Archivi categoria: Economia

Standard&Poor’s: gli effetti del Grexit in Eurozona

 

Lo scorso 29 giugno, l’agenzia di rating Standard&Poor’s ha abbassato il rating di lungo periodo della Grecia da CCC a CCC-. La decisione, spiegano, è il diretto risultato di un’accresciuta probabilità che il Paese rinunci alla moneta unica, stimata al 50%, dopo che il Governo greco ha rifiutato Standard-and-Poorstutte le proposte dei creditori e indetto, oggi, domenica 5 luglio, un referendum per demandare al popolo la decisione ultima. Come noto, le indicazioni del Governo sono di votare “OXI” (no). S&P ha recentemente pubblicato un documento in cui cerca di stimare quali sarebbero gli effetti di un abbandono greco della moneta unica. Per gli analisti, le conseguenze sarebbero disastrose per l’economia ellenica, per le sue banche e per tutte le imprese non finanziarie. La Grecia perderebbe definitivamente l’accesso ai finanziamenti della BCE, il ché creerebbe una grave carenza di valuta estera per i settori pubblico e privato. Senza il supporto dell’Eurosistema, il quale, secondo le analisi di S&P attualmente supera il 70% del PIL, il sistema di pagamenti della Grecia crollerebbe e le sue banche non sarebbero più in grado di funzionare. Inoltre, il debito pubblico e privato, denominato fino ad ora in euro, vedrebbe il suo valore nominale aumentato, una volta convertito nella nuova moneta. Tuttavia, la società di rating vede come contenibile il rischio di contagio del Grexit. L’attuale situazione è molto diversa rispetto al 2012, quando la Grecia diventò una preoccupazione diretta: tutti i membri della zona euro (periferia compresa), oggi, infatti, sono più solidi, sia economicamente sia strutturalmente, e la BCE ha finalmente intrapreso un programma di QE (leggi articolo). Le reazioni dei mercati all’inadempienza della Grecia nei confronti del FMI e alla scadenza del programma di aggiustamento UE, sembrano confermare questo punto di vista. Ma, avvertono gli analisti, se la Grecia uscisse dalla moneta unica, sarà stato dimostrato che qualsiasi paese potrebbe rinunciare alla sua permanenza nell’unione monetaria e ciò metterebbe anche in discussione tutte le ipotesi alla base di più di vent’anni di politica e di politica economica. Una strada pericolosa che potrebbe innescare conseguenze a lungo termine, difficili da prevedere. I mercati, ad esempio, potrebbero sollevare dubbi circa gli accordi istituzionali vigenti in Europa, circa il ruolo dei creditori ufficiali e l’efficacia dei controlli UE sull’applicazione dei programmi di sostegno finanziario. L’ambiente macroeconomico potrebbe diventare meno prevedibile, aumenterebbero le controversie legali e l’impegno stesso per la moneta unica potrebbe essere messo in discussione, aggravando la già fragile situazione economica della regione europea. A livello politico, invece, il Grexit accrescerebbe i dubbi circa l’impegno di rafforzare l’intera architettura alla base dell’Unione Europea. imagesAnche se, dalle parti di S&P, ritengono che i partiti anti UE perderanno molto consenso dopo che i costi sociali ed economici greci si saranno manifestati. Reputano, pertanto, che l’uscita della Grecia dall’Euro sia un evento unico nel suo genere, che potrebbe portare, nel lungo termine, notevoli danni, in tema di coesione politica, in Europa. In base alle simulazioni Standard&Poor’s e Oxford Economics, l’impatto economico complessivo del Grexit sarebbe grave per la Grecia, ma più contenuto per il resto della zona Euro. Le ipotesi chiave per condurre lo studio sono state:

  • la Grecia abbandona la zona Euro il 1° luglio 2015;
  • la Grecia torna alla Dracma. I mercati spingono la moneta sotto il suo tasso di pre-conversione, GDR340/€1, fino a GDR540/€1 nel 4° trimestre;
  • la Grecia fallisce e taglia il suo debito pubblico da 314 Mld€ a 164 Mld€. I restanti membri dell’Eurozona “fanno buone” le perdite della BCE e incrementano il loro debito;
  • un enorme shock di fiducia colpisce l’economia greca, pari a quattro volte l’impatto che sperimentò con la caduta della Lehman;
  • il Grexit richiede alla BCE di rispondere in modo aggressivo, anticipando i piani del QE nel quadrimestre immediatamente successivo al default.

Poiché la Grecia è una piccola economia e tradizionalmente più chiusa rispetto alle altre del blocco europeo, gli effetti commerciali diretti di una sua uscita sarebbero ridotti per le altre economie. Escludendo Cipro (19% di esportazioni verso la Grecia, nel 2013), solo due economie esportano più del 2% del loro totale verso Atene: Macedonia (4,2%) e Malta (3,3%). Eurozone Real GDPAnche ipotizzando un crollo delle importazioni greche del 50% l’anno dopo la sua uscita, questo avrebbe un impatto limitato su Germania, Francia e Italia, stimato tra -0,3% e -0,5% sulla domanda totale di esportazioni, rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Tale calo ridurrebbe il PIL dei tre paesi tra lo 0,2% e lo 0,3% (grafico  a sinistra). L’effetto principale, in particolar modo sui Paesi periferici (quelli economicamente più deboli), si avrebbe, però, attraverso il mercato dei capitali. La simulazione condotta suggerisce che, data la percezione della revocabilità dell’adesione all’Euro, la conseguenza più significativa potrebbe essere quella di reintrodurre un premio per rischio di cambio valutario sui rendimenti Germany 10y Yieldobbligazionari di tutta la regione europea. Il contagio, in tal senso, può causare un picco di rendimenti, soprattutto per quelle economie percepite più deboli dai mercati (cfr. grafici a destra e sottostante). Il programma di QE sarebbe in grado di limitare il rialzo dei rendimenti, ma è probabile che un premio per il rischio di valuta resti in modo permanente. Nell’esercizio, l’aumento dei costi di finanziamento per la zona Euro nel suo complesso, nel periodo 2015/2016, si assesterebbe a circa 30 Mld€, ma l’aumento non sarà distribuito uniformemente. Sarà l’Italia a sostenerne il peso maggiore, con un incremento di 11 Mld€. S&P stima, dunque, un maggior costo del rifinanziamento dei debiti pubblici di 30 Mld€ complessivi per l’intera area e di 11 Mld€ per l’Italia. Italy 10y YieldMa la cifra potrebbe essere sovrastimata: per il calcolo, S&P avrebbe ipotizzato che i tassi dei Btp decennali salgano di 120 b.p., dall’attuale 2,3% al 3,5%. Ma per arrivare a 11 Mld€ di maggiori oneri sul debito nei due anni, sarebbe necessario applicare l’aumento a tutte le emissioni del 2015 e del 2016 (programmate per un totale di 420 miliardi l’anno), e anche immaginare che i titoli a tasso variabile facciano registrare un incremento allineato. La stima dimenticherebbe, però, che il 63% delle emissioni di Btp decennali nel 2015 è già stato realizzato: restano da emettere meno di 200 miliardi. E tralascerebbe che i titoli con tassi variabili sono indicizzati all’Euribor. Insomma: il conto dell’uscita della Grecia dalla moneta unica potrebbe non essere così salato come Standard&Poor’s immagina.

Giuseppe De Simone

 

 

Il paradosso Quantitative easing e l’isteria dei mercati

 

Boom! Head shot! Passatemi il linguaggio da gamer incallito ma, supermario draghiè proprio il caso di dirlo, il bazooka di Mario Draghi (foto a destra) ha colpito l’obiettivo. Il 22 gennaio scorso, la BCE ha annunciato il primo piano di Qe (Quantitive easing) nella storia dell’Eurozona: un’operazione da 1000 miliardi di euro. Tra le regole del programma è stato previsto che l’Istituto di Francoforte comprasse sul mercato secondario, e solamente lì, i titoli di Stato dei 19 Paesi dell’Eurozona con la sola esclusione della Grecia. Non tutti i titoli, però, sono interessati dagli acquisti. Infatti, è possibile rastrellare solo quelli con scadenze comprese fra i 2 anni e i 30 anni, a condizione, poi, che i tassi di interesse di mercato non siano inferiori ai tassi di deposito stabiliti dalla BCE stessa (attualmente fissati a -0,2%). Alla data del 22 gennaio, il rendimento dei BTP a 10 anni era all’1,56%, già più basso di 50 bp (basis point) rispetto a dicembre, quando si cominciava a parlare di Qe. Il rendimento ha, poi, continuato a scendere fino all’1,12% dell’11 marzo, ovvero solo due giorni dopo l’inizio degli acquisti di titoli di Stato al ritmo di 45 miliardi al mese. Dopodiché, i tassi di interesse hanno intrapreso la strada opposta, ricominciando a salire, con tempi e modi diversi, in tutt’Europa. Si è quindi realizzato un “paradosso”: il piano agisce in linea diretta sui titoli di Stato ma, a conti fatti, non è al momento riuscito ad abbassare i rendimenti dei bond governativi e, in special modo, quelli dell’area “periferica”. Il Qe ha, invece, smosso i canali finanziari indiretti, le Borse (in forte rialzo da inizio anno) e l’Euro (svalutatosi nei confronti del Dollaro). Come mai, allora, i rendimenti sono tornati ai livelli pre-Qe? La risposta risiede in una sorta di moral hazard, perché i governi hanno notevolmente incrementato le emissioni. «L’offerta di obbligazioni sui mercati europei è stata certamente un fattore chiave nel determinare il recente calo dei prezzi (e il rialzo dei rendimenti, ndr). Nel tentativo di sfruttare i bassi tassi di interesse, i governi hanno inondato il mercato di titoli, esercitando pressioni sui tassi e provocandone il rialzo – ha spiegato Raman Srivastava, gestore del fondo BNY Mellon Euroland Bond Fund -. Tuttavia, ci stiamo avvicinando all’estate e nel mese di luglio l’offerta netta sui mercati obbligazionari è tradizionalmente negativa. qetassitalia-700Ci aspettiamo, quindi, che la sovrabbondanza di titoli si faccia più contenuta. La Banca Centrale Europea ha già lasciato intuire che modificherà il suo programma alla luce di questa previsione, incrementando gli acquisti di titoli a giugno e rinviando quelli previsti per luglio ai mesi di agosto e settembre. Pertanto, anche se le dinamiche dell’offerta si protrarranno ancora a lungo, non dovrebbero produrre, nei prossimi mesi, lo stesso effetto negativo sulle obbligazioni cui abbiamo assistito nel secondo trimestre del 2015». Il rimbalzo dei tassi d’interesse è una notizia  tutt’altro che una cattiv. Innanzitutto, perché è conseguenza anche delle buone nuove provenienti dal quadro macroeconomico: sia la crescita reale che l’inflazione hanno abbandonato i livelli allarmanti dell’anno passato. In secondo luogo, perché il rafforzamento del Dollaro e l’indebolimento dell’Euro, che ne è derivato, ha avuto e avrà effetti positivi, sia per la competitività, sia per la maggiore inflazione importata. Per quale motivo, dunque, il mercato appare sorpreso? Principalmente perché, in un mondo surreale di tassi vicini allo zero, o, addirittura, negativi, un incremento dei Bund tedeschi all’1% diventa il più forte incremento, e quindi, la più ampia caduta dei prezzi, dal 1988, altrimenti si rischia di perdere in poche settimane i proventi delle cedole di sei anni. Il nervosismo dei mercati è dovuto all’aspettativa che la BCE realizzasse il suo piano, evitando sbalzi eccessivi alla volatilità dei tassi e, di conseguenza, dei prezzi.borsa Ma questo non rientra affatto nelle preoccupazioni della Banca Centrale Europea. Ad una precisa domanda alla conferenza del 2 giugno scorso, il governatore Draghi ha risposto che bisogna abituarsi a periodi, come questo, di elevata volatilità, dando, quindi, un messaggio molto fermo sulla politica della BCE: se movimenti, anche violenti, dei prezzi dei titoli pubblici sono la conseguenza di dinamiche fisiologiche di mercato, la politica monetaria deve continuare a remare nella stessa direzione disegnata dal piano originario. Non si può deviare dalla rotta per accomodare le tensioni che nascono da perturbazioni improvvise nella variabilità dei tassi e dei prezzi. Inoltre, ha aggiunto un’ulteriore importante considerazione: la Banca Centrale Europea non si può nemmeno preoccupare delle conseguenze microeconomiche di uno scenario di tassi d’interesse molto bassi. Interi settori dell’intermediazione non sono per nulla avvantaggiati da uno scenario a medio termine di bassi tassi, con buona pace di quelli che continuano a parlare di “regalo” alle banche.

Giuseppe De Simone

 

 

Fibra ottica: così Telecom ci tiene nell’età del rame

 

Da mesi non si parla d’altro nel mondo delle telecomunicazioni italiane. Il lodevole progetto del Governo Renzi di dotare larghissima parte del Paese, entro il 2020, della vecchia (nuova solo per noi) fibra ottica, rischia di subire una brusca frenata, a causa degli interessi opposti di Telecom Italia. La vicenda, surreale, è in sintesi questa: il piano del Governo prevede circa 6 miliardi di euro di investimenti pubblici (tra Italia e Unione Europea) con l’idea iniziale di coinvolgere tutti gli operatori in Metroweb (società già attiva nel cablaggio di alcune città del Nord patuano-telecome partecipata, a maggioranza, dalla Cassa Depositi e Prestiti) per la realizzazione delle infrastrutture. Tutto bene, peccato solo che alla partita partecipi anche Telecom Italia. Sull’azienda guidata da Marco Patuano (foto a destra) pesa un enorme debito, salito nell’ultimo trimeste, a 29 miliardi di euro, garantito da una rete in rame che vedrebbe quasi del tutto azzerato il suo valore nel caso si realizzassero i propositi del Governo. Da qui, l’idea “geniale” di Telecom di aderire al progetto solamente alle sue condizioni: entrare con una quota del 60% in Metroweb Sviluppo, con una limitazione dei diritti di voto al 40%, per arrivare a detenere, una volta terminati gli investimenti, il 100% del capitale. L’intento è quello di possedere l’intera rete in fibra ottica, ricostituendo, così, una situazione di monopolio simile a quella già esistente per il rame. Il niet è arrivato immediatamente dall’Antitrust e a tale follia si è da subito opposta anche la Cassa Depositi e Prestiti, la quale, nonostante abbia aperto alla possibilità di concedere a Telecom la maggioranza in Metroweb, esclude categoricamente la cessione dell’intera proprietà della struttura di rete alla stessa. Posizione ribadita, anche di recente, dal Presidente della Cassa metroweb-logo-171571Depositi e Prestiti Franco Bassanini: “Telecom rivestirebbe, comunque, il ruolo più importante, perché è la società più importante, noi mettiamo il capitale”. Del resto, c’è da dire che in Telecom di capitali da investire ne restano ben pochi: nel bilancio trimestrale, il gruppo ha mostrato ancora segnali di rallentamento, con un utile più che dimezzato (da 222 a 80 milioni, anche per ragioni straordinarie), ricavi in calo (-2,6% a 5,1 miliardi), un margine operativo lordo in flessione (-7,7% a 2 miliardi) e un aumento del debito a 29 miliardi, dai 27 del dicembre 2014, legato ad una “negativa generazione di cassa operativa nel trimestre”. Ciò nonostante, Telecom vuole restare il padrone dell’infrastruttura di rete e si rifiuta di entrare in un “condominio” di operatori per sviluppare la fibra ottica sotto la guida e la garanzia della Cassa Depositi e Prestiti. Così, per portare avanti i suoi programmi di sviluppo, il Governo sta valutando un piano alternativo, che presupporrebbe l’aiuto di ENEL Terna. La più importante azienda energetica italiana, per quanto non abbia intenzione di rimettersi in gioco sulla telefonia, ha in atto un piano per la sostituzione dei vecchi contatori, che potrebbe tornare molto utile per portare la fibra ottica in tutte le case degli italiani, tramite tecnologia Ftth (Fiber to the home). Per Metroweb, insomma, i potenziali partner per realizzare la nuova infrastruttura a banda ultralarga non mancano, ma la partecipazione di Telecom renderebbe tutto più semplice. Per questo, Palazzo Chigi non ha rinunciato all’idea di ricucire lo strappo con Telecom, la quale, intanto, va avanti per la022795-fastweb_telecom sua strada. Di qualche giorno fa, infatti, è la notizia dell’accordo con Fastweb per la commercializzazione, nel 2016, di una “innovativa” Adsl (Vdsl enhanced) su architettura Fttc (Fiber to the cabinet), ovvero fibra fino all’armadietto di strada per poi raggiungere le case, tramite la vecchia linea in rame, con una velocità che si riduce drasticamente all’aumentare della distanza tra la cabina e l’abitazione. Un chiaro concretizzarsi della minaccia di procedere al cablaggio di 40 città, in diretta concorrenza a Metroweb. Una mossa disastrosa, la quale, al di là dell’assurdità di un doppio cablaggio, rischia di costar caro al nostro Paese, a causa delle norme europee che impediscono l’utilizzo di fondi pubblici se vi è un privato ad operare nello stesso settore e sullo stesso territorio. Morale della favola? Se Telecom andrà avanti con i suoi propositi, nelle città in cui vorrà installare la sua fibra non potranno essere usati soldi pubblici per le infrastrutture di rete e la grande opera strategica per il futuro del Paese rischia di essere bloccata o, almeno, ostacolata dagli interessi privati di un’azienda. Noi, nell’attesa, possiamo continuare ad impiccarci con il doppino di rame. Grazie Telecom!

Giuseppe De Simone

 

Questo articolo fa seguito a La banda ultra larga in Italia di Edoardo Morvillo. I nostri collaboratori si stimolano a vicenda, dando origine a scambi di idee e informazioni, a beneficio dei lettori, nello spirito di questo sito-blog!

 

 

NASpI: stangata quasi certa ai lavoratori stagionali

 

Dal 1° Maggio 2015 entrerà in vigore la NASpI (Nuova prestazione di Assicurazione Sociale per l’Impiego), la nuova indennità di disoccupazione prevista dal Jobs Act, che andrà a sostituire i tre-giornivecchi sussidi, ASpI (Assicurazione Sociale per l’Impiego) e mini-ASpI, introdotti con la Legge n. 92 del 2012 (Riforma Fornero). A cambiare è praticamente tutto: la platea dei destinatari, i requisiti d’accesso, il calcolo e la durata dell’indennità, i termini di presentazione della domanda e le regole sulla compatibilità con un nuovo lavoro o attività. Il nuovo assegno sarà esteso a tutti coloro che perderanno il lavoro (ad esclusione di dipendenti a tempo indeterminato della P.A. e operai agricoli a tempo determinato o indeterminato), quindi, anche a precari e collaboratori a progetto che non potevano accedere alle vecchie prestazioni ASpI e mini-ASpI, a patto che posseggano tutti e tre i seguenti requisiti:

  • siano in stato di disoccupazione (ai sensi dell’articolo 1, comma 2, lettera c, del decreto legislativo 21 aprile 2000, n. 181, e successive modificazioni);
  • possano far valere, nei quattro anni precedenti l’inizio del periodo di disoccupazione, almeno tredici settimane di contribuzione;
  • possano far valere trenta giornate di lavoro effettivo, a prescindere dal minimale contributivo, nei dodici mesi che precedono l’inizio del periodo di disoccupazione.

Il testo, inoltre, specifica che il lavoratore deve partecipare ai percorsi di riqualificazione professionale previsti e prender parte alle iniziative di ricollocazione. La misura dell’indennità sarà rapportata alla retribuzione imponibile ai fini previdenziali degli ultimi quattro anni, divisa per il numero di settimane di contribuzione e moltiplicata per 4,33. In quei casi in cui la retribuzione mensile sia pari o inferiore, nell’anno 2015, all’importo di 1.195 euro (rivalutato annualmente sulla base della variazione dell’indice ISTAT dei prezzi al consumo intercorsa nell’anno precedente), la nuova disoccupazione è pari al 75% della retribuzione mensile. 54793-bigNei casi in cui la retribuzione mensile sia superiore all’importo di cui sopra, l’indennità è pari al 75% del predetto importo, incrementato di una somma pari al 25% della differenza tra la retribuzione mensile e il predetto importo stesso. Nuovi anche i massimali: nel 2015, l’assegno mensile non potrà superare l’importo di 1.300 euro, anch’esso rivalutato annualmente sulla base della variazione dell’indice ISTAT dei prezzi al consumo. Diversa anche la progressione nel tempo: la NASpI si riduce del 3% ogni mese successivo al terzo, l’ASpI, di contro, scendeva del 15% dopo i primi sei mesi e di un ulteriore 15% dopo il primo anno. Venendo alla nota dolente della riforma, soprattutto per i lavoratori stagionali che risultano essere i più penalizzati dalla stessa, il decreto legislativo che introduce la NASpI prevede, all’art. 5, che il nuovo sussidio di disoccupazione sia corrisposto “mensilmente, per un numero di settimane pari alla metà delle settimane di contribuzione degli ultimi quattro anni. Ai fini del calcolo della durata, non sono computati i periodi contributivi che hanno già dato luogo ad erogazione delle prestazioni di disoccupazione. Per gli eventi di disoccupazione verificatisi dal 1° gennaio 2017 la NASPI è corrisposta per un massimo di 78 settimane”. Come si comprende limpidamente, la durata della nuova NASpI è pari alla metà delle settimane lavorate durante l’anno precedente al momento della disoccupazione. In tale calcolo, tuttavia, non si tiene conto dei periodi contributivi per i quali è già stata erogata una prestazione di disoccupazione. Nel caso dei lavoratori stagionali, ciò implica (assumendo come esempio di riferimento il caso di un lavoratore che risulta occupato per soli sei mesi in un anno) che saranno considerati utili ai fini del calcolo per la durata del sussidio, i soli sei mesi lavorati nel 2015 e non anche quelli precedentemente lavorati nel 2014 i quali, nella maggior parte dei casi, sono già stati utilizzati l’anno precedente per accedere al sussidio della mini-ASpI. In tal modo, per i lavoratori stagionali si prevede una sensibile riduzione del sussidio di disoccupazione che diventerà pari alla metà dei soli mesi lavorati nel 2015 e, quindi, sarà erogato per tre mesi, mentre, con la mini-ASpI, il sussidio poteva essere percepito per sei mesi, poiché il calcolo delle settimane lavorate era spalmato sugli ultimi due anni di contribuzione.stg A seguito del sollevarsi delle prime polemiche, legate ai lavoratori stagionali come destinatari di NASpI, è arrivata una ulteriore precisazione da parte del Ministero del Lavoro: i periodi senza contribuzione, da parte del datore di lavoro o di cassa integrazione a zero ore, sono considerati “neutri e determineranno un ampliamento, pari alla loro durata, del quadriennio all’interno del quale ricercare il requisito necessario di almeno tredici settimane di contribuzione”. Lo stesso principio del valore neutro vale anche per il requisito delle trenta giornate di lavoro effettive negli ultimi dodici mesi. Il Ministero conclude informando che tutti gli aspetti controversi saranno chiariti nella circolare attuativa della NASpI che sarà emanata a breve dall’INPS. Ciò che è indubbio, per il momento, è che i lavoratori stagionali perderanno tre mesi di sussidi di disoccupazione, una penalizzazione che, considerato anche lo specifico settore lavorativo, richiede una revisione urgente da parte del legislatore o, comunque, della Previdenza. Ancora più certa è la direzione presa da questo Governo, cosi come dai precedenti: nonostante gli apparenti buoni propositi, si continuano a fare giochetti contabili sulla pelle dei ceti meno abbienti, smantellando, un pezzetto alla volta, quel che resta del nostro Stato sociale. “Ci pisciano in testa e ci dicono che piove!”.

Giuseppe De Simone

Non appena sarà emanata la circolare dall’INPS, aggiornamenti sulla questione saranno immediatamente comunicati ai lettori del blog.

 

Riforma delle pensioni: c’è chi dice sì

 

Nel nostro Pese, negli ultimi anni, si sono susseguite varie riforme in ambito pensionistico. Ultima, la tanto odiata Riforma Fornero. Ora che il quesito abrogativo della stessa è stato ritenuto inammissibile dalla Corte Costituzionale, con sentenza 20.01.2015 n° 6, per ragioni che attengono sia alla natura della normativa che si intende abrogare, sia alla struttura del quesito, si cercano le contromisure alla rabbia crescente dei lavoratori e del folto numero di esodati. Se un accoglimento del quesito avrebbe portato, con molta probabilità, ad una partecipazione massiccia al voto, adesso, con la decisione della Consulta, non ci saranno modifiche alla legge Fornero, almeno non in breve tempo. fornero-piange-05-12-2011Ciò significa che gli esodati dovranno attendere l’esame delle singole istanze, per ottenere il riconoscimento della pensione. Discorso analogo per i quota 96: con la norma correttiva, che ha mancato l’appuntamento sia nella riforma della Pubblica Amministrazione sia, poi, in legge di stabilità, non resta altra opzione che aspettare il prossimo agosto, quando buona parte dei professori e dei collaboratori scolastici, che avrebbero dovuto lasciare il servizio nel 2012, andranno finalmente in pensione con i nuovi requisiti. Anche sul fronte dei requisiti, i margini restano invariati. La decisione della Consulta, infatti, ha in sostanza affermato, nuovamente, che la legge Fornero resta la norma di riferimento per il welfare italiano. Accantonata quindi, definitivamente, la speranza di un ritorno al passato attraverso la via breve del referendum, ci si interroga su quali possano essere le misure correttive per rendere meno ferree le regole in vigore, soprattutto in base all’età pensionistica minima per accedere alle prestazioni INPS. Lo stesso ex ministro Fornero (foto in alto a destra) ha aperto alla possibilità di miglioramenti alla legge che porta il suo nome, dichiarando percorribile la strada illustrata da alcuni analisti, quella, cioè, del prestito pensionistico. Una sorta di uscita anticipata dal lavoro, che prevede comunque un prelievo sulle somme versate dal lavoratore, in modo da non pesare sui conti già deficitari dell’INPS. Non bisogna dimenticare intatti, che la ratio della legge in vigore è quella di ridurre al minimo la spesa pensionistica, motivazione alla base del’innalzamento dell’età pensionabile, così come dell’incremento dovuto alla speranza di vita. imageNel frattempo, l’INPS ha cambiato rotta sui giovani pensionamenti, sospendendo, in via cautelativa, la penalizzazione sull’assegno per coloro che accedono alla pensione anticipata senza aver raggiunto i 62 anni. La decisione dell’Istituto guidato da Tito Boeri (foto a sinistra) arriva in attesa della piena realizzazione delle novità inserite in legge di stabilità 2015, ma a, questo punto, è molto probabile che si stiano attendendo le mosse della maggioranza di Governo. Nel bel mezzo dei giorni caldissimi della scuola, mentre il Jobs Act sta per decollare, non era atteso un ritorno in auge del tema pensioni. Neanche il recente via libera dell’Unione Europea sulle manovre economiche del Governo aveva lasciato presagire un prossimo intervento sul settore previdenziale. Nonostante la promozione di Bruxelles, il margine di manovra per il Governo non si è allargato e qualsiasi intervento sulle pensioni può avere un grosso impatto sui conti pubblici. Senato - Fiducia governo RenziSenza dimenticare che di questi tempi l’INPS stessa è alle prese con le innovazioni del Jobs Act, con il decreto sugli ammortizzatori e i bonus assunzioni della finanziaria. La situazione, insomma, non lasciava spazio a una manovra correttiva sulle pensioni. E, invece, a sorpresa, il ministro del Lavoro Giuliano Poletti (foto a desta) ha affermato: “Con la prossima legge di stabilità presenteremo interventi sulle pensioni”,dichiarazione destinata a fare discutere e sperare milioni di pensionati e lavoratori ormai logori. Per i più maligni, la dichiarazione del ministro è dovuta alla presenza ingombrante di Tito Boeri, professore, economista ed editorialista apprezzato dal premier Renzi e solo momentaneamente parcheggiato alla previdenza, ma che starebbe già ambendo al dicastero di Poletti. Se c’è una cosa fuori dubbio, però, è il vigore riacquistato dal tema previdenziale. Come detto, sono diversi i nodi del welfare non ancora sciolti, a cominciare dagli esodati per passare alla indigesta innovazione sui requisiti. Tutti aspetti che l’annunciata riforma non può ignorare fin da ora: se, infatti, il piano dovrà essere pronto per la fine della prossima estate, non c’è tempo da perdere.

Giuseppe De Simone

Tsipras e Varoufakis: l’accordo con l’UE non è una sconfitta!

 

Venerdì 20 febbraio 2015 il Governo greco e i ministri dell’Economia dell’Eurozona si sono accordati per prolungare di quattro mesi gli aiuti finanziari alla Grecia. Atene ha rinunciato a parlare di taglio del debito, ad introdurre unilateralmente misure umanitarie e si è impegnata a non fare marcia indietro sulle misure imposte dalla Troika senza l’ok dei creditori. CRISIS-1Dall’altro lato, il Governo ellenico è riuscito a strappare importanti concessioni, come già detto, in primis, quattro mesi di tempo per mettere a punto un nuovo piano di riforme targato Syriza, la possibilità di cambiare, con il benestare dei creditori, le misure di austerity previste dal vecchio programma di Antōnīs Samaras, che prevedeva l’aumento dell’IVA, e nuovi tagli per 2,5 mld entro fine febbraio. Ma ciò che più è importante, la possibilità di chiudere il 2015 con un avanzo primario inferiore al 3%, originariamente imposto dalla Troika. E allora, perché tutto questo gridare al fallimento? Il Premio Nobel Paul Krugman scrive sul New York Times: “Nulla di ciò che è successo giustifica la pervasiva retorica del fallimento. In realtà, la mia sensazione è che stiamo vedendo una diabolica alleanza qui tra gli scrittori di sinistra con aspettative irrealistiche e la stampa economica, che ama la storia della debacle greca perché è quello che dovrebbe accadere a debitori arroganti”. Per comprendere meglio quanto è successo, bisogna chiarire come la principale materia del contendere riguardasse un solo numero: la dimensione del surplus primario greco, che quantifica la differenza tra le entrate e le spese, senza contare gli interessi sul debito. Questo, in parole spicciole, misura le risorse che la Grecia sta effettivamente trasferendo ai suoi creditori. Tutto il resto, tra cui la dimensione nominale del debito, rileva solo nella misura in cui colpisce l’avanzo primario che la Grecia è costretta a detenere. Riuscire ad avere un surplus, in un tale periodo di crisi, è stato un risultato notevolissimo per la Grecia, raggiunto a costo di enormi sacrifici. La questione è capire se il nuovo Governo sarà costretto ad imporre ulteriori misure di austerity per rispettare i piani, concordati dal precedente, Greek PM Tsipras addresses a news conference after a EU leaders summit in Brusselsche prevedevano un surplus primario triplicato nei prossimi anni, con un immenso costo per l’economia del paese e per i cittadini. Syriza, il suo leader Alexīs Tsipras (foto a sinistra) e il ministro delle Finanze Yanis Varoufakis, sull’argomento, non hanno indietreggiato di un centimetro ed hanno, anzi, ottenuto nuova flessibilità per quest’anno. Il linguaggio sugli avanzi futuri, inoltre, è rimasto fumoso. Potrebbe significare tutto o niente. Tornando alla domanda originaria, perché tutto questo urlare alla debacle? Ad onor del vero, la politica fiscale non è l’unico problema. C’erano e ci sono questioni legate alla privatizzazione dei beni, sulle quali Syriza ha accettato di non intervenire sugli accordi già conclusi, alla regolamentazione del mercato del lavoro, dove, le riforme strutturali  dell’era dell’austerità apparentemente rimangono. Syriza  ha altresì accettato di combattere l’evasione fiscale, anche se il motivo per cui la riscossione delle imposte sia ritenuta una sconfitta per un governo di sinistra rimane un mistero. papavassileou-troikqCiò nonostante, non si può non riconoscere che la Grecia, almeno provvisoriamente, sembra aver fatto finire il ciclo di austerity selvaggia, si è riappropriata di buona parte della sua sovranità, confermando che, d’ora in poi, gli ordini non verranno più da istituzioni esterne, ma che il governo greco è in grado di definire una grande parte della sua agenda e, in ultima analisi, ha reso un enorme favore al resto dell’Europa. Tutta l’Unione ha bisogno di mettere fine a questa folle austerità e, fortunatamente, ci sono stati segnali incoraggianti quando la Commissione Europea ha deciso di non multare Italia e Francia per il superamento dei loro obiettivi di disavanzo. C’è da chiedersi, scrive Krugman, se la vicenda greca ha avuto un ruolo in questa epidemia di ragionevolezza.

Giuseppe De Simone

 

 

Debito pubblico, Europa e monetizzazione

 

Tra i tanti problemi che attanagliano l’economia italiana ormai da decenni, un ruolo predominante è rivestito dall’enorme debito pubblico. Accumulato già a partire dagli anni ’80, quando si consumò il divorzio tra Tesoro e Palazzo Koch, la sua genesi storica mostra come ne siano state determinanti per la crescita il basso gettito fiscale e gli alti costi di remunerazione del capitale preso in prestito. Alla radice del problema, poi, non bisogna dimenticare l’evasione fiscale e la scarsa competitività del sistema produttivo italiano, come dimostrato da anni di deficit commerciale. Senza una forte crescita del PIL, ridurre l’onere del debito risulta operazione assai ardua. Come qualsiasi debitore in crisi, anche lo Stato ha due possibili vie d’uscita: l’austerity o il ripudio del debito dichiarando il default. Cattura12Quali sarebbero, dunque, le conseguenze di un fallimento sovrano? Il debito pubblico italiano è detenuto dalle banche e da altri intermediari finanziari italiani (circa il 35%), dalle famiglie italiane (circa il 13%), dagli investitori esteri (circa il 30%) e, infine, dalla BCE e dalla Banca d’Italia (10%). Rinnegarlo oggi, quindi, comporterebbe l’impoverimento di una buona parte dell’economia. La prima conseguenza di un default sarebbe il collasso del sistema finanziario (in quanto le banche si troverebbero con un patrimonio netto negativo), che si riverserebbe, poi, drammaticamente, sull’economia reale. Indagando i dati relativi a cento crisi sistemiche, si osserva come il PIL della nazione che ripudia il debito cala tra il 10% e il 35% e sono necessari, mediamente, 8 anni per ritornare ai livelli ante crisi. Alla luce di ciò, si discute sul serio di come questa possa essere una possibilità concreta per l’Italia? Il nostro Paese è già in una perdurante crisi finanziaria e aggiungervi un default sul debito sovrano spingerebbe ancor di più verso il baratro quel che resta della nostra economia. Da tempo, nel dibattito europeo si dibatteva dell’opportunità di una terza via: la monetizzazione del debito pubblico. gAnche la BCE con il suo QE, nonostante abbia dovuto cedere sulla ripartizione delle responsabilità, sembra muoversi nella stessa direzione seguita, in passato, dalla Bank of England, dalla Bank of Japan e dalla FED (foto a destra)  Interessante, soprattutto, il caso giapponese, che presenta molte analogie con la nostra condizione, tant’è che da molti l’Italia è vista come il possibile Giappone europeo. Il Paese nipponico ha vissuto vent’anni di stagnazione e deflazione, fin quando, nel 2013, il nuovo premier Shinzo Abe ha nominato governatore della Bank of Japan Haruhiko Kuroda il quale ha immediatamente annunciato un piano di quantitative and qualitative easing (QQE), che, combinato con le altre politiche giapponesi, sembra stia dando i suoi frutti su molti fronti. L’inflazione è salita all’1,5% e “inaspettatamente” anche l’economia si è rimessa in moto, posizionando nuovamente il Giappone fra le economie più performanti del globo. Premettendo che buona parte dei problemi europei e di paesi come l’Italia sono dovuti anche, e soprattutto, a difficoltà strutturali e, dunque, non solo alle politiche eccessivamente restrittive della BCE del governatore Mario Draghi (foto a lato), le evidenze mostrano come le politiche espansive si siano rilevate più efficienti, in un’ottica di crescita e di occupazione. La disoccupazione, negli Stati Uniti, ad esempio, è calata dal 12% al 6,7% e sembra che, su 4 milioni di nuovi posti di lavoro creati dal settore privato in America, tra il 2009 e il 2012, la metà siano la conseguenza delle azioni della Banca Centrale e delle politiche di deficit spending del Governo. Finalmente anche la BCE ha deciso di agire dal lato dell’offerta di moneta, finalmente… Anche se con colpevole ritardo. Attendiamo ora le risposte dei Governi.

 Giuseppe De Simone

 

Sustainable and Responsible Investement: la civilizzazione dell’economia

 

Quando si parla di SRI (Sustainable and Responsible Investement) ci si riferisce ad un processo di investimento che combini gli obiettivi finanziari di un investitore con l’attenzione alle questioni Environmental, Social and Governance. Ancor più precisamente, si parla della gestione di risorse finanziarie, attraverso l’acquisto e la vendita di titoli, e l’esercizio dei diritti connessi alla proprietà degli stessi. Ciò non vuol dire che responsabilità sociale e sostenibilità non possano essere applicate anche ad altre pratiche finanziarie ma, semplicemente, che l’SRI non è coincidente con il più vasto universo della Finanza Etica, di cui ne è, piuttosto, una parte. Se, da un lato, la teoria economica tradizionale ha da sempre osteggiato le pratiche SRI, ritenute non ottimali in termini di allocazione delle risorse, in quanto gli obiettivi metaeconomici colliderebbero con quelli economici (ogni vincolo imposto alla diversificazione del portafoglio va a ridurre la redditività dell’investimento), dall’altro, gli studi promossi sull’andamento del mercato SRI (per l’Europa si guardi agli studi condotti dall’Eurosif) hanno dimostrato come negli ultimi dieci anni il comparto degli investimenti sostenibili abbia mostrato tutte le sue qualità dinamiche e innovative. Non a caso, nell’European SRI Study 2014, il primo dato evidenziato è la continua crescita a doppia cifra di tutte le strategie SRI, messe in atto dai diversi operatori, ad un ritmo ben più veloce rispetto al mercato del risparmio gestito tradizionale. Volendo dare una spiegazione al trend dello scorso decennio, bisogna necessariamente interrogarsi su dove stia andando il capitalismo conosciuto. La chiave di lettura, come suggerito da S. Zamagna (Creare valore a lungo termine, 2013), è da ricercare nel nuovo modello di economia di mercato, noto come “capitalismo condiviso” (shared capitalism), che si sta affermando, da anni, in occidente. D. Kruse et Alii (Shared capitalism, 2012) definiscono tale modello come un sistema di incentivi organizzativi, che mira ad allineare gli interessi dei dipendenti e quelli dei proprietari, attraverso la condivisione del residuo e della partecipazione dei dipendenti ai processi decisionali, nonché, più in generale, ad allineare tra loro gli obiettivi degli shareholders e degli stakeholders. Le evidenze empiriche hanno dimostrato che, quando applicato, se pure parzialmente, questo modello accresce significativamente il valore degli indicatori di performance aziendale. In un mondo che sta andando in questa direzione, è evidente che per la creazione di valore e, quindi, di ricchezza durevole nel tempo, sono necessarie la collaborazione e la convergenza di interessi fra imprese, amministrazioni pubbliche e società civile organizzata. In altre parole, non è più immaginabile una contrapposizione fra valore economico e valore sociale delle azioni, posta in essere dai diversi attori che operano sul mercato. E’ questo il significato ultimo dell’SRI: spostare l’interesse dal massimo profitto di breve periodo al massimo valore realizzabile e sostenibile in un’ottica di lungo periodo, giocando, così, un ruolo strategico nel graduale processo di civilizzazione dell’economia.

Giuseppe De Simone