgridare. Certo, i suoi alunni dovettero sudarseli i bei voti, pare che non mettesse mai più di 6 e ben volentieri meno di 5. A scuola, poi, lo chiamavamo il mietitore, perché a fine anno falciava con le bocciature che era un piacere, anzi, un dispiacere, per chi ci incappava.
Nella sua prima raccolta di versi, “Juvenilia” (cose di gioventù), i modelli poetici antichi sono ben riconoscibili, per lui che si definì “lo scudiero dei classici”.
“Qual sovra la profonda pace del glauco pelago uscì Venere, e l’onda accese e l’aer e l’isole, quando al ciel le divine luci alzò raccogliendo il molle crine;“
(“Juvenilia”, Canto di primavera, vv. 1 – 6)
A questa, seguì il florilegio intitolato “Levia Gravia” (cose leggere e cose pesanti), che, però, non è l’apice della sua creatività. Poi, “Giambi ed Epodi“, la raccolta delle polemiche, dove, ispirandosi alla satira del poeta greco antico Archiloco e a quella del latino Orazio, distribuisce la sua dose di rimbrotti a tutte quelle cose le quali, secondo lui, non vanno affatto bene. Le “Rimenuove” invece, contiene alcune tra le sue più belle e famose liriche. Il poeta è ormai maturo, ha un proprio stile e la consapevolezza di essere riconosciuto come grande verseggiatore. Questa, di seguito, è “Pianto antico“, dedicata del figlioletto Dante, morto di tifo a soli tre anni:
“L’albero a cui tendevi la pargoletta mano, il verde melograno da’ bei vermigli fior,
nel muto orto solingo rinverdì tutto or ora e giugno lo ristora di luce e di calor.
Tu fior de la mia pianta percossa e inaridita, tu de l’inutil vita estremo unico fior.
Sei ne la terra fredda, sei ne la terra negra; né il sol più ti rallegra né ti risveglia amor“.
Le “Odi barbare” sono il curioso tentativo dell’Autore di riproporre i metri della poesia classica, adattati a quelli della poesia italiana. Il titolo gli venne in mente pensando a come le sue odi sarebbero state giudicate dagli antichi greci e latini, barbare, appunto. Non soddisfatto di queste prima serie di “barbarie”, ne volle comporre ancora e le inserì, insieme ad altri versi, nella raccolta “Rime e Ritmi“.
“La nebbia a gl’irti colli
piovigginando sale,
e sotto il maestrale
urla e biancheggia il mar; ma per le vie del borgo
dal ribollir de’ tini
va l’aspro odor de i vini
l’anime a rallegrar.
Gira su’ ceppi accesi
lo spiedo scoppiettando:
sta il cacciator fischiando
su l’uscio a rimirar
tra le rossastre nubi
stormi d’uccelli neri, com’esuli pensieri, nel vespero migrar“.
(“Rime e Ritmi”, San Martino)
Quando frequentavo la quarta elementare, ricordo di aver passato un intero pomeriggio ad imparare a memoria questa poesia, di essermi svegliato un’ora prima la mattina dopo per ripassarla e, comunque, di aver pianto davanti alla maestra perché non la rammentavo tutta. Ho sempre odiato il dover imparare le cose a memoria. Che utilità c’è a conoscere il testo di una poesia senza, poi, riconoscerne e capirne i temi? Questo vorrei chiederlo al professor Carducci. Chissà cosa mi risponderebbe!
I Medici, signori di Firenze, ebbero il loro circolo di intellettuali, poeti e filosofi (Poliziano, Pico della Mirandola, Pulci, solo per citare i più famosi). Allo stesso modo, un barbiere ne creò uno nella sua bottega: il Burchiello. Domenico di Giovanni nacque a Firenze nel 1404. Il padre, un umile legnaiolo, non poté certo mandarlo a scuola e il figlio dovette arrangiarsi, imparando a tagliare barbe e capelli. Il suo salone a Calimala, però, divenne una vera e propria associazione culturale e politica contro i Medici. Vi partecipavano tutti quelli che avevano la passione per i versi e quelli non sopportavano i padroni della città. Proprio per questo, il povero barbiere fu costretto a lasciare la città dell’Arno trasferendosi prima a Siena, dove, evidentemente, per arrotondare, si diede ai furti e fu più volte pizzicato, e, poi, a Roma, dove cercò di aprirsi un negozietto, ma morì come un miserabile, nel 1449. Le sue poesie, a dire la verità, sono abbastanza incomprensibili. Eccone una, ad esempio:
Nominativi fritti e mappamondi e l’arca di Noè fra due colonne cantavan tutti chirieleisonne per l’influenza dei taglier mal tondi. La Luna mi dicea: Ché non rispondi? E io risposi: “Io temo di Giasonne, però ch’io odo che ‘l diaquilonne è buona cosa a fare i capei biondi.” Per questo le testuggini e i tartufi m’hanno posto l’assedio alle calcagne dicendo: “Noi vogliam che tu ti stufi”. E questo sanno tutte le castagne: pei caldi d’oggi son sì grassi i gufi, ch’ognun non vuol mostrar le sue magagne. E vidi le lasagne andare a Prato a vedere il Sudario, e ciascuna portava l’inventario. (Nominativi fritti e mappamondi)
Il poeta intendeva prendere in giro gli umanisti e la loro perfezione linguistica. Come avrebbe potuto farlo meglio se non costruendo un linguaggio che non esprimesse proprio niente? In altri sonetti se la prese con la sorte, che, a suo dire, gli aveva riservato una vita schifosissima, piena di malattie, pidocchi, galera. In altri, con Petrarca e i suoi seguaci.