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I fondamenti religiosi della finanza islamica

 

di

Riccardo Piroddi

 

Parte II

I principi religiosi del sistema economico-finanziario islamico

 

Per poter definire i principi religiosi che ispirano e “governano”, di fatto, la finanza islamica, bisogna chiarire, preliminarmente, la differenza di fondo che intercorre tra il mondo occidentale e quello islamico, nel rapporto tra religione ed economia. Nel mondo occidentale esiste una netta separazione tra la religione e la realtà politica, economica e sociale, frutto del superamento, nei secoli, della visione medioevale della comunità cristiana, del razionalismo, dell’illuminismo, della rivoluzione industriale e, nell’età moderna e contemporanea, della concezione liberale e laica dello Stato, per cui l’ordine religioso, per così dire, provvede allo spirito e alla salvezza dell’anima, dopo la morte, mentre l’ordine politico e il sistema economico, che ne discende, provvedono alla convivenza sociale e al benessere materiale dei cittadini. Il mercato dei beni e il mercato finanziario, in particolare, si sviluppano secondo proprie regole, autonome e autoreferenziali, che nulla hanno a che fare con il principi della religione dominante (Cristianesimo nelle diverse confessioni: dal cattolicesimo al protestantesimo). Con questo, non si vuole affermare che i principi etici e religiosi non abbiano influenzato la formazione degli Stati nazionali, i sistemi economici e produttivi, il commercio internazionale e il mondo finanziario. Basterebbe, a riguardo, richiamare l’opera di Max Weber sull’etica protestante e lo spirito del capitalismo, nella quale Weber individua un rapporto di filiazione tra la teologia protestante e la mentalità capitalistica, partendo dalla constatazione che, in Germania, dove esistono diverse confessioni religiose riformate, i capitalisti e gli operai hanno una mentalità più moderna: la confessione religiosa ha determinato la mentalità capitalistica, quindi lo “spirito del capitalismo” ha la sua fonte nell’etica protestante. Lo spirito capitalistico non si identifica nella brama di denaro, che tutte le epoche hanno conosciuto, piuttosto nella volontà di orientare ogni atto verso una progressiva accumulazione della ricchezza. Lo spirito capitalistico così definito, secondo Max Weber, è una caratteristica peculiare dell’Europa moderna e costituisce uno degli elementi che fissano la superiorità del modello occidentale di sviluppo (tema centrale, quest’ultimo, della riflessione weberiana). Nonostante la teoria weberiana sul capitalismo e nonostante il termine “economia”, etimologicamente, nel suo significato originario, non appaia molto distante da quello del mondo islamico, l’affermazione del liberalismo economico (la libertà di mercato, intesa “anche” come libertà da dottrine religiose o di natura etica, politica o religiosa) ha determinato la “laicizzazione” del concetto di economia e di finanza, che ha trovato, poi, il suo compimento nell’affermazione della scienza economica, del tutto distinta dall’etica (Adam Smith). Nel mondo islamico non esiste alcuna differenza tra la sfera etico-religiosa e quella dell’agire economico o finanziario, in quanto l’homo islamicus agisce sempre secondo i principi della legge coranica, anche, e soprattutto, quando opera nell’economia e nella finanza, in quanto agisce soltanto come “amministratore fiduciario” delle risorse del creato, che Dio gli ha affidato in gestione. L’uomo islamico è il vicario di Dio in terra e deve concorrere allo sviluppo economico e sociale, come khalifa, nell’interesse supremo della comunità e secondo i principi (e i limiti), indicati nella rivelazione divina (Corano). La gestione dei beni e delle ricchezze, da parte di un musulmano, non può derogare, mai, dall’osservanza rigorosa dei principi dell’Islam, in quanto ne risponde nei confronti della comunità e, soprattutto, nei confronti di Dio, che glieli ha affidati: nessuno spreco, nessuna distruzione e nessun accumulo, a titolo personale, possono essere consentiti, perché la responsabilità, nel perseguimento del bene e del benessere, ha una tripla valenza: religiosa, spirituale e sociale. Il principio fondamentale, di matrice religiosa, ricavabile dal Corano (la medietà tra prodigalità e avarizia) è costituito dal concetto di “moderazione”, che presiede alla distribuzione della ricchezza nella comunità e alla sua funzione sociale, e porta al divieto assoluto di riba, cioè del vantaggio patrimoniale senza giusto corrispettivo (per cui vige il divieto di qualsiasi forma di interesse, come quello di usura). Questa concezione etico-religiosa della moderazione influenza tutto l’agire umano, anche quello economico, per cui l’homo islamicus può realizzare la sua dimensione, spirituale e religiosa, attraverso il rispetto dei precetti e dei divieti della legge coranica, che escludono il profitto, scisso dallo sforzo fisico e intellettuale e non finalizzato alla funzione sociale, come frutto lecito dell’attività dell’uomo. Non può esistere contrasto tra l’interesse personale del musulmano e quello della comunità: nel caso che questo contrasto sussista, quel guadagno è illecito (haram). Né è tollerabile investire in attività incerte e ambigue (gharar), come la speculazione e l’azzardo (maysir). Tutti i contratti finanziari, quindi, devono sempre garantire l’equo rapporto tra rischi e benefici, tra guadagno del creditore e quello del debitore, puntando sempre al carattere partecipativo, associativo e condivisivo dei profitti e delle perdite, nonché alla piena corrispondenza tra la transazione finanziaria e l’oggetto sottostante della stessa, che deve essere sempre reale, identificabile, concreto e tangibile. Nel mondo islamico il concetto di “finanza” non è disgiungibile dall’aggettivazione “islamica”, cioè dalla sua connotazione specificamente religiosa, per cui ogni decisione di erogazione del credito, operata dalle banche islamiche, deve essere approvato dal “Consiglio della Shari’ha”. Il Consiglio della Shari’ha, composto da studiosi della legge religiosa, appartenenti alle scuole giuridiche islamiche ed esperti nel settore commerciale e finanziario, filtra tutte le decisioni bancarie, per accertare che le stesse siano conformi alla prescrizioni religiose e che l’oggetto dell’investimento non sia illecito (haram), perché riguardante settori proibiti (alcolici, tabacco, carne di maiale, gioco d’azzardo e pornografia). Il Consiglio, tuttavia, non si limita a bloccare i contratti, religiosamente illeciti, ma esercita anche una funzione preventiva e consulenziale, a monte, aiutando i banchieri islamici a strutturare i contratti finanziari in formule lecite. Non si tratta soltanto di conformità ad un codice di comportamento, ispirato a valori religiosi o morali, ma di una regolamentazione completa, secondo la legge coranica, definita dagli studiosi una “ortoprassia islamica” nel campo economico e finanziario. Si è già esaminata (leggi l’articolo) l’espansione della finanza islamica nel mondo occidentale (USA, Gran Bretagna, Francia e Germania), in  Africa e nel Medioriente, nonostante le forti perplessità occidentali sui potenziali collegamenti tra le banche islamiche e movimenti fondamentalisti. Le ragioni di fondo di questa espansione, che nasce, in senso moderno, nel 1963, con la fondazione, in Egitto, della “Cassa rurale di risparmio” di Mit-Ghamr, a opera di Ahmad al-Najjar, vanno rintracciate nella rivendicazione musul-mana di una propria identità, rispetto al mondo occidentale;  nella rivendicata correttezza dei comportamenti islamici, in campo economico e finanziario; nella proclamata modernità della legge coranica, capace, se reinterpretata, di poter regolamen-tare anche la  finanza, integrabile nei sistemi giuridico-economici dei paesi non musulmani; nella superiorità etico-sociale della finanza islamica, rispetto a quella occidentale, profondamente in crisi; nei principi di equità, di solidarietà e di responsabilità sociale, che governano la finanza islamica. La lezione, al mondo occidentale, che viene dalla finanza islamica, non riguarda l’eventuale contrapposizione ad essa di una finanza “etica”, tout court, o addirittura “cristiana”, ma il recupero, al più presto, in Occidente, di un’etica economica, oggi completamente smarrita.

 

 

 

I fondamenti religiosi della finanza islamica

 

di

Riccardo Piroddi

 

 

Parte I

 La definizione di finanza islamica

 

 

Si può definire finanza islamica l’insieme delle banche commerciali e dei fondi di investimento, che operano nel rispetto della Shari’ha, cioè della legge islamica e dei principi religiosi, presenti nel Corano. Il libro sacro dell’Islam giudica gli interessi finanziari sui capitali (riba) e la speculazione finanziaria stessa, come una forma di usura e di strozzinaggio (gharar). Fa divieto, cioè, che il denaro “fermo” possa generare, di per sé, altro danaro. Ne discende che la finanza islamica, a differenza di quella occidentale, non possa guadagnare interessi. Una banca islamica, pertanto, non concede mutui ad interesse per l’acquisto di una casa, ma acquista direttamente la casa, cedendola in affitto al richiedente, il quale si impegna ad onorare un piano di rate mensili e, a conclusione del piano, diventa il legittimo proprietario dell’immobile. Nella finanza islamica prevale l’aspetto “sociale” dell’investimento, con conseguente divieto assoluto di investire in tutti settori proibiti dalla legge coranica, a partire da armi, droga, pornografia, bevande alcoliche e carne di maiale. La finanza islamica si propone, quindi, di tutelare e di promuovere i valori, i principi e le regole dell’Islam. Essa non opera soltanto nei paesi islamici, come generalmente si può ritenere, ma anche nel mondo occidentale (USA, Inghilterra, Germania e Francia), dove sono numerose le comunità islamiche che non vogliono utilizzare, per finanziarsi, strumenti finanziari illeciti (haram), ma strumenti religiosamente leciti (halal). Il che non vale al contrario, perché sempre più numerose imprese occidentali o cittadini europei fanno ricorso, per investire, alla finanza islamica. A tutt’oggi (agosto 2012), i capitali, amministrati dalla finanza islamica, nel mondo, sono stimati nell’ordine di 2.000 miliardi di dollari. Della finanza islamica, costituisce, ormai, il simbolo visibile e vitale, nonché la crescente potenza, sulla skyline di Londra, la “Scheggia di Vetro” (Shard of Glass), che sfida, come la vetta più alta, il cielo della capitale del Regno Unito, realizzata, da Renzo Piano, principalmente con i capitali (l’80%) del Qatar. Il valore degli assets della “shri’ha compliant” è passato dai 5 miliardi di dollari del 1980 ai 1800 del 2017. Nonostante la crisi del debito di Dubai, anche il mercato delle obbligazioni islamiche (sukuk) sta conoscendo un’enorme fase di espansione, con un tetto di 22,6 miliardi di dollari, a fine 2011, e tassi di insolvenza quasi nulli. Le banche islamiche e i fondi di investimento, in particolare, sono presenti massicciamente anche sul mercato finanziario internazionale. Tra i paesi europei, il Regno Unito è stato, in ordine di tempo, il primo ad aver accolto in Inghilterra ben cinque banche islamiche, modificando anche la propria legislazione, in quanto la finanza islamica opera secondo principi etici e religiosi, in ossequio alla legge coranica, e secondo regole, che sono alternative alla tradizionale finanza cartolare dell’Occidente (divieto degli interessi; condivisione di rischi e profitti tra creditore e debitore; divieto di speculazione; divieto di investimento in settori, ritenuti illeciti; indissolubile legame tra strumento finanziario ed economia reale). Non sono da meno Parigi (dal 2011, i parigini possono aprire il loro conto corrente presso la Chaabi Bank, filiale della Banca Popolare del Marocco) e Berlino (la Deutsche Bank guida la fila di joint venture con banche islamiche), che si collocano dopo Londra, nel favorire, con l’adattamento delle norme interne, l’ingresso sul loro territorio di prodotti di finanza islamica, al fine di competere, con la capitale britannica, come centri finanziari internazionali. Non sono mancate polemiche, da parte di chi vede, in questa penetrazione, i rischi di islamizzazione dell’Occidente, per via finanziaria, anche perché le banche islamiche sono tenute a versare il 2,5% dei loro profitti (zakat) ad enti ed associazioni di beneficenza islamica, anche per la “causa di Allah” (fi sabil Allah). Al di fuori dell’Europa, la finanza islamica opera principalmente sulle direttrici africane (Senegal, Nigeria e Kenia) e mediorientali, con un incremento complessivo, nel 2010, di 416 miliari di dollari. Non è stata esente la Cina, dove il governo di Pechino ha autorizzato, nel 2012, sul territorio cinese, l’apertura del primo istituto finanziario islamico. Appare evidente, di fronte alla crisi dei mercati finanziari occidentali, delle bolle e della speculazione, cioè del distacco crescente della finanza tradizionale dall’economia reale, quanto sia attraente una finanza, come quella islamica, che si ispira a principi etici e religiosi, nonché sull’adesione della stessa all’economia reale. Il dubbio ricorrente riguarda il fattore tempo: se la finanza islamica riuscirà, a contatto con quella occidentale, a mantenersi fedele ai suoi principi ispiratori, presenti nel Corano. Nel dettaglio, i contratti finanziari islamici devono rispettare le regole della Muamalat, quella parte della Shari’ha, che disciplina i comportamenti da tenere nell’economia e nella finanza. Secondo il Corano, Dio ha creato ogni cosa, nella giusta quantità, per soddisfare i bisogni umani (gli esseri umani sono i “custodi di Dio nel mondo”; la proprietà privata è un “prestito” da parte di Dio; la gestione dei beni deve avvenire, quindi, nel rispetto dei principi religiosi), per cui la scarsità delle risorse deriva solo dall’egoismo e dall’ingordigia umana, cioè dal processo di accumulazione capitalistica: l’homo islamicus non coincide con l’homo oeconomicus. Da questa premessa discendono i cinque pilastri, già sopra accennati: 1) il divieto di percepire interessi (riba); 2) il divieto di speculare (gharar); 3) il divieto di finanziare settori, banditi dalla Shari’ha; 4) il divieto di scindere la transazione finanziaria dall’asset di riferimento, che deve essere tangibile ed identificabile; 5) l’obbligo della purificazione del patrimonio, con la corresponsione di un’offerta, che può essere obbligatoria (zakat) o volontaria (sadaqat). La finanza islamica ha due obiettivi: economico (conservazione del capitale, massimizzazione dei guadagni, equilibrio tra liquidità e profittabilità); religioso (rispetto assoluto dei precetti coranici, nel possesso di beni legittimi, halal, e nel respingimento dei beni illegittimi, haram). Nella finanza islamica non esiste la concorrenza, ma la cooperazione, per cui le partnership e i contratti finanziari islamici possono essere di quattro tipologie: prestiti sintetici (debt-based: salam, istisna, murabaha), realizzati con accordi di vendita-riacquisto di asset oppure di vendita di asset, detenuti da terzi per conto del debitore (back-to-back); contratti di lease (assetbased: ijarah), realizzati con un accordo di vendita-riacquisto in leasing o mediante lease di asset acquisiti da terze parti con obbligazione al riacquisto (lease finanziario); contratti profit-loss sharing (PLS; equity-based: mudaraba e musharakah), nei quali solamente una banca fornisce il finanziamento e l’imprenditore tempo e lavoro;  obbligazioni islamiche (sukuk), di recente formulazione, che, a causa della proibizione dei tassi di interesse, consentono il rifinanziamento delle banche. Sui rischi, le banche islamiche devono affrontare non solo gli stessi rischi convenzionali (insolvenze; fluttuazioni delle materie prime; gestione della liquidità; rischi di mercato; rischi legali; rischi regolamentari), ma anche un  rischio tipico della finanza islamica, lo “Shari’ha risk”, quello di non adempiere correttamente la condivisione o non rispettare i precetti religiosi della legge coranica. Sul fronte assicurativo, si evidenzia tutta la differenza tra la finanza islamica e quella occidentale, in quanto gli islamici non possono sottoscrivere contratti di assicurazione tradizionali (assicurare una casa significherebbe trasferire il rischio ad una compagnia di assicurazione, la quale trasformerebbe i premi ricevuti in un reddito, in assenza del verificarsi dell’evento assicurato), per due divieti religiosi: il divieto di incertezza (gharar); il divieto di scommessa (maysir). Da qui, discende che l’assicurazione islamica (takaful) si realizza con il versamento di una contribuzione volontaria, da parte degli assicurati, ad un fondo comune, la cui gestione è affidata ad un terzo, al quale viene pagata una commissione: né l’assicurato, né il gestore si assumono singolarmente il rischio, ma in modo condiviso, nel pieno rispetto della legge islamica (contratto di mudaraba).

 

 

 

Alcune riflessioni sul tempo presente attraverso i concetti di “Leadership” ed “Etica”

 

Dedicate al prof. Antonino Giannone*  nel giorno del suo genetliaco

 

 

L’era digitale in cui stiamo vivendo è un periodo decisamente tormentato. Le tecnologie che adoperiamo sono mutate rispetto a qualche decennio fa e i cambiamenti che queste hanno portato non sono stati affrontati sempre con tempestività. Le imprese si trovano al centro di questo processo di evoluzione e cambiamento continuo. Sfide diverse si presentano alla società e per questo è necessario trovare nuovi modelli organizzativi, nuove strategie e nuovi modi di pensare per affrontare il mercato. Bisogna saper prendere decisioni per raggiungere specifici obiettivi. Senza piani strategici le aziende restano fragili. In questi contesti, i codici etici assumono capitale importanza. Il rispetto di valori etici come l’onestà, la trasparenza, la giustizia, la moralità è dovuto non solo dai dipendenti, ma dall’intero management. Servirebbe un recupero dell’etica, che, nella società della globalizzazione, è caduta in ogni professione e attività. Bisognerebbe riscoprire i principi e i comportamenti ispirati dalle virtù umane, tramandate, sin dai tempi antichi, dai grandi filosofi greci e latini e, poi, dai pensatori moderni e contemporanei. Apprendere e imparare i valori fondamentali e fondanti dell’uomo, che hanno caratterizzato la sua storia, per ridurre il degrado delle relazioni sociali ed economiche nella società globalizzata, dove prevale la spietata logica del più forte, quella dell’avere rispetto all’essere. Le imprese hanno conquistato il potere d’azione, finora addomesticato con la politica dello Stato sociale del capitalismo. Con la globalizzazione, le imprese sono arrivate a detenere un ruolo chiave non solo nell’organizzazione dell’economia ma anche in quella della società nel suo complesso. L’economia che agisce in maniera globale sgretola i fondamenti degli Stati-Nazione e della loro economia nazionale. Il potere delle imprese internazionali si fonda sulla possibilità di esportare i posti di lavoro dove ciò è più conveniente. Negli ultimi anni, il concetto di etica sembra sia diventato protagonista del dibattito economico: sempre più spesso si usano espressioni come finanza etica, commercio etico, etica degli affari, e tutte le maggiori aziende internazionali si sono dotate di un codice etico. Fa da contraltare a questa apparente “eticizzazione” dell’economia una crisi gravissima, interpretabile anche come la conseguenza e il frutto di comportamenti eccessivi e spregiudicati da parte di alcuni operatori economici. La spiegazione di questo paradosso potrebbe risiedere nel fatto che la domanda di comportamenti etici è una reazione e, appunto, una prevedibile risposta alla crisi attuale, ma anche che la professione di eticità sia in questa fase un mero strumento di marketing usato per mascherare e giustificare comportamenti che, nella sostanza, continuano a essere tutt’altro che etici. L’eredità spirituale dell’ultimo conflitto mondiale è forse l’aver mostrato che l’etica si fonda più che sulle buone intenzioni sull’assumersi pienamente le proprie responsabilità verso gli altri. L’etica è, innanzitutto, un problema di assunzione in prima persona di responsabilità verso una collettività. Ne consegue che l’economia che regola gli scambi tra collettività di attori, tanto a livello di impresa che di interi sistemi economici, sia un campo privilegiato per lo svolgimento del discorso etico. A livello di impresa, può essere opinabile e non oggettivamente misurabile determinare se e quanto una certa azienda, nel suo complesso, sia etica. L’etica dell’impresa può essere vista come il prodotto dei valori che tengono insieme il gruppo e dei meccanismi che premiano il rispetto di questi valori. L’implicazione operativa per i tutti i membri dell’impresa, e soprattutto per i vertici, è che da un lato i valori devono essere chiaramente definiti e comunicati, e, dall’altro, che la devianza dai principi deve essere esplicitamente sanzionata anche se ciò avvenisse a discapito del ritorno economico di breve. A livello di intero sistema economico, se la diatriba teorica sulla eticità del principio del mercato versus altre forme di organizzazione economica tende ad apparire sterile, il focus del confronto dovrebbe piuttosto essere su quali meccanismi, regole e correttivi possano essere introdotti per migliorare il sistema rendendolo tangibilmente più giusto ed equo. Anche in questo caso, la riposta migliore sta nel riconoscimento dei valori condivisi in cui una comunità locale, nazionale o internazionale si riconosce, e su cui ha deciso di fondare la propria vita civile e il proprio destino. Troppo spesso si dimentica il ruolo fondante e preordinato rispetto agli aspetti economici che le dichiarazioni dei valori di libertà, uguaglianza e di ricerca della pace hanno nella nostra Carta Costituzionale o nella Carta dei diritti dell’Unione Europea, e perfino in un documento che regolava solo transazioni squisitamente commerciali come il Trattato della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio. Solo alla luce di questi valori si può raccogliere la “sfida etica” della globalizzazione per ristabilire il primato delle regole, ritrovando il difficile ma imprescindibile equilibrio tra efficienza, equità, libertà e benessere.

 

* Docente di Leadership and Ethics presso Icelab, del Politecnico di Torino, ICT for Logistics and Enterprises Center e docente presso la Link Campus University di Roma, nel corso di Laurea Magistrale in Business Management e Gestione Aziendale. Dopo la laurea in Ingegneria al Politecnico di Torino e le specializzazioni in Management in Italia e all’estero (Londra, Parigi, Zurigo, San. Francisco, New York), ha ricoperto ruoli di direzione, fino a direttore Generale e Consigliere di Amministrazione, in aziende industriali e di servizi di assistenza ospedaliera e sanitaria. Pubblicazioni: Etica professionale e Leader nella società della Globalizzazione (ed. CLUT Torino); Etica professionale e Relazioni industriali (ed. CLUT); Strategie aziendali (ed. CLUT); Valori fondanti ed etica per la società della globalizzazione (ed. Mazzanti, Venezia); Elementi di politica aziendale e innovazione tecnologica (ed. Cacucci, Bari), oltre a centinaia di articoli su riviste specializzate e siti web. Socio onorario dell’Accademia di storia dell’Arte sanitaria. Socio fondatore del CEIIL (Centro economia industria informatica e lavoro). In uscita, per Eurilink University Press (giugno 2020), LEADERSHIP AND ETHICS NELLA SOCIETÀ DELLA GLOBALIZZAZIONE – Compendio di lezioni e seminari.

 

 

 

 

 

Il mondo si divide esclusivamente in ricchi e poveri

 

 

Sono sempre stato convinto che il mondo non si divida in bianchi o neri, religiosi o atei, belli o brutti, buoni o cattivi, ma semplicemente in ricchi e poveri
Sentite un po’ Voltaire:

Entrate nella Borsa di Londra, lì l’ebreo, il maomettano e il cristiano si trattano reciprocamente come se fossero della stessa religione e chiamano infedeli solo quelli che fanno bancarotta“. 
“Lettere filosofiche”, 1734

Alla Borsa di Amsterdam, di Londra, di Surat o di Bassora, il ghebro, il baniano, l’ebreo, il musulmano, il deicola cinese, il bramino, il cristiano greco, il cristiano romano, il cristiano protestante, il cristiano quacchero trafficano insieme; nessuno di loro leverà il pugnale contro un altro per guadagnare anime alla propria religione. Perché, allora, ci siamo scannati a vicenda quasi senza interruzione, dal primo concilio di Nicea in poi?”. 
“Dizionario filosofico” (voce “Tolleranza”), 1764

 

François-Marie Arouet, detto Voltaire (1694-1778)

 

 

I “Fugger”: la famiglia più ricca fra Medioevo e Rinascimento

 

di

Annalisa Lo Monaco

 

 

Dimenticate i Rockefeller e i Rothschild, dimenticate le speculazioni complottiste sul “Nuovo Ordine Mondiale”: la prima famiglia a tenere in pugno i potenti della terra furono i Fugger, di Augsburg (Augusta), in Germania. Ricchi come nessuno mai nella loro epoca e fino al XX secolo: il loro patrimonio arrivò ad ammontare a 350 miliardi di euro (al valore attuale) e si contendono il titolo di…

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Jacob Fugger “Il Ricco” (1459 – 1525)

 

Anton Fugger (1493 – 1560)

 

 

La concreta filosofia inglese e la forza della sterlina

 

 

Gli inglesi, per quel che concerne la storia del pensiero, si sono distinti dagli altri popoli europei, antichi e moderni, a causa di quella impronta, ad essi del tutto peculiare, tendenzialmente antimetafisica ed essenzialmente pragmatica. A scorrere rapidamente quella storia, infatti, ciò può essere facilmente notato:1 quando il Medioevo volgeva ormai al termine, mentre nelle scuole del resto d’Europa i dotti erano ancora impelagati nelle dispute scolastiche sulle prove dell’esistenza di Dio, sugli universali, sulla Trinità e sui quodlibeta, Roger Bacon (immagine a sinistra), filosofo, scienziato e mago, il Doctor mirabilis (Dottore dei miracoli), fondava la gnoseologia empirica, secondo la quale l’esperienza sia il vero e unico mezzo per acquisire conoscenza del mondo. Tre erano, secondo il filosofo, i modi con cui l’uomo potesse comprendere la verità: con la conoscenza interna, data da Dio tramite l’illuminazione; con la ragione, la quale, però, non è bastevole, e, infine, con l’esperienza sensibile, ovvero tramite i cinque sensi, il non pus ultra di cui esso possa disporre e che gli consente di avvicinarsi alla reale conoscenza delle cose. 1Il frate francescano William of Ockham, il Doctor invincibilis (Dottore invincibile), con il suo famosissimo rasoio, semplificò al massimo la spiegazione dei fenomeni, mostrando l’inutilità di moltiplicare le cause e di introdurre enti al di là della fisica: “Frustra fit per plura, quod fieri potest per pauciora” (è inutile fare con più, ciò che si può fare con meno). Francis Bacon (immagine a destra), il filosofo dell’adagio “Sapere è potere”, padre della rivoluzione scientifica e del metodo scientifico nell’osservazione e nello studio dei fenomeni attraverso l’induzione, meglio definita e rinnovata rispetto a quella aristotelica, fu avversatore dei pregiudizi, da lui chiamati idola (idoli o immagini), che impedivano la reale conoscenza e intelligenza della natura, e fu ispiratore di un’altra grande mente inglese, Isaac Newton, lo scienziato-osservatore empirico per eccellenza. Thomas Hobbes diede spiegazione a tutti gli aspetti della realtà col suo materialismo meccanicistico, annullando la res cogitans (sostanza pensante) di Cartesio e il suo ambiguo rapporto con la res extensa (sostanza materiale), retroterra sul quale basò la sua concezione della natura umana, della condizione di guerra di tutti contro tutti (l’homo homini lupus),1 del patto di unione e del patto di società, dai quali sarebbero poi nati, rispettivamente, la civiltà e, attraverso la rinuncia da parte di ogni uomo al suo diritto su tutto e la cessione di questo al sovrano, lo Stato, il Leviatano. John Locke (immagine a sinistra), l’empirista, l’autore di An essay concerning human understanding (Saggio sull’intelletto umano), sosteneva che tutta la conoscenza umana derivasse dai sensi. Indagò le idee e i processi conoscitivi della mente, criticando l’innatismo cartesiano e leibniziano, e, tra l’altro, fu strenuo propugnatore del liberalismo politico e della tolleranza religiosa. David Hume, l’estremo dell’empirismo inglese, asseriva, come Locke, che la conoscenza non fosse innata, ma scaturisse dall’esperienza. Egli negò sia la sostanza materiale che quella spirituale, tutto riducendo a sensazione e stato di coscienza. 1Demolì il concetto di causa, ritenendolo mero costume della mente, suscitato dall’abitudine, e postulò, quali conoscenze universali e necessarie, soltanto quelle della geometria, dell’algebra e dell’aritmetica. Adam Smith (immagine a destra), filosofo ed economista, teorizzò l’idea che la concorrenza tra vari produttori e consumatori avrebbe generato la migliore distribuzione possibile di beni e servizi, poiché avrebbe incoraggiato gli individui a specializzarsi e migliorare il loro capitale, in modo da produrre più valore con lo stesso lavoro. 1E, infine, l’Utilitarismo di Jeremy Bentham e John Stuart Mill prima, con tutte le implicazioni morali (o moralmente inglesi), legate ai concetti di “utile” e di “felicità“, e quello di Henry Sidgwick (immagine a sinistra), poi, col suo edonismo etico, mediante il quale aggiunse importanti precisazioni ai concetti dell’utilitarismo classico. Queste riflessioni filosofiche hanno certo corrispettivo pratico allorquando si osservano attentamente tutte le sfaccettature dell’English way of life e dei princìpi che, ancora oggi, lo animano. Il motivo per cui gli inglesi, fino a circa settant’anni fa, hanno realmente dominato il mondo (basti pensare al British Empire e al Commonwealth), ha le proprie basi nel pragmatismo che, dal 1200 in poi, ha caratterizzato le sue classi intellettuali e, di riflesso, quelle deputate all’azione. Un popolo non condizionato dalla religione, come lo sono stati, dal Medioevo alle soglie dell’età contemporanea, la maggior parte dei Paesi cattolici europei, libero di sottomettere altre genti, che non ha combattuto in nome di Dio ma degli uomini, era destinato ad avere il ruolo che ha avuto e che ancora ha. Del resto, negli stessi anni in cui un bardo venuto dalle Midlands incantava gli spettatori del Globe Theatre a Londra, mettendo in scena l’amore tra Romeo e Giulietta, la filosofia dell’essere e del non essere e la gelosia di Otello, la regina Elisabetta I nominava baronetto il più astuto e lesto pirata della storia: sir Francis Drake!

 

Pubblicato il 28 luglio 2011 su www.caravella.eu

 

 

TTIP: chi ne parla in Italia?

 

 

Siamo alle solite: quando qualcosa è suscettibile di stravolgere la vita di milioni di cittadini, nel nostro Paese si evita scientemente di parlarne, sia mai che qualcuno di troppo riesca a farsi un’idea su chi stia combinando cosa e con quali effetti! TTIP è l’acronimo di Transatlantic Trade and Investment Partnership e trattasi dell’accordo di libero scambio tra UE e USA, definito il più grande della storia (cd. “NATO economica”). L’intesa nasce nel 2007, con l’istituzione del Consiglio Economico Transatlantico. barroso-obama-van-rompuy-419x270Successivamente, nel febbraio 2013, il presidente della Commissione Europea Josè Manuel Barroso, il presidente statunitense Barack Obama e il presidente del Consiglio Europeo Herman Van Rompuy (in foto da sinistra a destra) annunciano l’avviamento delle procedure interne per lanciare il negoziato. Infine, il 14 giugno 2013, il Consiglio Europeo investe la Commissione del mandato per negoziare, a nome dell’UE, sul TTIP. In base a quanto trapelato, l’accordo prevede l’eliminazione dei dazi e delle barriere non tariffarie tra Stati Uniti ed Unione Europea, la semplificazione della compravendita di beni e servizi fra le due aree e, come conseguenza, lo sviluppo economico delle due macroaree, favorendo la creazione di nuovi posti di lavoro e l’abbassamento dei prezzi. Tutti obiettivi lodevoli ma, nella sostanza, cosa sarebbe necessario per il loro perseguimento? La loro realizzazione prevede obbligatoriamente una sostanziale deregulation che passi per l’allineamento e l’armonizzazione delle norme sul commercio, sull’ambiente, sulla salute e sul lavoro. imagesS6ML61PALe fonti ufficiali dell’UE indicano quale uno dei punti alla base della partnership quello della formulazione di nuove regole comuni, nei settori interessati dall’accordo, che abbiamo il preciso scopo di sanare le divergenze, attualmente  esistenti tra le due legislazioni. Nell’annunciare quest’intenzione hanno, comunque, assicurato il rispetto degli standard esistenti a livello europeo nei settori ambiente, salute, sicurezza, privacy, diritti dei lavoratori e dei consumatori. L’UE ha affermato come le politiche già intraprese in questi ambiti “non siano sul tavolo delle negoziazioni”. C’è da credergli? Il sistema europeo è iper-regolato e, in generale, presenta tutele e ammortizzatori più solidi rispetto a quello americano, proveniente da anni di deregulation. Un’armonizzazione dei due sistemi è molto complicata e potrebbe causare, soprattutto in una prima fase, vuoti normativi che favorirebbero le grandi multinazionali americane a discapito delle nostre piccole e medie imprese (PMI), che vedrebbero, così, messa a rischio la loro stessa sopravvivenza. Stando sempre alle indiscrezioni (giova qui ricordare che le trattative sono condotte in gran segreto), uno dei principali problemi dell’accordo è il mutuo riconoscimento, secondo cui se una cosa è commerciabile in USA lo sarà anche in Europa. CHAPA-11-OCT-TTIPVia libera, dunque, a OGM senza etichettatura, a carne gonfia di ormoni e antibiotici e a pesticidi attualmente vietati in Europa… con tanti saluti alle promesse sbandierate. Non bastasse, se uno Stato membro non dovesse essere d’accordo, dovrà comunque piegarsi alle multinazionali, le quali, attraverso l’ISDS (Investor to State Dispute Settlement), una sorta di camera arbitrale, potranno citare in giudizio, per danni, enti locali e Stati sovrani che dovessero ostinarsi a vietare la commercializzazione di determinati beni. Ben vengano, quindi, le iniziative dei soliti cittadini disfattisti e malpensanti. È grazie alle loro pressioni se oggi possiamo giovare di un minimo di trasparenza in più su questo argomento.

Anche in Italia, pian piano, si sta muovendo qualcosa e le adesioni alla campagna “Stop TTIP” continuano a crescere. Per quanti la pensassero allo stesso modo, è possibile firmare la petizione attraverso questo link: http://stop-ttip-italia.net/

 Giuseppe De Simone

 

 

NASpI: sollievo, solo momentaneo, per i lavoratori stagionali

 

Questo articolo fa seguito ad uno precedente (leggi). Avevamo promesso di seguire la delicata questione dei sussidi di disoccupazione ai lavoratori stagionali. Eccone gli sviluppi. Continueremo, comunque, a tenervi aggiornati!

Dopo la pubblicazione dei nuovi decreti attuativi del Jobs Act (D. Lgs. n. 148 e n. 150 del 2015), l’INPS, il 27 novembre scorso, ha diramato la Circolare n. 194, con misure importanti per i disoccupati e per gli ammortizzatori sociali a loro collegati. A cambiare è, innanzi tutto, la durata massima della NASpI: l’art. 43, comma 3 del D. Lgs. n. 148 del 2015, dispone la soppressione dell’ultimo periodo dell’art. 5 del D. Lgs. n. 22 del 2015, il quale prevedeva che,images per gli eventi di disoccupazione verificatisi dal 1° gennaio 2017, la NASpI sarebbe stata corrisposta per un massimo di 78 settimane, ovvero un anno e mezzo. L’abrogazione dell’ultimo periodo del succitato articolo, comporta, pertanto, che anche in relazione agli eventi di disoccupazione che si verificheranno successivamente al 1° gennaio 2017, la NASpI potrà essere corrisposta, in proporzione al numero di settimane di contribuzione utile, presenti nel quadriennio di osservazione, per una durata fino ad un massimo di ventiquattro mesi. Il correttivo tanto atteso che, invece, dà sollievo alle pene dei lavoratori stagionali nel nostro paese, è contenuto nel comma 4 dell’art. 43 del  D. Lgs. n. 148 del 2015. La norma, con esclusivo riferimento agli eventi di disoccupazione verificatisi tra il 1° maggio 2015 e il 31 dicembre 2015, prevede la non applicabilità del secondo periodo del comma 1 dell’art. 5 del D. Lgs. n. 22 del 2015, il quale stabilisce che, ai fini del calcolo della durata, non sono computati i periodi contributivi che hanno dato già luogo ad erogazione di prestazioni di disoccupazione, fruite negli ultimi quattro anni. Ne consegue che, qualora la durata della NASpI, calcolata sulla base delle disposizioni di cui all’art. 5 del richiamato decreto legislativo n. 22, risulti inferiore ai sei mesi, sono computati, ai fini della determinazione della durata della prestazione, i periodi contributivi che hanno dato già luogo ad erogazione delle indennità di disoccupazione ordinaria, con requisiti ridotti e di miniASpI 2012, fruite nel quadriennio di osservazione. Attenzione, la durata della NASpI così calcolata non può, in ogni caso, eccedere i sei mesi. L’INPS precisa che il calcolo dell’indennità NASpI, secondo quanto disposto dal richiamato art. 43, comma 4, deve essere effettuato ove la cessazione involontaria del rapporto di lavoro, che dia luogo alla domanda di NASpI, sia avvenuta con un datore di lavoro rientrante nei settori produttivi del turismo e degli stabilimenti termali. Trattandosi, dunque, di disposizione applicabile esclusivamente ai lavoratori del turismo e degli stabilimenti termali con qualifica di stagionali, l’INPS ha ritenuto necessario stilare una lista preliminare delle attività economiche di interesse e, di conseguenza, dei lavoratori destinatari della speciale modalità di calcolo della NASpI. In particolare, l’elenco comprende: alberghi e villaggi turistici, affittacamere e B&B; rifugi montani, colonie e ostelli della gioventù; stabilimenti balneari; bar e ristoranti (anche ambulanti); pasticcerie e gelaterie; tour operator; agenzie di viaggio; guide e accompagnatori turistici; stabilimenti termali. Tuttavia, non affrettatevi a stappare lo champagne! Trattasi sicuramente di misure molto positive, ma i cui vincoli sono piuttosto stringenti.naspi-continua-la-battaglia-dei-lavoratori-stagio-96722 In primo luogo, come già detto, si tratta di una misura correttiva, che non avrà vita lunga: come si legge chiaramente dal dettato normativo, infatti, il nuovo calcolo riguarderà solamente gli eventi di disoccupazione verificatisi tra il 1° maggio e il 31 dicembre 2015. Quindi, nelle more di una modifica strutturale o di un nuovo correttivo, agli stagionali che perderanno il lavoro nel 2016 si applicherà la regola generale. Non bastasse a smorzare gli entusiasmi, vi è un altro vincolo, più forte, che è il “solito” di bilancio: è stabilito che l’INPS dovrà provvedere al monitoraggio degli effetti finanziari, derivanti dall’applicazione della disposizione in argomento. Qualora si verifichino o siano in procinto di verificarsi scostamenti rispetto alla previsione di spesa (32,8 milioni per il 2015 e 64,6 milioni per il 2016) si provvederà, con apposito decreto del Ministro dell’Economia e delle Finanze, alla rideterminazione del beneficio in questione.

Giuseppe De Simone

 

Ecosostenibilità e sviluppo economico per le città dei Paesi del G8

 

Ecosostenibilità come fattore di sviluppo per le città. È uno dei risultati del City RepTrak Study 2015, un’indagine basata su 22mila interviste ad abitanti dei Paesi del G8. In base all’analisi, una città, per essere veramente smart, non deve limitarsi all’offerta di servizi interattivi, alla diffusione della banda larga, etc., ma deve dimostrare anche di attuare politiche ambientali all’avanguardia, tese al rispetto della bellezza dei luoghi e della natura.Effective Government “L’attuazione di politiche sostenibili è uno dei 13 fattori che influenzano la reputazione delle città ed è il quinto per importanza, più rilevante della stabilità economica o delle infrastrutture: ciò significa che i cittadini del mondo attribuiscono parecchio valore al tema sostenibilità”, spiega Michele Tesoro-Tess, managing director di Reputation Institute Italy & Middle East. Per apprezzare al meglio il vantaggio competitivo creato da efficaci politiche urban green, può essere sufficiente guardare all’impatto che queste hanno su alcuni parametri del PIL. “Dallo studio 2015 risulta che un aumento di 5 punti in sustainability performance da parte di una città, corrisponde a una propensione dei cittadini mondiali a michele-tesoroincrementare, in quel luogo, gli investimenti (del 3,9%), i viaggi (del 5,6%), lo shopping (del 4,7%)”, sostiene Tesoro-Tess (foto a sinistra). Pertanto, la scelta della meta di una vacanza, la decisione su dove stabilire un’azienda o, ancora, ad esempio, la programmazione del trasferimento da parte di un talento, sono fortemente legate alla sostenibilità/reputazione della città. Se si prende, ad esempio, Stoccolma, la città leader tra le 100 al mondo, esaminate sotto il profilo della reputazione green, questa può vantare il 43% degli intervistati nel mondo, che investirebbe nella città, il 65% che la visiterebbe in vacanza e il 49% che andrebbe a viverci. Guardando, invece, in casa nostra, a Milano – al 37esimo posto della classifica insieme con Roma -, le stesse percentuali ammontano al 31%, al 59% e al 34%. Si può e si deve far di più per migliorare sia le politiche green, sia la percezione delle stesse. Sfogliando la Top 50 delle città giudicate in base alla sostenibilità percepita, nel 2015, come già detto, è balzata al comando Stoccolma, scalzando Monaco di Baviera, davanti alle australiane Melbourne e Sydney, che storicamente hanno sempre avuto performance eccellenti. Al settimo posto, Londra. Una menzione speciale la merita Vancouver (18esima). Questa sta diventando, negli ultimi anni, la star internazionale della sostenibilità. Dal 2011 sta trasformando in realtà l’ambizioso Greenest city 2020 action plan, avvicinandosi sempre più all’obiettivo di diventare, entro il 2020, la città più ecologica al mondo. Dieci gli obiettivi da raggiungere in diversi ambiti: green economy, leadership sui cambiamenti climatici, green building, trasporti sostenibili, zero waste, accesso a spazi verdi, impronta ecologica più leggera, acqua e aria pulita, prevalenza di alimenti a km 0. Vancouver ha già realizzato più dell’80% delle azioni prioritarie, fissate nel 2011 per raggiungere i 10 obiettivi, vincendo 9 premi negli ultimi due anni per la vivibilità e la sostenibilità. Ritornando alla classifica del Reputation Institute, tra i continenti svetta l’Europa: 7 città tra le top 10 sono, infatti, nel Vecchio continente: Stoccolma, Ginevra, Copenhagen, Berlino, Londra, Zurigo e Oslo. Delude, ma non mi sorprende, la posizione delle italiane; come già detto, Roma e Milano si fermano al 37esimo posto, Firenze al 48esimo, nemmeno pervenuta Venezia. Cosa fare dunque per accrescere la reputazione green delle città? Bisogna, innanzitutto, partire da un piano condiviso e articolato di politiche efficaci, a difesa dell’ambiente e della vivibilità, senza “imbarazzarsi” di attingere dalle best practice internazionali.url-2 Dopodiché, è necessario metterlo in pratica, con coerenza, evitando che resti “carta morta” (cosa che, troppo spesso, avviene nella nostra bella Italia), accollandosi anche investimenti (non costi) extra. E, infine, comunicare i miglioramenti raggiunti con una forte azione di merketing internazionale. “Troppe volte abbiamo visto città, Paesi e anche aziende realizzare cose eccellenti nell’ambito della sostenibilità, senza poi renderle note al mondo: così i risultati si affievoliscono e l’entusiasmo si smorza; solo facendo sistema, tra pubblico e privato, tra Governi e cittadini, la sostenibilità può diventare una leva di extra-Pil», conclude Tesoro-Tess. Tutto facile a dirsi e, forse, anche a farsi, come dimostra il caso Vancouver, se solo, però, ci fosse il forte impegno del Governo centrale, oltre a quello, non troppo scontato, di cittadini e imprese.

Giuseppe De Simone

 

 

La bolla del Dragone

 

Anni ed anni di crescita forte e costante hanno conferito ai governi cinesi di un’aura di onnipotenza ma, mantenere tutto ciò, prima o poi, presenta il suo conto. Tre settimane dopo gli interventi per arginare il crollo dei mercati azionari, con misure senza precedenti, come il ban allo short selling, il divieto di vendita imposto agli azionisti di controllo ed un supporto creditizio diretto da parte della banca centrale cinese, i listini azionari sono precipitati nuovamente. usa-a-cinaChe in Cina ci sia un grossa bolla azionaria, onestamente, nessuno può negarlo. Tra i primi trenta titoli per performance (rendimenti oltre il 300% nell’ultimo anno), la metà presenta un rapporto prezzo/utili sopra le 50 volte. Rapporti impossibili da sostenere nell’attuale situazione economica cinese. Il quadro di profittabilità della sua industria, infatti, è in rapida decelerazione e non da poco tempo. Secondo uno studio UBS, la redditività straordinaria delle imprese cinesi si è contratta dello 0,8% nei primi 5 mesi del 2015. Il tasso è, ovviamente, ancora positivo, ma ben lontano dall’oltre il 40% annuo del 2011. Non c’è da stupirsi, anche il PIL che veleggiava a tassi del 12-13% fino al 2010 si è indebolito fino al ritmo del 7% annuo, con stime che fissano il livello tra il 6 e il 7% come il passo di marcia di un’economia, sicuramente forte, ma non più a tassi da emergente. E’ tutta qui l’incongruenza con l’azionario: non si può crescere del 150% nell’ultimo anno, come ha fatto il listino di Shangai, con un’economia contratta e con ricavi e profitti che rallentano. Sommando tutti questi fattori, ecco la ricetta per una bolla finanziaria perfetta. Adesso tutti gli occhi sono puntati su Beijing, dove il governo deve affrontare un difficile dilemma: affondare ancora di più nel tentativo di puntellare il mercato o lasciar cadere la sua maschera di invulnerabilità. Intanto, lunedì scorso sera, dopo il tonfo dei mercati (attenuato solo grazie alla regola che prevede l’automatica sospensione dalla negoziazione di quei titoli il cui prezzo aumenta o diminuisce più del 10%), 247706-files-china-forex-yuan-invest-business-asianessuna parola su cosa sia in pianificazione per il futuro è stata proferita dalle autorità cinesi. Zhu Ning, deputy dean allo Shanghai Advanced Institute of Finance, ha affermato: “Se il governo non farà nulla, allora tutti gli sforzi già fatti saranno stati inutili. Se, invece, continuerà ad impegnarsi nei salvataggi, il buco continuerà a farsi sempre più grande. Speriamo che il regolatore rispetterà il mercato e le sue leggi”. Il grosso problema è che in passato il governo ha già snobbato le leggi di mercato e, il conseguente incremento delle quotazioni, ha infuso negli investitori l’aspettativa di sempre maggiori interventi da parte delle autorità ogni volta che se ne presentasse la necessità. Ciò non bastasse, ci sarà, con molta probabilità, un altro grande prezzo da pagare al quale la Cina sta tentando di sottrarsi. Secondo alcune stime, più di 564 miliardi di dollari di debiti sono legati alla speculazioni sulle azioni. Altri pochi Lunedì neri come quello scorso e i danni ai bilanci delle famiglie si riverseranno inesorabilmente sull’economia reale. Ma il danno più grave sarebbe, comunque, psicologico. Avendo per così tanto tempo dato l’impressione di esser capaci di far virare l’economia esattamente nella direzione voluta, la leadership cinese potrebbe essere costretta a concedere un chiaro limite al suo potere e questo potrebbe sferrare un duro colpo alla fiducia nell’economia asiatica, in un’epoca dove sta già rallentando la sua corsa. borsa-cinese-speculazione-e1436432157312Tuttavia, è una concessione necessaria. Non c’è modo di sapere quanto le autorità dovrebbero acquistare per stabilizzare i corsi azionari. La confidenza degli investitori, interamente basata sul supporto statale, potrebbe svanire non appena lo Stato smettesse di comprare. Senza considerare che le restrizioni agli scambi sono già servite ad annoiare gli investitori internazionali e a minare gli sforzi per elevare il renminbi a valuta di riserva internazionale. Cedere il controllo alle forze di mercato, non solo si scontra con l’ideologia comunista, ma va anche contro il paternalismo che ancora risuona nella vita politica cinese. Volendo usare le parole di un investitore primario, il mercato finanziario “ha bisogno di settimane di terrore” per diventare più sicuro e, qualora il crollo delle quotazioni dovesse intaccare la fiducia dei consumatori cinesi, la Cina possiede altre leve, al di là dell’acquisto di azioni, per spingere la domanda interna. Se mai il governo cinese sarà così saggio da ricordare che la crescita dell’economia reale nel paese del Dragone riposa su spinte strutturali ben più forti delle punzecchiature di un mercato azionario immaturo, è meglio che gli investitori si preparino ad altre settimane inquietanti.

Giuseppe De Simone