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Alcune riflessioni sul tempo presente attraverso i concetti di “Leadership” ed “Etica”

 

Dedicate al prof. Antonino Giannone*  nel giorno del suo genetliaco

 

 

L’era digitale in cui stiamo vivendo è un periodo decisamente tormentato. Le tecnologie che adoperiamo sono mutate rispetto a qualche decennio fa e i cambiamenti che queste hanno portato non sono stati affrontati sempre con tempestività. Le imprese si trovano al centro di questo processo di evoluzione e cambiamento continuo. Sfide diverse si presentano alla società e per questo è necessario trovare nuovi modelli organizzativi, nuove strategie e nuovi modi di pensare per affrontare il mercato. Bisogna saper prendere decisioni per raggiungere specifici obiettivi. Senza piani strategici le aziende restano fragili. In questi contesti, i codici etici assumono capitale importanza. Il rispetto di valori etici come l’onestà, la trasparenza, la giustizia, la moralità è dovuto non solo dai dipendenti, ma dall’intero management. Servirebbe un recupero dell’etica, che, nella società della globalizzazione, è caduta in ogni professione e attività. Bisognerebbe riscoprire i principi e i comportamenti ispirati dalle virtù umane, tramandate, sin dai tempi antichi, dai grandi filosofi greci e latini e, poi, dai pensatori moderni e contemporanei. Apprendere e imparare i valori fondamentali e fondanti dell’uomo, che hanno caratterizzato la sua storia, per ridurre il degrado delle relazioni sociali ed economiche nella società globalizzata, dove prevale la spietata logica del più forte, quella dell’avere rispetto all’essere. Le imprese hanno conquistato il potere d’azione, finora addomesticato con la politica dello Stato sociale del capitalismo. Con la globalizzazione, le imprese sono arrivate a detenere un ruolo chiave non solo nell’organizzazione dell’economia ma anche in quella della società nel suo complesso. L’economia che agisce in maniera globale sgretola i fondamenti degli Stati-Nazione e della loro economia nazionale. Il potere delle imprese internazionali si fonda sulla possibilità di esportare i posti di lavoro dove ciò è più conveniente. Negli ultimi anni, il concetto di etica sembra sia diventato protagonista del dibattito economico: sempre più spesso si usano espressioni come finanza etica, commercio etico, etica degli affari, e tutte le maggiori aziende internazionali si sono dotate di un codice etico. Fa da contraltare a questa apparente “eticizzazione” dell’economia una crisi gravissima, interpretabile anche come la conseguenza e il frutto di comportamenti eccessivi e spregiudicati da parte di alcuni operatori economici. La spiegazione di questo paradosso potrebbe risiedere nel fatto che la domanda di comportamenti etici è una reazione e, appunto, una prevedibile risposta alla crisi attuale, ma anche che la professione di eticità sia in questa fase un mero strumento di marketing usato per mascherare e giustificare comportamenti che, nella sostanza, continuano a essere tutt’altro che etici. L’eredità spirituale dell’ultimo conflitto mondiale è forse l’aver mostrato che l’etica si fonda più che sulle buone intenzioni sull’assumersi pienamente le proprie responsabilità verso gli altri. L’etica è, innanzitutto, un problema di assunzione in prima persona di responsabilità verso una collettività. Ne consegue che l’economia che regola gli scambi tra collettività di attori, tanto a livello di impresa che di interi sistemi economici, sia un campo privilegiato per lo svolgimento del discorso etico. A livello di impresa, può essere opinabile e non oggettivamente misurabile determinare se e quanto una certa azienda, nel suo complesso, sia etica. L’etica dell’impresa può essere vista come il prodotto dei valori che tengono insieme il gruppo e dei meccanismi che premiano il rispetto di questi valori. L’implicazione operativa per i tutti i membri dell’impresa, e soprattutto per i vertici, è che da un lato i valori devono essere chiaramente definiti e comunicati, e, dall’altro, che la devianza dai principi deve essere esplicitamente sanzionata anche se ciò avvenisse a discapito del ritorno economico di breve. A livello di intero sistema economico, se la diatriba teorica sulla eticità del principio del mercato versus altre forme di organizzazione economica tende ad apparire sterile, il focus del confronto dovrebbe piuttosto essere su quali meccanismi, regole e correttivi possano essere introdotti per migliorare il sistema rendendolo tangibilmente più giusto ed equo. Anche in questo caso, la riposta migliore sta nel riconoscimento dei valori condivisi in cui una comunità locale, nazionale o internazionale si riconosce, e su cui ha deciso di fondare la propria vita civile e il proprio destino. Troppo spesso si dimentica il ruolo fondante e preordinato rispetto agli aspetti economici che le dichiarazioni dei valori di libertà, uguaglianza e di ricerca della pace hanno nella nostra Carta Costituzionale o nella Carta dei diritti dell’Unione Europea, e perfino in un documento che regolava solo transazioni squisitamente commerciali come il Trattato della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio. Solo alla luce di questi valori si può raccogliere la “sfida etica” della globalizzazione per ristabilire il primato delle regole, ritrovando il difficile ma imprescindibile equilibrio tra efficienza, equità, libertà e benessere.

 

* Docente di Leadership and Ethics presso Icelab, del Politecnico di Torino, ICT for Logistics and Enterprises Center e docente presso la Link Campus University di Roma, nel corso di Laurea Magistrale in Business Management e Gestione Aziendale. Dopo la laurea in Ingegneria al Politecnico di Torino e le specializzazioni in Management in Italia e all’estero (Londra, Parigi, Zurigo, San. Francisco, New York), ha ricoperto ruoli di direzione, fino a direttore Generale e Consigliere di Amministrazione, in aziende industriali e di servizi di assistenza ospedaliera e sanitaria. Pubblicazioni: Etica professionale e Leader nella società della Globalizzazione (ed. CLUT Torino); Etica professionale e Relazioni industriali (ed. CLUT); Strategie aziendali (ed. CLUT); Valori fondanti ed etica per la società della globalizzazione (ed. Mazzanti, Venezia); Elementi di politica aziendale e innovazione tecnologica (ed. Cacucci, Bari), oltre a centinaia di articoli su riviste specializzate e siti web. Socio onorario dell’Accademia di storia dell’Arte sanitaria. Socio fondatore del CEIIL (Centro economia industria informatica e lavoro). In uscita, per Eurilink University Press (giugno 2020), LEADERSHIP AND ETHICS NELLA SOCIETÀ DELLA GLOBALIZZAZIONE – Compendio di lezioni e seminari.

 

 

 

 

 

Il mondo si divide esclusivamente in ricchi e poveri

 

 

Sono sempre stato convinto che il mondo non si divida in bianchi o neri, religiosi o atei, belli o brutti, buoni o cattivi, ma semplicemente in ricchi e poveri
Sentite un po’ Voltaire:

Entrate nella Borsa di Londra, lì l’ebreo, il maomettano e il cristiano si trattano reciprocamente come se fossero della stessa religione e chiamano infedeli solo quelli che fanno bancarotta“. 
“Lettere filosofiche”, 1734

Alla Borsa di Amsterdam, di Londra, di Surat o di Bassora, il ghebro, il baniano, l’ebreo, il musulmano, il deicola cinese, il bramino, il cristiano greco, il cristiano romano, il cristiano protestante, il cristiano quacchero trafficano insieme; nessuno di loro leverà il pugnale contro un altro per guadagnare anime alla propria religione. Perché, allora, ci siamo scannati a vicenda quasi senza interruzione, dal primo concilio di Nicea in poi?”. 
“Dizionario filosofico” (voce “Tolleranza”), 1764

 

François-Marie Arouet, detto Voltaire (1694-1778)

 

 

I “Fugger”: la famiglia più ricca fra Medioevo e Rinascimento

 

di

Annalisa Lo Monaco

 

 

Dimenticate i Rockefeller e i Rothschild, dimenticate le speculazioni complottiste sul “Nuovo Ordine Mondiale”: la prima famiglia a tenere in pugno i potenti della terra furono i Fugger, di Augsburg (Augusta), in Germania. Ricchi come nessuno mai nella loro epoca e fino al XX secolo: il loro patrimonio arrivò ad ammontare a 350 miliardi di euro (al valore attuale) e si contendono il titolo di…

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Jacob Fugger “Il Ricco” (1459 – 1525)

 

Anton Fugger (1493 – 1560)

 

 

La concreta filosofia inglese e la forza della sterlina

 

 

Gli inglesi, per quel che concerne la storia del pensiero, si sono distinti dagli altri popoli europei, antichi e moderni, a causa di quella impronta, ad essi del tutto peculiare, tendenzialmente antimetafisica ed essenzialmente pragmatica. A scorrere rapidamente quella storia, infatti, ciò può essere facilmente notato:1 quando il Medioevo volgeva ormai al termine, mentre nelle scuole del resto d’Europa i dotti erano ancora impelagati nelle dispute scolastiche sulle prove dell’esistenza di Dio, sugli universali, sulla Trinità e sui quodlibeta, Roger Bacon (immagine a sinistra), filosofo, scienziato e mago, il Doctor mirabilis (Dottore dei miracoli), fondava la gnoseologia empirica, secondo la quale l’esperienza sia il vero e unico mezzo per acquisire conoscenza del mondo. Tre erano, secondo il filosofo, i modi con cui l’uomo potesse comprendere la verità: con la conoscenza interna, data da Dio tramite l’illuminazione; con la ragione, la quale, però, non è bastevole, e, infine, con l’esperienza sensibile, ovvero tramite i cinque sensi, il non pus ultra di cui esso possa disporre e che gli consente di avvicinarsi alla reale conoscenza delle cose. 1Il frate francescano William of Ockham, il Doctor invincibilis (Dottore invincibile), con il suo famosissimo rasoio, semplificò al massimo la spiegazione dei fenomeni, mostrando l’inutilità di moltiplicare le cause e di introdurre enti al di là della fisica: “Frustra fit per plura, quod fieri potest per pauciora” (è inutile fare con più, ciò che si può fare con meno). Francis Bacon (immagine a destra), il filosofo dell’adagio “Sapere è potere”, padre della rivoluzione scientifica e del metodo scientifico nell’osservazione e nello studio dei fenomeni attraverso l’induzione, meglio definita e rinnovata rispetto a quella aristotelica, fu avversatore dei pregiudizi, da lui chiamati idola (idoli o immagini), che impedivano la reale conoscenza e intelligenza della natura, e fu ispiratore di un’altra grande mente inglese, Isaac Newton, lo scienziato-osservatore empirico per eccellenza. Thomas Hobbes diede spiegazione a tutti gli aspetti della realtà col suo materialismo meccanicistico, annullando la res cogitans (sostanza pensante) di Cartesio e il suo ambiguo rapporto con la res extensa (sostanza materiale), retroterra sul quale basò la sua concezione della natura umana, della condizione di guerra di tutti contro tutti (l’homo homini lupus),1 del patto di unione e del patto di società, dai quali sarebbero poi nati, rispettivamente, la civiltà e, attraverso la rinuncia da parte di ogni uomo al suo diritto su tutto e la cessione di questo al sovrano, lo Stato, il Leviatano. John Locke (immagine a sinistra), l’empirista, l’autore di An essay concerning human understanding (Saggio sull’intelletto umano), sosteneva che tutta la conoscenza umana derivasse dai sensi. Indagò le idee e i processi conoscitivi della mente, criticando l’innatismo cartesiano e leibniziano, e, tra l’altro, fu strenuo propugnatore del liberalismo politico e della tolleranza religiosa. David Hume, l’estremo dell’empirismo inglese, asseriva, come Locke, che la conoscenza non fosse innata, ma scaturisse dall’esperienza. Egli negò sia la sostanza materiale che quella spirituale, tutto riducendo a sensazione e stato di coscienza. 1Demolì il concetto di causa, ritenendolo mero costume della mente, suscitato dall’abitudine, e postulò, quali conoscenze universali e necessarie, soltanto quelle della geometria, dell’algebra e dell’aritmetica. Adam Smith (immagine a destra), filosofo ed economista, teorizzò l’idea che la concorrenza tra vari produttori e consumatori avrebbe generato la migliore distribuzione possibile di beni e servizi, poiché avrebbe incoraggiato gli individui a specializzarsi e migliorare il loro capitale, in modo da produrre più valore con lo stesso lavoro. 1E, infine, l’Utilitarismo di Jeremy Bentham e John Stuart Mill prima, con tutte le implicazioni morali (o moralmente inglesi), legate ai concetti di “utile” e di “felicità“, e quello di Henry Sidgwick (immagine a sinistra), poi, col suo edonismo etico, mediante il quale aggiunse importanti precisazioni ai concetti dell’utilitarismo classico. Queste riflessioni filosofiche hanno certo corrispettivo pratico allorquando si osservano attentamente tutte le sfaccettature dell’English way of life e dei princìpi che, ancora oggi, lo animano. Il motivo per cui gli inglesi, fino a circa settant’anni fa, hanno realmente dominato il mondo (basti pensare al British Empire e al Commonwealth), ha le proprie basi nel pragmatismo che, dal 1200 in poi, ha caratterizzato le sue classi intellettuali e, di riflesso, quelle deputate all’azione. Un popolo non condizionato dalla religione, come lo sono stati, dal Medioevo alle soglie dell’età contemporanea, la maggior parte dei Paesi cattolici europei, libero di sottomettere altre genti, che non ha combattuto in nome di Dio ma degli uomini, era destinato ad avere il ruolo che ha avuto e che ancora ha. Del resto, negli stessi anni in cui un bardo venuto dalle Midlands incantava gli spettatori del Globe Theatre a Londra, mettendo in scena l’amore tra Romeo e Giulietta, la filosofia dell’essere e del non essere e la gelosia di Otello, la regina Elisabetta I nominava baronetto il più astuto e lesto pirata della storia: sir Francis Drake!

 

Pubblicato il 28 luglio 2011 su www.caravella.eu

 

 

TTIP: chi ne parla in Italia?

 

 

Siamo alle solite: quando qualcosa è suscettibile di stravolgere la vita di milioni di cittadini, nel nostro Paese si evita scientemente di parlarne, sia mai che qualcuno di troppo riesca a farsi un’idea su chi stia combinando cosa e con quali effetti! TTIP è l’acronimo di Transatlantic Trade and Investment Partnership e trattasi dell’accordo di libero scambio tra UE e USA, definito il più grande della storia (cd. “NATO economica”). L’intesa nasce nel 2007, con l’istituzione del Consiglio Economico Transatlantico. barroso-obama-van-rompuy-419x270Successivamente, nel febbraio 2013, il presidente della Commissione Europea Josè Manuel Barroso, il presidente statunitense Barack Obama e il presidente del Consiglio Europeo Herman Van Rompuy (in foto da sinistra a destra) annunciano l’avviamento delle procedure interne per lanciare il negoziato. Infine, il 14 giugno 2013, il Consiglio Europeo investe la Commissione del mandato per negoziare, a nome dell’UE, sul TTIP. In base a quanto trapelato, l’accordo prevede l’eliminazione dei dazi e delle barriere non tariffarie tra Stati Uniti ed Unione Europea, la semplificazione della compravendita di beni e servizi fra le due aree e, come conseguenza, lo sviluppo economico delle due macroaree, favorendo la creazione di nuovi posti di lavoro e l’abbassamento dei prezzi. Tutti obiettivi lodevoli ma, nella sostanza, cosa sarebbe necessario per il loro perseguimento? La loro realizzazione prevede obbligatoriamente una sostanziale deregulation che passi per l’allineamento e l’armonizzazione delle norme sul commercio, sull’ambiente, sulla salute e sul lavoro. imagesS6ML61PALe fonti ufficiali dell’UE indicano quale uno dei punti alla base della partnership quello della formulazione di nuove regole comuni, nei settori interessati dall’accordo, che abbiamo il preciso scopo di sanare le divergenze, attualmente  esistenti tra le due legislazioni. Nell’annunciare quest’intenzione hanno, comunque, assicurato il rispetto degli standard esistenti a livello europeo nei settori ambiente, salute, sicurezza, privacy, diritti dei lavoratori e dei consumatori. L’UE ha affermato come le politiche già intraprese in questi ambiti “non siano sul tavolo delle negoziazioni”. C’è da credergli? Il sistema europeo è iper-regolato e, in generale, presenta tutele e ammortizzatori più solidi rispetto a quello americano, proveniente da anni di deregulation. Un’armonizzazione dei due sistemi è molto complicata e potrebbe causare, soprattutto in una prima fase, vuoti normativi che favorirebbero le grandi multinazionali americane a discapito delle nostre piccole e medie imprese (PMI), che vedrebbero, così, messa a rischio la loro stessa sopravvivenza. Stando sempre alle indiscrezioni (giova qui ricordare che le trattative sono condotte in gran segreto), uno dei principali problemi dell’accordo è il mutuo riconoscimento, secondo cui se una cosa è commerciabile in USA lo sarà anche in Europa. CHAPA-11-OCT-TTIPVia libera, dunque, a OGM senza etichettatura, a carne gonfia di ormoni e antibiotici e a pesticidi attualmente vietati in Europa… con tanti saluti alle promesse sbandierate. Non bastasse, se uno Stato membro non dovesse essere d’accordo, dovrà comunque piegarsi alle multinazionali, le quali, attraverso l’ISDS (Investor to State Dispute Settlement), una sorta di camera arbitrale, potranno citare in giudizio, per danni, enti locali e Stati sovrani che dovessero ostinarsi a vietare la commercializzazione di determinati beni. Ben vengano, quindi, le iniziative dei soliti cittadini disfattisti e malpensanti. È grazie alle loro pressioni se oggi possiamo giovare di un minimo di trasparenza in più su questo argomento.

Anche in Italia, pian piano, si sta muovendo qualcosa e le adesioni alla campagna “Stop TTIP” continuano a crescere. Per quanti la pensassero allo stesso modo, è possibile firmare la petizione attraverso questo link: http://stop-ttip-italia.net/

 Giuseppe De Simone

 

 

NASpI: sollievo, solo momentaneo, per i lavoratori stagionali

 

Questo articolo fa seguito ad uno precedente (leggi). Avevamo promesso di seguire la delicata questione dei sussidi di disoccupazione ai lavoratori stagionali. Eccone gli sviluppi. Continueremo, comunque, a tenervi aggiornati!

Dopo la pubblicazione dei nuovi decreti attuativi del Jobs Act (D. Lgs. n. 148 e n. 150 del 2015), l’INPS, il 27 novembre scorso, ha diramato la Circolare n. 194, con misure importanti per i disoccupati e per gli ammortizzatori sociali a loro collegati. A cambiare è, innanzi tutto, la durata massima della NASpI: l’art. 43, comma 3 del D. Lgs. n. 148 del 2015, dispone la soppressione dell’ultimo periodo dell’art. 5 del D. Lgs. n. 22 del 2015, il quale prevedeva che,images per gli eventi di disoccupazione verificatisi dal 1° gennaio 2017, la NASpI sarebbe stata corrisposta per un massimo di 78 settimane, ovvero un anno e mezzo. L’abrogazione dell’ultimo periodo del succitato articolo, comporta, pertanto, che anche in relazione agli eventi di disoccupazione che si verificheranno successivamente al 1° gennaio 2017, la NASpI potrà essere corrisposta, in proporzione al numero di settimane di contribuzione utile, presenti nel quadriennio di osservazione, per una durata fino ad un massimo di ventiquattro mesi. Il correttivo tanto atteso che, invece, dà sollievo alle pene dei lavoratori stagionali nel nostro paese, è contenuto nel comma 4 dell’art. 43 del  D. Lgs. n. 148 del 2015. La norma, con esclusivo riferimento agli eventi di disoccupazione verificatisi tra il 1° maggio 2015 e il 31 dicembre 2015, prevede la non applicabilità del secondo periodo del comma 1 dell’art. 5 del D. Lgs. n. 22 del 2015, il quale stabilisce che, ai fini del calcolo della durata, non sono computati i periodi contributivi che hanno dato già luogo ad erogazione di prestazioni di disoccupazione, fruite negli ultimi quattro anni. Ne consegue che, qualora la durata della NASpI, calcolata sulla base delle disposizioni di cui all’art. 5 del richiamato decreto legislativo n. 22, risulti inferiore ai sei mesi, sono computati, ai fini della determinazione della durata della prestazione, i periodi contributivi che hanno dato già luogo ad erogazione delle indennità di disoccupazione ordinaria, con requisiti ridotti e di miniASpI 2012, fruite nel quadriennio di osservazione. Attenzione, la durata della NASpI così calcolata non può, in ogni caso, eccedere i sei mesi. L’INPS precisa che il calcolo dell’indennità NASpI, secondo quanto disposto dal richiamato art. 43, comma 4, deve essere effettuato ove la cessazione involontaria del rapporto di lavoro, che dia luogo alla domanda di NASpI, sia avvenuta con un datore di lavoro rientrante nei settori produttivi del turismo e degli stabilimenti termali. Trattandosi, dunque, di disposizione applicabile esclusivamente ai lavoratori del turismo e degli stabilimenti termali con qualifica di stagionali, l’INPS ha ritenuto necessario stilare una lista preliminare delle attività economiche di interesse e, di conseguenza, dei lavoratori destinatari della speciale modalità di calcolo della NASpI. In particolare, l’elenco comprende: alberghi e villaggi turistici, affittacamere e B&B; rifugi montani, colonie e ostelli della gioventù; stabilimenti balneari; bar e ristoranti (anche ambulanti); pasticcerie e gelaterie; tour operator; agenzie di viaggio; guide e accompagnatori turistici; stabilimenti termali. Tuttavia, non affrettatevi a stappare lo champagne! Trattasi sicuramente di misure molto positive, ma i cui vincoli sono piuttosto stringenti.naspi-continua-la-battaglia-dei-lavoratori-stagio-96722 In primo luogo, come già detto, si tratta di una misura correttiva, che non avrà vita lunga: come si legge chiaramente dal dettato normativo, infatti, il nuovo calcolo riguarderà solamente gli eventi di disoccupazione verificatisi tra il 1° maggio e il 31 dicembre 2015. Quindi, nelle more di una modifica strutturale o di un nuovo correttivo, agli stagionali che perderanno il lavoro nel 2016 si applicherà la regola generale. Non bastasse a smorzare gli entusiasmi, vi è un altro vincolo, più forte, che è il “solito” di bilancio: è stabilito che l’INPS dovrà provvedere al monitoraggio degli effetti finanziari, derivanti dall’applicazione della disposizione in argomento. Qualora si verifichino o siano in procinto di verificarsi scostamenti rispetto alla previsione di spesa (32,8 milioni per il 2015 e 64,6 milioni per il 2016) si provvederà, con apposito decreto del Ministro dell’Economia e delle Finanze, alla rideterminazione del beneficio in questione.

Giuseppe De Simone

 

Ecosostenibilità e sviluppo economico per le città dei Paesi del G8

 

Ecosostenibilità come fattore di sviluppo per le città. È uno dei risultati del City RepTrak Study 2015, un’indagine basata su 22mila interviste ad abitanti dei Paesi del G8. In base all’analisi, una città, per essere veramente smart, non deve limitarsi all’offerta di servizi interattivi, alla diffusione della banda larga, etc., ma deve dimostrare anche di attuare politiche ambientali all’avanguardia, tese al rispetto della bellezza dei luoghi e della natura.Effective Government “L’attuazione di politiche sostenibili è uno dei 13 fattori che influenzano la reputazione delle città ed è il quinto per importanza, più rilevante della stabilità economica o delle infrastrutture: ciò significa che i cittadini del mondo attribuiscono parecchio valore al tema sostenibilità”, spiega Michele Tesoro-Tess, managing director di Reputation Institute Italy & Middle East. Per apprezzare al meglio il vantaggio competitivo creato da efficaci politiche urban green, può essere sufficiente guardare all’impatto che queste hanno su alcuni parametri del PIL. “Dallo studio 2015 risulta che un aumento di 5 punti in sustainability performance da parte di una città, corrisponde a una propensione dei cittadini mondiali a michele-tesoroincrementare, in quel luogo, gli investimenti (del 3,9%), i viaggi (del 5,6%), lo shopping (del 4,7%)”, sostiene Tesoro-Tess (foto a sinistra). Pertanto, la scelta della meta di una vacanza, la decisione su dove stabilire un’azienda o, ancora, ad esempio, la programmazione del trasferimento da parte di un talento, sono fortemente legate alla sostenibilità/reputazione della città. Se si prende, ad esempio, Stoccolma, la città leader tra le 100 al mondo, esaminate sotto il profilo della reputazione green, questa può vantare il 43% degli intervistati nel mondo, che investirebbe nella città, il 65% che la visiterebbe in vacanza e il 49% che andrebbe a viverci. Guardando, invece, in casa nostra, a Milano – al 37esimo posto della classifica insieme con Roma -, le stesse percentuali ammontano al 31%, al 59% e al 34%. Si può e si deve far di più per migliorare sia le politiche green, sia la percezione delle stesse. Sfogliando la Top 50 delle città giudicate in base alla sostenibilità percepita, nel 2015, come già detto, è balzata al comando Stoccolma, scalzando Monaco di Baviera, davanti alle australiane Melbourne e Sydney, che storicamente hanno sempre avuto performance eccellenti. Al settimo posto, Londra. Una menzione speciale la merita Vancouver (18esima). Questa sta diventando, negli ultimi anni, la star internazionale della sostenibilità. Dal 2011 sta trasformando in realtà l’ambizioso Greenest city 2020 action plan, avvicinandosi sempre più all’obiettivo di diventare, entro il 2020, la città più ecologica al mondo. Dieci gli obiettivi da raggiungere in diversi ambiti: green economy, leadership sui cambiamenti climatici, green building, trasporti sostenibili, zero waste, accesso a spazi verdi, impronta ecologica più leggera, acqua e aria pulita, prevalenza di alimenti a km 0. Vancouver ha già realizzato più dell’80% delle azioni prioritarie, fissate nel 2011 per raggiungere i 10 obiettivi, vincendo 9 premi negli ultimi due anni per la vivibilità e la sostenibilità. Ritornando alla classifica del Reputation Institute, tra i continenti svetta l’Europa: 7 città tra le top 10 sono, infatti, nel Vecchio continente: Stoccolma, Ginevra, Copenhagen, Berlino, Londra, Zurigo e Oslo. Delude, ma non mi sorprende, la posizione delle italiane; come già detto, Roma e Milano si fermano al 37esimo posto, Firenze al 48esimo, nemmeno pervenuta Venezia. Cosa fare dunque per accrescere la reputazione green delle città? Bisogna, innanzitutto, partire da un piano condiviso e articolato di politiche efficaci, a difesa dell’ambiente e della vivibilità, senza “imbarazzarsi” di attingere dalle best practice internazionali.url-2 Dopodiché, è necessario metterlo in pratica, con coerenza, evitando che resti “carta morta” (cosa che, troppo spesso, avviene nella nostra bella Italia), accollandosi anche investimenti (non costi) extra. E, infine, comunicare i miglioramenti raggiunti con una forte azione di merketing internazionale. “Troppe volte abbiamo visto città, Paesi e anche aziende realizzare cose eccellenti nell’ambito della sostenibilità, senza poi renderle note al mondo: così i risultati si affievoliscono e l’entusiasmo si smorza; solo facendo sistema, tra pubblico e privato, tra Governi e cittadini, la sostenibilità può diventare una leva di extra-Pil», conclude Tesoro-Tess. Tutto facile a dirsi e, forse, anche a farsi, come dimostra il caso Vancouver, se solo, però, ci fosse il forte impegno del Governo centrale, oltre a quello, non troppo scontato, di cittadini e imprese.

Giuseppe De Simone

 

 

La bolla del Dragone

 

Anni ed anni di crescita forte e costante hanno conferito ai governi cinesi di un’aura di onnipotenza ma, mantenere tutto ciò, prima o poi, presenta il suo conto. Tre settimane dopo gli interventi per arginare il crollo dei mercati azionari, con misure senza precedenti, come il ban allo short selling, il divieto di vendita imposto agli azionisti di controllo ed un supporto creditizio diretto da parte della banca centrale cinese, i listini azionari sono precipitati nuovamente. usa-a-cinaChe in Cina ci sia un grossa bolla azionaria, onestamente, nessuno può negarlo. Tra i primi trenta titoli per performance (rendimenti oltre il 300% nell’ultimo anno), la metà presenta un rapporto prezzo/utili sopra le 50 volte. Rapporti impossibili da sostenere nell’attuale situazione economica cinese. Il quadro di profittabilità della sua industria, infatti, è in rapida decelerazione e non da poco tempo. Secondo uno studio UBS, la redditività straordinaria delle imprese cinesi si è contratta dello 0,8% nei primi 5 mesi del 2015. Il tasso è, ovviamente, ancora positivo, ma ben lontano dall’oltre il 40% annuo del 2011. Non c’è da stupirsi, anche il PIL che veleggiava a tassi del 12-13% fino al 2010 si è indebolito fino al ritmo del 7% annuo, con stime che fissano il livello tra il 6 e il 7% come il passo di marcia di un’economia, sicuramente forte, ma non più a tassi da emergente. E’ tutta qui l’incongruenza con l’azionario: non si può crescere del 150% nell’ultimo anno, come ha fatto il listino di Shangai, con un’economia contratta e con ricavi e profitti che rallentano. Sommando tutti questi fattori, ecco la ricetta per una bolla finanziaria perfetta. Adesso tutti gli occhi sono puntati su Beijing, dove il governo deve affrontare un difficile dilemma: affondare ancora di più nel tentativo di puntellare il mercato o lasciar cadere la sua maschera di invulnerabilità. Intanto, lunedì scorso sera, dopo il tonfo dei mercati (attenuato solo grazie alla regola che prevede l’automatica sospensione dalla negoziazione di quei titoli il cui prezzo aumenta o diminuisce più del 10%), 247706-files-china-forex-yuan-invest-business-asianessuna parola su cosa sia in pianificazione per il futuro è stata proferita dalle autorità cinesi. Zhu Ning, deputy dean allo Shanghai Advanced Institute of Finance, ha affermato: “Se il governo non farà nulla, allora tutti gli sforzi già fatti saranno stati inutili. Se, invece, continuerà ad impegnarsi nei salvataggi, il buco continuerà a farsi sempre più grande. Speriamo che il regolatore rispetterà il mercato e le sue leggi”. Il grosso problema è che in passato il governo ha già snobbato le leggi di mercato e, il conseguente incremento delle quotazioni, ha infuso negli investitori l’aspettativa di sempre maggiori interventi da parte delle autorità ogni volta che se ne presentasse la necessità. Ciò non bastasse, ci sarà, con molta probabilità, un altro grande prezzo da pagare al quale la Cina sta tentando di sottrarsi. Secondo alcune stime, più di 564 miliardi di dollari di debiti sono legati alla speculazioni sulle azioni. Altri pochi Lunedì neri come quello scorso e i danni ai bilanci delle famiglie si riverseranno inesorabilmente sull’economia reale. Ma il danno più grave sarebbe, comunque, psicologico. Avendo per così tanto tempo dato l’impressione di esser capaci di far virare l’economia esattamente nella direzione voluta, la leadership cinese potrebbe essere costretta a concedere un chiaro limite al suo potere e questo potrebbe sferrare un duro colpo alla fiducia nell’economia asiatica, in un’epoca dove sta già rallentando la sua corsa. borsa-cinese-speculazione-e1436432157312Tuttavia, è una concessione necessaria. Non c’è modo di sapere quanto le autorità dovrebbero acquistare per stabilizzare i corsi azionari. La confidenza degli investitori, interamente basata sul supporto statale, potrebbe svanire non appena lo Stato smettesse di comprare. Senza considerare che le restrizioni agli scambi sono già servite ad annoiare gli investitori internazionali e a minare gli sforzi per elevare il renminbi a valuta di riserva internazionale. Cedere il controllo alle forze di mercato, non solo si scontra con l’ideologia comunista, ma va anche contro il paternalismo che ancora risuona nella vita politica cinese. Volendo usare le parole di un investitore primario, il mercato finanziario “ha bisogno di settimane di terrore” per diventare più sicuro e, qualora il crollo delle quotazioni dovesse intaccare la fiducia dei consumatori cinesi, la Cina possiede altre leve, al di là dell’acquisto di azioni, per spingere la domanda interna. Se mai il governo cinese sarà così saggio da ricordare che la crescita dell’economia reale nel paese del Dragone riposa su spinte strutturali ben più forti delle punzecchiature di un mercato azionario immaturo, è meglio che gli investitori si preparino ad altre settimane inquietanti.

Giuseppe De Simone

 

Standard&Poor’s: gli effetti del Grexit in Eurozona

 

Lo scorso 29 giugno, l’agenzia di rating Standard&Poor’s ha abbassato il rating di lungo periodo della Grecia da CCC a CCC-. La decisione, spiegano, è il diretto risultato di un’accresciuta probabilità che il Paese rinunci alla moneta unica, stimata al 50%, dopo che il Governo greco ha rifiutato Standard-and-Poorstutte le proposte dei creditori e indetto, oggi, domenica 5 luglio, un referendum per demandare al popolo la decisione ultima. Come noto, le indicazioni del Governo sono di votare “OXI” (no). S&P ha recentemente pubblicato un documento in cui cerca di stimare quali sarebbero gli effetti di un abbandono greco della moneta unica. Per gli analisti, le conseguenze sarebbero disastrose per l’economia ellenica, per le sue banche e per tutte le imprese non finanziarie. La Grecia perderebbe definitivamente l’accesso ai finanziamenti della BCE, il ché creerebbe una grave carenza di valuta estera per i settori pubblico e privato. Senza il supporto dell’Eurosistema, il quale, secondo le analisi di S&P attualmente supera il 70% del PIL, il sistema di pagamenti della Grecia crollerebbe e le sue banche non sarebbero più in grado di funzionare. Inoltre, il debito pubblico e privato, denominato fino ad ora in euro, vedrebbe il suo valore nominale aumentato, una volta convertito nella nuova moneta. Tuttavia, la società di rating vede come contenibile il rischio di contagio del Grexit. L’attuale situazione è molto diversa rispetto al 2012, quando la Grecia diventò una preoccupazione diretta: tutti i membri della zona euro (periferia compresa), oggi, infatti, sono più solidi, sia economicamente sia strutturalmente, e la BCE ha finalmente intrapreso un programma di QE (leggi articolo). Le reazioni dei mercati all’inadempienza della Grecia nei confronti del FMI e alla scadenza del programma di aggiustamento UE, sembrano confermare questo punto di vista. Ma, avvertono gli analisti, se la Grecia uscisse dalla moneta unica, sarà stato dimostrato che qualsiasi paese potrebbe rinunciare alla sua permanenza nell’unione monetaria e ciò metterebbe anche in discussione tutte le ipotesi alla base di più di vent’anni di politica e di politica economica. Una strada pericolosa che potrebbe innescare conseguenze a lungo termine, difficili da prevedere. I mercati, ad esempio, potrebbero sollevare dubbi circa gli accordi istituzionali vigenti in Europa, circa il ruolo dei creditori ufficiali e l’efficacia dei controlli UE sull’applicazione dei programmi di sostegno finanziario. L’ambiente macroeconomico potrebbe diventare meno prevedibile, aumenterebbero le controversie legali e l’impegno stesso per la moneta unica potrebbe essere messo in discussione, aggravando la già fragile situazione economica della regione europea. A livello politico, invece, il Grexit accrescerebbe i dubbi circa l’impegno di rafforzare l’intera architettura alla base dell’Unione Europea. imagesAnche se, dalle parti di S&P, ritengono che i partiti anti UE perderanno molto consenso dopo che i costi sociali ed economici greci si saranno manifestati. Reputano, pertanto, che l’uscita della Grecia dall’Euro sia un evento unico nel suo genere, che potrebbe portare, nel lungo termine, notevoli danni, in tema di coesione politica, in Europa. In base alle simulazioni Standard&Poor’s e Oxford Economics, l’impatto economico complessivo del Grexit sarebbe grave per la Grecia, ma più contenuto per il resto della zona Euro. Le ipotesi chiave per condurre lo studio sono state:

  • la Grecia abbandona la zona Euro il 1° luglio 2015;
  • la Grecia torna alla Dracma. I mercati spingono la moneta sotto il suo tasso di pre-conversione, GDR340/€1, fino a GDR540/€1 nel 4° trimestre;
  • la Grecia fallisce e taglia il suo debito pubblico da 314 Mld€ a 164 Mld€. I restanti membri dell’Eurozona “fanno buone” le perdite della BCE e incrementano il loro debito;
  • un enorme shock di fiducia colpisce l’economia greca, pari a quattro volte l’impatto che sperimentò con la caduta della Lehman;
  • il Grexit richiede alla BCE di rispondere in modo aggressivo, anticipando i piani del QE nel quadrimestre immediatamente successivo al default.

Poiché la Grecia è una piccola economia e tradizionalmente più chiusa rispetto alle altre del blocco europeo, gli effetti commerciali diretti di una sua uscita sarebbero ridotti per le altre economie. Escludendo Cipro (19% di esportazioni verso la Grecia, nel 2013), solo due economie esportano più del 2% del loro totale verso Atene: Macedonia (4,2%) e Malta (3,3%). Eurozone Real GDPAnche ipotizzando un crollo delle importazioni greche del 50% l’anno dopo la sua uscita, questo avrebbe un impatto limitato su Germania, Francia e Italia, stimato tra -0,3% e -0,5% sulla domanda totale di esportazioni, rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Tale calo ridurrebbe il PIL dei tre paesi tra lo 0,2% e lo 0,3% (grafico  a sinistra). L’effetto principale, in particolar modo sui Paesi periferici (quelli economicamente più deboli), si avrebbe, però, attraverso il mercato dei capitali. La simulazione condotta suggerisce che, data la percezione della revocabilità dell’adesione all’Euro, la conseguenza più significativa potrebbe essere quella di reintrodurre un premio per rischio di cambio valutario sui rendimenti Germany 10y Yieldobbligazionari di tutta la regione europea. Il contagio, in tal senso, può causare un picco di rendimenti, soprattutto per quelle economie percepite più deboli dai mercati (cfr. grafici a destra e sottostante). Il programma di QE sarebbe in grado di limitare il rialzo dei rendimenti, ma è probabile che un premio per il rischio di valuta resti in modo permanente. Nell’esercizio, l’aumento dei costi di finanziamento per la zona Euro nel suo complesso, nel periodo 2015/2016, si assesterebbe a circa 30 Mld€, ma l’aumento non sarà distribuito uniformemente. Sarà l’Italia a sostenerne il peso maggiore, con un incremento di 11 Mld€. S&P stima, dunque, un maggior costo del rifinanziamento dei debiti pubblici di 30 Mld€ complessivi per l’intera area e di 11 Mld€ per l’Italia. Italy 10y YieldMa la cifra potrebbe essere sovrastimata: per il calcolo, S&P avrebbe ipotizzato che i tassi dei Btp decennali salgano di 120 b.p., dall’attuale 2,3% al 3,5%. Ma per arrivare a 11 Mld€ di maggiori oneri sul debito nei due anni, sarebbe necessario applicare l’aumento a tutte le emissioni del 2015 e del 2016 (programmate per un totale di 420 miliardi l’anno), e anche immaginare che i titoli a tasso variabile facciano registrare un incremento allineato. La stima dimenticherebbe, però, che il 63% delle emissioni di Btp decennali nel 2015 è già stato realizzato: restano da emettere meno di 200 miliardi. E tralascerebbe che i titoli con tassi variabili sono indicizzati all’Euribor. Insomma: il conto dell’uscita della Grecia dalla moneta unica potrebbe non essere così salato come Standard&Poor’s immagina.

Giuseppe De Simone

 

 

Il paradosso Quantitative easing e l’isteria dei mercati

 

Boom! Head shot! Passatemi il linguaggio da gamer incallito ma, supermario draghiè proprio il caso di dirlo, il bazooka di Mario Draghi (foto a destra) ha colpito l’obiettivo. Il 22 gennaio scorso, la BCE ha annunciato il primo piano di Qe (Quantitive easing) nella storia dell’Eurozona: un’operazione da 1000 miliardi di euro. Tra le regole del programma è stato previsto che l’Istituto di Francoforte comprasse sul mercato secondario, e solamente lì, i titoli di Stato dei 19 Paesi dell’Eurozona con la sola esclusione della Grecia. Non tutti i titoli, però, sono interessati dagli acquisti. Infatti, è possibile rastrellare solo quelli con scadenze comprese fra i 2 anni e i 30 anni, a condizione, poi, che i tassi di interesse di mercato non siano inferiori ai tassi di deposito stabiliti dalla BCE stessa (attualmente fissati a -0,2%). Alla data del 22 gennaio, il rendimento dei BTP a 10 anni era all’1,56%, già più basso di 50 bp (basis point) rispetto a dicembre, quando si cominciava a parlare di Qe. Il rendimento ha, poi, continuato a scendere fino all’1,12% dell’11 marzo, ovvero solo due giorni dopo l’inizio degli acquisti di titoli di Stato al ritmo di 45 miliardi al mese. Dopodiché, i tassi di interesse hanno intrapreso la strada opposta, ricominciando a salire, con tempi e modi diversi, in tutt’Europa. Si è quindi realizzato un “paradosso”: il piano agisce in linea diretta sui titoli di Stato ma, a conti fatti, non è al momento riuscito ad abbassare i rendimenti dei bond governativi e, in special modo, quelli dell’area “periferica”. Il Qe ha, invece, smosso i canali finanziari indiretti, le Borse (in forte rialzo da inizio anno) e l’Euro (svalutatosi nei confronti del Dollaro). Come mai, allora, i rendimenti sono tornati ai livelli pre-Qe? La risposta risiede in una sorta di moral hazard, perché i governi hanno notevolmente incrementato le emissioni. «L’offerta di obbligazioni sui mercati europei è stata certamente un fattore chiave nel determinare il recente calo dei prezzi (e il rialzo dei rendimenti, ndr). Nel tentativo di sfruttare i bassi tassi di interesse, i governi hanno inondato il mercato di titoli, esercitando pressioni sui tassi e provocandone il rialzo – ha spiegato Raman Srivastava, gestore del fondo BNY Mellon Euroland Bond Fund -. Tuttavia, ci stiamo avvicinando all’estate e nel mese di luglio l’offerta netta sui mercati obbligazionari è tradizionalmente negativa. qetassitalia-700Ci aspettiamo, quindi, che la sovrabbondanza di titoli si faccia più contenuta. La Banca Centrale Europea ha già lasciato intuire che modificherà il suo programma alla luce di questa previsione, incrementando gli acquisti di titoli a giugno e rinviando quelli previsti per luglio ai mesi di agosto e settembre. Pertanto, anche se le dinamiche dell’offerta si protrarranno ancora a lungo, non dovrebbero produrre, nei prossimi mesi, lo stesso effetto negativo sulle obbligazioni cui abbiamo assistito nel secondo trimestre del 2015». Il rimbalzo dei tassi d’interesse è una notizia  tutt’altro che una cattiv. Innanzitutto, perché è conseguenza anche delle buone nuove provenienti dal quadro macroeconomico: sia la crescita reale che l’inflazione hanno abbandonato i livelli allarmanti dell’anno passato. In secondo luogo, perché il rafforzamento del Dollaro e l’indebolimento dell’Euro, che ne è derivato, ha avuto e avrà effetti positivi, sia per la competitività, sia per la maggiore inflazione importata. Per quale motivo, dunque, il mercato appare sorpreso? Principalmente perché, in un mondo surreale di tassi vicini allo zero, o, addirittura, negativi, un incremento dei Bund tedeschi all’1% diventa il più forte incremento, e quindi, la più ampia caduta dei prezzi, dal 1988, altrimenti si rischia di perdere in poche settimane i proventi delle cedole di sei anni. Il nervosismo dei mercati è dovuto all’aspettativa che la BCE realizzasse il suo piano, evitando sbalzi eccessivi alla volatilità dei tassi e, di conseguenza, dei prezzi.borsa Ma questo non rientra affatto nelle preoccupazioni della Banca Centrale Europea. Ad una precisa domanda alla conferenza del 2 giugno scorso, il governatore Draghi ha risposto che bisogna abituarsi a periodi, come questo, di elevata volatilità, dando, quindi, un messaggio molto fermo sulla politica della BCE: se movimenti, anche violenti, dei prezzi dei titoli pubblici sono la conseguenza di dinamiche fisiologiche di mercato, la politica monetaria deve continuare a remare nella stessa direzione disegnata dal piano originario. Non si può deviare dalla rotta per accomodare le tensioni che nascono da perturbazioni improvvise nella variabilità dei tassi e dei prezzi. Inoltre, ha aggiunto un’ulteriore importante considerazione: la Banca Centrale Europea non si può nemmeno preoccupare delle conseguenze microeconomiche di uno scenario di tassi d’interesse molto bassi. Interi settori dell’intermediazione non sono per nulla avvantaggiati da uno scenario a medio termine di bassi tassi, con buona pace di quelli che continuano a parlare di “regalo” alle banche.

Giuseppe De Simone