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Dio, uomo e universo

L’audace architettura del reale
secondo Giovanni Scoto Eriugena

 

 

 

 

De divisione naturae, conosciuto anche con il titolo greco Periphyseon, è l’opera maggiore di Giovanni Scoto Eriugena, pensatore irlandese del IX secolo, attivo alla corte carolingia di Carlo il Calvo. Quest’opera monumentale costituisce uno dei tentativi più originali e audaci del Medioevo di costruire un sistema filosofico e teologico capace di integrare la rivelazione cristiana con le strutture speculative del neoplatonismo tardo-antico. Scritta in un latino raffinato e spesso complesso, è organizzata in forma dialogica, con l’alternanza tra maestro e discepolo, un espediente che permette all’autore di esaminare e discutere i concetti da più angolazioni, senza appiattirli in un’esposizione lineare.
L’opera si fonda su una visione della realtà strutturata in quattro modalità fondamentali dell’essere, che Eriugena definisce “nature”. Non si tratta di categorie fisse, né di enti distinti, ma di modalità dinamiche in cui si articola il rapporto tra Dio, la creazione e il ritorno finale di tutte le cose all’origine divina. La prima natura è Dio in quanto principio assoluto, che crea tutto ma non è creato da nulla. È la fonte inesauribile dell’essere, trascendente e inconoscibile, che si colloca al di là di ogni determinazione. La seconda natura comprende le cause primarie e le idee eterne che risiedono nella mente divina e che partecipano all’atto creativo: sono forme intelligibili che danno struttura alla realtà creata. La terza natura è l’universo sensibile, la realtà materiale e visibile, che riceve la forma ma non è in grado di produrne a sua volta. La quarta e ultima natura è Dio come fine supremo, il termine verso cui tutto tende. In questa visione, Dio è sia origine che destinazione: tutto ha inizio in Lui e tutto ritorna a Lui, in un movimento circolare che richiama esplicitamente la metafisica neoplatonica del processus e reditus.
Questa visione non è puramente teorica ma si innesta in una riflessione più ampia sulla conoscenza, sul linguaggio e sulla funzione della filosofia e della teologia. Per Eriugena, non esiste separazione tra ragione e fede: la filosofia autentica è essa stessa teologia e la teologia non può che essere esercizio della ragione. Questo principio lo porta ad affermare che nulla di ciò che è in contrasto con la ragione può provenire da una vera autorità, anche se ecclesiastica. Una tesi che, per i suoi tempi, era estremamente ardita. La ragione, dunque, non è nemica della fede ma suo completamento e strumento privilegiato per cogliere il senso profondo della rivelazione.

Un tema centrale dell’opera è il concetto di logos, inteso come parola divina ma anche come ragione universale che permea la creazione. Il mondo, per Eriugena, è una sorta di “testo” scritto da Dio, e l’uomo, attraverso la sua intelligenza, è chiamato a leggerlo e interpretarlo. La conoscenza non è mai separata dalla contemplazione del divino ed è proprio tramite questa attività interpretativa che l’essere umano realizza la sua natura più autentica.
In questo sistema, l’uomo occupa una posizione privilegiata. Non è soltanto parte del creato ma è altresì immagine di Dio, contenendo in sé tutti gli elementi della realtà. Per questa ragione, Eriugena lo definisce microcosmo, cioè un riassunto dell’universo. L’essere umano, in quanto creatura razionale e spirituale, è l’anello di congiunzione tra il mondo sensibile e quello intelligibile. In lui si realizza la sintesi di tutte le nature. È attraverso l’uomo che la creazione prende coscienza di sé e può, mediante un processo di purificazione e conoscenza, ritornare al proprio principio.
Una riflessione importante riguarda anche il problema del male. Eriugena lo interpreta in continuità con la tradizione agostiniana e neoplatonica, sostenendo che il male non ha consistenza ontologica: non è una realtà creata, quanto una privazione, un’assenza del bene. Il male è, quindi, non-essere, disordine, deviazione rispetto alla pienezza dell’essere che è Dio. Perciò, non si può attribuire a Dio la responsabilità del male, perché Dio è solo bene, e tutto ciò che esiste veramente partecipa del bene.
Nonostante l’elevata coerenza speculativa del sistema, il pensiero di Eriugena fu accolto con diffidenza. Le sue tesi, specie quelle che sembravano dissolvere la distinzione tra creatore e creato nel ritorno finale a Dio, furono ritenute ambigue e pericolose. Nel XIII secolo, l’opera fu condannata come eretica dal concilio di Sens (1225) e da papa Onorio III, e ne fu proibita la lettura. Per secoli, il De divisione naturae è rimasto ai margini della tradizione scolastica, ma è stato riscoperto in epoca moderna come un’opera di straordinaria originalità.
Oggi, De divisione naturae è considerato un testo filosofico e teologico di primo piano nell’Alto Medioevo, capace di anticipare temi che sarebbero diventati centrali nella scolastica, nel misticismo renano e nella metafisica dell’età moderna. La sua riflessione sulla natura, sull’unità dell’essere, sulla funzione della ragione e sul destino dell’uomo si colloca in un punto di snodo tra la cultura tardo-antica e la filosofia cristiana medievale, rendendo Giovanni Scoto Eriugena una figura chiave nella storia del pensiero occidentale.

 

 

 

 

Mare Clausum

La rivoluzione inglese del diritto marittimo

 

 

 

 

Mare Clausum seu de dominio maris, pubblicato nel 1635, è uno dei testi più significativi nella storia del diritto internazionale. Scritto dal giurista inglese John Selden, costituisce una presa di posizione netta e articolata contro l’idea, allora dominante in ambito olandese, del mare liberum – ossia del mare come spazio aperto e non soggetto a sovranità statale. Selden rispose direttamente a Hugo Grozio, autore del celebre Mare Liberum (1609), che sosteneva la libertà di navigazione e il diritto di accesso illimitato ai mari per fini commerciali, principi alla base dell’espansione navale e commerciale dei Paesi Bassi.
La stesura del Mare Clausum si colloca in un contesto politico molto preciso. Nei primi decenni del Seicento, l’Inghilterra cercava di affermarsi come potenza marittima e commerciale, in competizione diretta con l’Olanda e la Spagna. Re Carlo I, desideroso di rafforzare il controllo inglese sui mari circostanti e giustificare il diritto a esigere tributi da navi straniere, incaricò Selden di redigere un’opera giuridica che legittimasse queste ambizioni. Sebbene completato già nel 1618, il trattato fu pubblicato ufficialmente solo diciassette anni dopo, nel 1635, in seguito a una lunga fase di censura e approvazione da parte del Consiglio del Re, a causa della sua potenziale carica polemica e diplomatica.
L’opera si articola in due libri distinti. Il primo, a carattere prevalentemente storico, è un ampio excursus sulle pratiche del passato, vòlto a dimostrare come il dominio sui mari non fosse affatto un concetto nuovo o innaturale. Selden attinse a fonti romane, greche, medievali e rinascimentali, per documentare come numerosi Stati e poteri – dall’Impero romano alla Repubblica di Venezia, dalla Lega Anseatica al regno d’Inghilterra – avessero esercitato un controllo effettivo e riconosciuto su porzioni di mare. La sua tesi è che il mare, come la terra, può essere soggetto a possesso, giurisdizione e amministrazione statale. Non esiste alcun principio naturale, religioso o giuridico che imponga al mare uno statuto di libertà assoluta e permanente. Nel secondo libro, di taglio più tecnico e giuridico, Selden entrò nel merito della questione teorica. Contestò l’assunto di Grozio secondo cui il mare, per sua natura, sarebbe res nullius, cioè non appropriabile. Secondo Selden, tale principio non ha fondamento nel diritto naturale, né nella legge divina, né nella prassi delle nazioni. Anzi, la consuetudine internazionale, o jus gentium, mostra chiaramente come gli Stati abbiano da sempre rivendicato e fatto valere diritti sui mari adiacenti alle loro coste. L’argomentazione di Selden si fondava su un’interpretazione pragmatica e realistica del diritto: la sovranità non è un ideale astratto, ma il risultato della capacità effettiva di uno Stato di esercitare potere e di farlo riconoscere. Se uno Stato è in grado di controllare uno spazio marittimo, amministrarlo e difenderlo, allora ha anche il diritto giuridico di rivendicarlo.

Questa visione si inserisce in una più ampia concezione dello Stato moderno, in cui la sovranità non si ferma alle coste, ma si estende verso il mare, in proporzione alla capacità dello Stato di esercitare la propria autorità. Per l’Inghilterra del Seicento, ciò significava giustificare non solo il diritto alla pesca nelle acque del Mare del Nord e del Canale della Manica, ma anche il diritto di imporre limiti alla navigazione e di esigere il cosiddetto “saluto alla bandiera” da parte delle navi straniere che transitavano in quelle acque.
Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, Selden non negò completamente la libertà di navigazione. Riconobbe che gli Stati, pur esercitando sovranità sul mare, non dovessero ostacolare arbitrariamente il passaggio pacifico di navi straniere, soprattutto per fini commerciali legittimi. Tuttavia, questa libertà non è assoluta: deve convivere con i diritti sovrani degli Stati costieri, che hanno il potere di regolare, limitare o condizionare l’uso dei mari in base ai propri interessi.
Mare Clausum ebbe un impatto significativo, soprattutto in ambito britannico, dove fu utilizzato come fondamento teorico per rafforzare le pretese marittime dell’Inghilterra nei confronti di altre potenze. Anche se non riuscì a soppiantare del tutto l’influenza del Mare Liberum di Grozio – che continuò a essere la base ideale del diritto marittimo internazionale per oltre due secoli – l’opera di Selden pose le basi per una concezione più articolata e realistica del diritto del mare, in cui la sovranità statale e la libertà di navigazione convivono in un equilibrio spesso teso ma necessario.
Nel tempo, il dibattito tra “mare chiuso” e “mare libero” si è evoluto in un compromesso pratico: il riconoscimento della sovranità statale su una fascia marittima limitata, di solito corrispondente a una distanza dalla costa calcolata sulla base della portata dell’artiglieria dell’epoca (le famose “tre miglia marine”), e il mantenimento della libertà di navigazione oltre tale limite. Questo principio, nato da secoli di dispute teoriche e politiche, è confluito infine nella moderna Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, che regola ancora oggi l’equilibrio tra diritti degli Stati costieri e interesse internazionale alla libera circolazione marittima.

 

 

 

 

Il dominio dell’anima

Proairesi e diairesi nel pensiero di Epitteto

 

 

 

 

 

Nel pensiero di Epitteto, filosofo stoico (50-130 d.C.) nato schiavo e divenuto uno dei più apprezzati maestri di filosofia morale del mondo antico, i concetti di proairesi e diairesi costituiscono il nucleo del suo insegnamento. Non sono termini astratti ma strumenti pratici per vivere bene. In una visione del mondo che riconosce l’instabilità della fortuna, l’imprevedibilità degli eventi e la fragilità delle condizioni esterne, Epitteto individua nella proairesi l’unico vero bene dell’essere umano: la capacità di scegliere consapevolmente il proprio atteggiamento davanti a ciò che accade.
Il termine proairesi (προαίρεσις) indica la facoltà razionale e deliberativa dell’uomo, ciò che lo rende libero e responsabile. È l’unica cosa che “dipende da noi” (ἐφ’ ἡμῖν), secondo la formula fondamentale del Manuale (Enchiridion, 1): non il corpo, non i beni materiali, non la reputazione, non la salute – tutte queste cose sono esterne e quindi vulnerabili. Solo la proairesi, cioè il modo in cui reagiamo interiormente a ciò che ci accade, è interamente sotto il nostro controllo. Epitteto insiste che, anche in condizioni estreme – come la malattia, la povertà o la schiavitù – nessuno può toccare la nostra proairesi senza il nostro consenso. Questa visione ribalta la prospettiva comune: non è libero chi può fare tutto ciò che desidera, ma chi riesce a desiderare solo ciò che dipende da sé. La vera libertà, per Epitteto, non è potere sull’esterno, ma dominio su se stessi.
Per esercitare correttamente la propria proairesi, occorre innanzitutto saper distinguere. Qui interviene il secondo concetto chiave: la diairesi (διαίρεσις), ovvero il principio di distinzione tra ciò che è in nostro potere e ciò che non lo è. Questo atto mentale di separazione è fondamentale per la filosofia pratica di Epitteto: senza diairesi, la proairesi rischia di impantanarsi in desideri irrealizzabili, aspettative illusorie, rabbia e frustrazione. Con la diairesi, invece, impariamo a concentrare le nostre energie solo su ciò che possiamo realmente governare: opinioni, giudizi, scelte morali. La diairesi non è solo un esercizio teorico ma una vera e propria ascesi mentale. È l’allenamento quotidiano che ci permette di affrontare gli eventi con equilibrio e coerenza. Quando un evento negativo si presenta – una perdita, un’ingiustizia, un dolore fisico – il discepolo di Epitteto non si chiede “Come posso evitarlo?”, ma “Dipende da me?”. Se la risposta è no, allora il suo compito non è combatterlo, ma accettarlo razionalmente, conservando la propria integrità morale.

La forza del pensiero di Epitteto sta nella connessione tra questi due concetti: la proairesi è il fulcro dell’identità morale, e la diairesi è lo strumento per proteggerla e guidarla. In questo senso, la filosofia stoica di Epitteto è una vera e propria etica dell’autonomia. Non propone un’illusione di onnipotenza ma una disciplina interiore che ci rende indipendenti dalle condizioni esterne. Non si tratta di rassegnazione passiva, quanto di una forma attiva di libertà: scegliere come vivere, anche quando non possiamo scegliere cosa ci accade.
Questa prospettiva ha implicazioni radicali. Innanzitutto, dissolve la paura dell’avversità: se il male non consiste negli eventi ma nei giudizi errati che formuliamo su di essi, allora è possibile essere felici anche nella sofferenza. In secondo luogo, cancella il bisogno di approvazione sociale: ciò che conta non è l’opinione degli altri, ma la coerenza della propria proairesi. Infine, libera dalla tirannia del successo esteriore: si può fallire agli occhi del mondo e tuttavia restare padroni di sé.
Epitteto insegna che la vera conquista dell’uomo non è il mondo esterno, ma il governo di sé attraverso la ragione. La proairesi è ciò che ci definisce come esseri morali; la diairesi è la bussola che ci permette di mantenerla integra. In tempi di incertezza, ansia e disorientamento, il suo insegnamento resta di sorprendente attualità: non possiamo controllare tutto, ma possiamo controllare come rispondiamo a tutto. E questo basta per vivere con dignità, serenità e forza.

 

 

 

 

Dio, l’anima e il silenzio nella mistica renana

 

 

 

 

La mistica renana è una delle espressioni più significative della spiritualità medievale europea. Si sviluppò tra il XIII e il XIV secolo lungo il bacino del Reno, in un’area comprendente le città di Colonia, Strasburgo e Magonza, e rappresentò un momento di straordinaria intensità religiosa e intellettuale. Non si trattò di una scuola teologica compatta o di un movimento istituzionalizzato, ma di un insieme di autori e autrici, per lo più legati all’ambiente domenicano o a gruppi spirituali laici, che condividevano una profonda attenzione all’interiorità e all’esperienza personale del divino.
La mistica renana emerse in un contesto segnato da crisi e trasformazioni profonde: l’autorità ecclesiastica era in discussione, nuovi movimenti religiosi ponevano l’accento sulla povertà evangelica, e nelle città in crescita si sviluppavano forme nuove di devozione. In quel contesto, la religione assunse anche un volto soggettivo, intimo, e si aprì all’analisi della coscienza.

Al centro della riflessione mistica vi era l’idea che l’essere umano potesse unirsi a Dio in modo diretto, senza mediazioni esterne, attraverso un cammino di svuotamento, silenzio e trasformazione interiore. Tale cammino è tutt’altro che passivo: richiede disciplina, consapevolezza e un distacco radicale da tutto ciò che è mondano o egoico. Il cuore della mistica renana è la convinzione che Dio non sia altro da cercare fuori, ma sia già presente nell’anima, in una scintilla profonda e nascosta che attende solo di essere riconosciuta. L’interiorità, dunque, diventa il luogo della rivelazione. Questa consapevolezza, tuttavia, non nasce solo da una speculazione intellettuale, ma da una pratica spirituale concreta, spesso dura, segnata dalla solitudine, dalla contemplazione e anche dalla sofferenza.
La figura più emblematica di questa corrente è Meister Eckhart, frate domenicano nato intorno al 1260. Teologo raffinato, maestro universitario e predicatore, Eckhart ha lasciato un’opera vasta e complessa, composta in parte in latino, per gli ambienti accademici, e in parte in tedesco, per i fedeli. Il suo pensiero ruota intorno a un concetto radicale di Dio come realtà assoluta, oltre ogni immagine, ogni nome, ogni rappresentazione. Dio è l’Essere stesso, o addirittura il Nulla che è più dell’essere. L’anima, per incontrare Dio, deve diventare come Lui: pura, vuota, spoglia di ogni desiderio e identità. La chiave di questo processo è il “distacco”, cioè la capacità di non essere legati a nulla, nemmeno a sé stessi. Solo nel vuoto totale l’anima può accogliere la “nascita di Dio” in sé, un’idea centrale in Eckhart, che non si riferisce alla nascita storica di Cristo ma a un evento interiore, quotidiano, che si verifica ogniqualvolta l’anima si apre davvero al divino. In questa prospettiva, l’unione mistica non è fusione emotiva o estasi ma una consapevolezza lucida e profonda di essere una cosa sola con il fondamento di tutto.
Accanto a Eckhart si colloca Johannes Tauler, anch’egli domenicano, ma di temperamento più pratico e pastorale. Vissuto tra il 1300 e il 1361, Tauler è noto per le sue prediche, rivolte non solo ai monaci ma anche a laici spiritualmente impegnati, in particolare donne appartenenti ai circoli delle beghine. Il suo stile è meno astratto di quello di Eckhart e più attento alla concretezza della vita spirituale. Tauler parla dell’importanza dell’umiltà, della pazienza nella sofferenza, del lavoro interiore come via per accogliere la grazia divina. Anche per lui Dio abita nel profondo dell’anima, ma il cammino per raggiungerlo passa attraverso prove, silenzi e oscurità interiori. Il mistico, nella visione di Tauler, non è qualcuno che fugge dal mondo, ma colui che impara a vivere in esso con uno sguardo purificato, capace di vedere il divino anche nella fatica quotidiana.
Un’altra figura importante è Enrico Suso, nato nel 1295. Rispetto a Eckhart e Tauler, Suso ha un tono più lirico, più affettivo, più incline all’espressione poetica. La sua mistica è caratterizzata da un linguaggio amoroso, spesso ardente, che descrive la relazione con Dio come una storia d’amore intensa, a tratti dolorosa, ma sempre carica di bellezza. Nei suoi scritti, Suso racconta visioni, dialoghi interiori, esperienze mistiche in cui l’anima si sente attratta, bruciata, trasformata dalla presenza divina. La sua è una spiritualità profondamente incarnata, dove il corpo e il cuore partecipano alla ricerca del divino. Non a caso, Suso descrive anche esperienze di sofferenza volontaria, vissute come atti di amore puro verso Dio.
Accanto ai grandi nomi maschili, la mistica renana include voci femminili straordinarie, come quelle di Mechthild di Magdeburgo e Margherita Porete. Mechthild, autrice della Luce fluente della divinità, scrive in volgare tedesco e descrive una mistica dell’amore in termini potenti, a volte spiazzanti. Per lei, l’anima è come una donna che cerca Dio con passione, che lo desidera e che soffre per la sua assenza. Margherita Porete, invece, è una figura tragica: autrice dello Specchio delle anime semplici, fu accusata di eresia e bruciata sul rogo nel 1310. Il suo libro, letto e apprezzato da molti mistici, incluso Tauler, propone una spiritualità radicale, in cui l’anima giunta alla perfezione non ha più bisogno nemmeno delle virtù o dei sacramenti, perché vive immersa nell’amore puro di Dio. La sua visione, estrema e audace, sfida le categorie della teologia ufficiale.
Tra i grandi temi della mistica renana, l’unione mistica con Dio è senza dubbio il principale. Non si tratta di un’unione metaforica, ma di un’esperienza concreta in cui l’anima cessa di percepirsi come separata da Dio. Questa esperienza non è automatica né concessa a tutti: richiede un cammino esigente di purificazione. Il distacco, infatti, è un altro cardine del pensiero renano. Per incontrare Dio, bisogna liberarsi di ogni attaccamento, non solo ai beni materiali ma anche alle proprie opinioni, ai propri desideri, persino alla secondo una formula ricorrente.
In questo cammino di svuotamento, l’interiorità gioca un ruolo centrale. Dio non si cerca fuori, nei riti o nei simboli esteriori, ma si riconosce nel fondo dell’anima, in quella “scintilla” che è già divina. Tuttavia, per accedervi è necessario il silenzio, non solo esterno ma soprattutto interiore. La contemplazione diventa allora un atto di ascolto profondo, in cui l’anima si fa vuota per accogliere l’ineffabile.
Infine, la sofferenza assume nella mistica renana un valore redentivo. Non viene cercata in modo morboso, ma accettata come via per spogliarsi del superfluo, come occasione per affidarsi totalmente a Dio. L’anima, purificata dalla prova, diventa capace di una fede più pura, più libera, più matura.
L’eredità della mistica renana è stata ampia e profonda. Ha influenzato la spiritualità cattolica e anche quella protestante. Martin Lutero, ad esempio, pur criticando molte forme di misticismo, lesse con attenzione Tauler e lo considerò un testimone autentico della fede. Più avanti, nel XVII secolo, il pensiero di Eckhart sarebbe stato riscoperto anche da mistici protestanti come Jakob Böhme e da pensatori spirituali di area tedesca. Nel Novecento, filosofi come Martin Heidegger sarebbero tornati a interrogarsi sul linguaggio e sull’ontologia eckhartiana, trovando nella sua riflessione sull’essere e sul nulla intuizioni ancora attuali.
La mistica renana, pur appartenendo a un’epoca lontana, continua a parlare a chi cerca una spiritualità essenziale, profonda, non dogmatica. Il suo messaggio – che Dio è dentro, che bisogna svuotarsi per riempirsi, che il silenzio può essere più eloquente della parola – resta uno dei lasciti più intensi e provocatori del Medioevo cristiano.

 

 

 

 

Il sapere che si vive

La pedagogia esperienziale di John Dewey

 

 

 

 

Nel pensiero di John Dewey (1859-1952), uno dei principali esponenti del pragmatismo americano, il concetto di esperienza occupa una posizione centrale e strutturante, soprattutto nella sua riflessione pedagogica e filosofica. Dewey non concepisce l’esperienza come una semplice registrazione passiva di eventi esterni, ma come un processo attivo, continuo e trasformativo, che coinvolge il soggetto in modo profondo. L’esperienza, in questa prospettiva, è al tempo stesso il punto di partenza e l’obiettivo dell’educazione, il luogo in cui conoscenza, azione e significato si intrecciano.
Per Dewey, l’esperienza è sempre un’interazione tra l’organismo e l’ambiente. Non si dà esperienza se non c’è un soggetto che agisce sul mondo e ne riceve una risposta. In questo scambio, l’individuo non è uno spettatore, ma un partecipante attivo. L’esperienza, quindi, è costruita attraverso il fare e il patire (to do and to undergo), cioè attraverso l’azione e la ricezione delle conseguenze dell’azione. Questo processo interattivo è essenziale per la crescita: ogni esperienza modifica chi la vive, lasciando tracce che condizionano le esperienze future. Dewey sottolinea che l’apprendimento autentico non avviene tramite la semplice trasmissione di informazioni, ma quando l’individuo è coinvolto in un’attività significativa, che suscita interesse, richiede riflessione e porta a una comprensione più profonda del mondo.
Nel suo libro Esperienza ed educazione (1938), Dewey definisce due criteri fondamentali per valutare se un’esperienza è realmente educativa: la continuità e l’interazione. La continuità si riferisce al fatto che ogni esperienza lascia un’eredità che influisce su quelle successive. Un’educazione efficace è quella che organizza le esperienze in modo da promuovere lo sviluppo personale, morale e intellettuale. Al contrario, un’esperienza negativa può bloccare la curiosità, rafforzare atteggiamenti passivi o il disinteresse, compromettendo le possibilità future di apprendimento. L’interazione riguarda invece il legame tra l’esperienza, le condizioni in cui avviene e la personalità del soggetto che la vive. Le esperienze non sono mai isolate, ma sempre connesse al contesto e all’individuo. Un ambiente educativo, quindi, deve considerare le esigenze, le motivazioni e le capacità degli studenti, adattandosi per favorire esperienze realmente coinvolgenti e trasformative.

Uno degli aspetti più originali del pensiero di Dewey è il legame tra esperienza e pensiero riflessivo. L’esperienza diventa veramente educativa quando stimola la riflessione, cioè quando spinge l’individuo a interrogarsi sul significato delle proprie azioni e delle loro conseguenze. Questo tipo di pensiero non è automatico, ma deve essere coltivato attraverso pratiche educative attente, che mettano in primo piano il problem solving, la sperimentazione, il confronto con l’errore. L’apprendimento, in questa visione, non è mai un processo meccanico o lineare, ma un percorso di esplorazione e scoperta. L’educazione deve quindi organizzare situazioni in cui l’esperienza sia fonte di domande autentiche, in grado di generare curiosità e comprensione duratura.
Dewey collega strettamente il concetto di esperienza con una visione democratica dell’educazione. La scuola, per essere davvero educativa, deve essere una comunità in cui si apprende facendo, discutendo, collaborando. Lo studente non è un contenitore da riempire, ma un soggetto attivo, coinvolto nella costruzione del sapere insieme agli altri. L’educazione ha altresì una funzione politica: preparare i cittadini a partecipare consapevolmente alla vita democratica. Solo un’educazione fondata su esperienze significative può formare individui autonomi, critici e capaci di contribuire al bene comune.
L’esperienza, per John Dewey, non è solo un concetto teorico, ma il fondamento stesso dell’educazione, della conoscenza e della democrazia. È ciò che collega l’individuo al mondo, che rende possibile la crescita personale e sociale. Educare significa, quindi, progettare esperienze che abbiano valore, che stimolino il pensiero, che favoriscano l’autonomia e che aprano la strada a nuove possibilità.

 

 

 

 

Oltre il mondo, dentro l’esperienza

L’ambizione radicale della fenomenologia husserliana

 

 

 

 

La riduzione fenomenologica è il gesto teorico fondamentale con cui Edmund Husserl inaugura la fenomenologia come scienza rigorosa dell’esperienza. Non è semplicemente una tecnica filosofica, ma un vero e proprio cambio di prospettiva, un mutamento radicale dell’atteggiamento conoscitivo. Mettendo tra parentesi il mondo così come lo conosciamo abitualmente, Husserl cerca di accedere a un livello più profondo e originario dell’esperienza: il modo in cui i fenomeni si danno alla coscienza.
Il primo passo della riduzione è l’epoché, un termine ripreso dagli scettici antichi, che indica la sospensione del giudizio. Ma Husserl ne fa un uso del tutto nuovo: non si tratta di dubitare del mondo, come facevano gli scettici, quanto di astenersi dal prenderlo per scontato.
Nella nostra vita quotidiana, adottiamo ciò che Husserl chiama l’atteggiamento naturale: agiamo, pensiamo, sentiamo, parlando e vivendo come se il mondo che ci circonda esistesse in modo indipendente e oggettivo. Per Husserl, però, questa convinzione va messa “tra parentesi” (fenomenologicamente: bracketing) per poter analizzare come l’esperienza del mondo si costituisce nella coscienza.
Attraverso la riduzione, si passa a quello che Husserl definisce atteggiamento fenomenologico. Qui l’interesse non è più rivolto al mondo in sé, ma al modo in cui il mondo appare alla coscienza. In questa prospettiva, ogni oggetto – un albero, un numero, una paura – viene studiato non come entità in sé, ma come fenomeno, ovvero come dato intenzionale: qualcosa che appare a un soggetto.
Uno dei risultati fondamentali della riduzione è la scoperta dell’intenzionalità. Ogni atto di coscienza (percepire, ricordare, immaginare, giudicare) è sempre diretto verso qualcosa. Non esiste una coscienza “vuota” o isolata: la coscienza è sempre relazione, apertura, orientamento verso un oggetto, anche quando questo oggetto non esiste nel mondo reale (come nel caso dell’immaginazione o del ricordo).
Questa caratteristica strutturale della coscienza permette di studiare la costituzione del significato: come le cose acquistano senso per noi, in quanto soggetti esperienti.

Dopo la riduzione, ciò che resta non è un soggetto chiuso su sé stesso, ma un campo di esperienza in cui ogni oggetto è correlato alla coscienza che lo vive. Il mondo fenomenologico non è cancellato, ma riportato alla sua dimensione originaria: quella dell’esperienza vissuta.
Questo è ciò che Husserl intende quando parla di mondo della vita (Lebenswelt), cioè il mondo così come lo viviamo prima di ogni astrazione scientifica o teorica. Il compito della fenomenologia è analizzare come questo mondo prende forma per noi, come si “costituisce” nell’esperienza soggettiva.
Husserl concepisce la fenomenologia come una “scienza rigorosa”, non nel senso delle scienze naturali, ma come un sapere fondativo. La riduzione serve a portare alla luce le strutture originarie su cui si basa ogni forma di conoscenza: tempo, spazio, oggetti, numeri, valori, ecc. Non si tratta di spiegare il mondo, ma di chiarire come si dà un mondo alla coscienza. In questo senso, la fenomenologia vuole essere una filosofia prima, un punto di partenza certo e indubitabile per ogni altra disciplina. Non a caso Husserl parla della riduzione trascendentale come di un ritorno all’“Io puro”, non come individuo psicologico, ma come soggetto trascendentale, cioè condizione di possibilità di ogni esperienza e conoscenza.
La riduzione fenomenologica è stata al centro di molte critiche e interpretazioni. Alcuni, come Heidegger, l’hanno riformulata radicalmente, sostenendo che la coscienza non può mai essere isolata dal mondo. Altri, come Merleau-Ponty, hanno cercato di superare la dicotomia tra soggetto e oggetto recuperando il corpo come punto d’incontro tra coscienza e mondo. Nonostante questo, la riduzione rimane uno degli strumenti più potenti per interrogare il senso dell’esperienza e mettere in discussione le nostre convinzioni più profonde su ciò che è “reale”.
La riduzione fenomenologica, pertanto, non è un esercizio teorico fine a sé stesso. È una strategia per smascherare ciò che diamo per scontato, per tornare alle radici del nostro rapporto con il mondo. È il tentativo di capire come si costruisce il significato, come il mondo prende forma per noi, prima ancora che lo pensiamo, lo misuriamo o lo giudichiamo.

 

 

 

 

La legge tra le spade

Ugo Grozio e la nascita del diritto internazionale

 

 

 

 

De iure belli ac pacis (Sul diritto della guerra e della pace), pubblicato nel 1625, è l’opera più celebre del giurista e filosofo olandese Ugo Grozio (Hugo de Groot). Questo trattato ha segnato un punto di svolta nella storia del pensiero giuridico e politico, ponendo le basi teoriche per il diritto internazionale moderno. In un’epoca segnata da guerre feroci, instabilità politica e conflitti religiosi – in particolare la Guerra dei Trent’anni – Grozio propose un sistema di norme giuridiche valide anche in tempo di guerra, cercando di umanizzare i conflitti e limitare la violenza tra Stati.
Grozio scriveva in un momento in cui l’Europa era lacerata da conflitti politici e religiosi che mettevano in discussione l’unità del diritto e dell’autorità. La frattura tra cattolici e protestanti, la crisi dell’autorità imperiale e l’affermazione degli Stati sovrani rendevano urgente la necessità di un ordine giuridico nuovo, capace di trascendere le divisioni confessionali e garantire una convivenza pacifica.
Inoltre, l’emergere del concetto di Stato moderno e il declino dell’autorità papale e imperiale spingevano i pensatori a interrogarsi su cosa potesse regolare i rapporti tra entità politiche indipendenti. Grozio rispose a questa domanda costruendo un sistema giuridico fondato sulla ragione naturale, ossia su princìpi che tutti gli uomini potessero riconoscere indipendentemente dalla religione o dalla cultura.
De iure belli ac pacis è diviso in tre libri. Nel Libro I – “Fondamenti del diritto naturale e del diritto delle genti”, Grozio principiò da una riflessione teorica sul diritto naturale: esiste un ordine di giustizia universale, comprensibile attraverso la ragione, che precede e fonda il diritto positivo (cioè il diritto creato dagli uomini). In una delle sue affermazioni più celebri, sostenne: “Ci sarebbe diritto anche se si concedesse – cosa che non si può fare senza empietà – che Dio non esista”. Con questa frase, Grozio affermò la piena autonomia del diritto naturale dalla religione: la legge morale non ha bisogno della rivelazione divina per essere valida. Questo è un passaggio cruciale verso una concezione laica e razionale del diritto. Inoltre, in questo libro, Grozio distinse tra ius naturale (diritto naturale) e ius gentium (diritto delle genti), cioè quell’insieme di norme che regolano i rapporti tra le nazioni. Nel Libro II – “Le cause giuste della guerra”, analizzò in quali casi una guerra potesse essere considerata giusta. La guerra, per essere legittima, deve avere uno scopo giuridicamente fondato: difesa da un’aggressione, punizione di un torto subito, recupero di un diritto violato. Grozio condannava le guerre di conquista e le guerre preventive non fondate su una minaccia reale. Per lui, la sovranità non giustifica automaticamente la guerra: anche i sovrani devono sottostare a regole. Questa è una netta presa di distanza dal realismo politico di autori come Machiavelli o Hobbes. Nel Libro III – “Il diritto nella guerra (ius in bello)” affrontò il comportamento lecito durante i conflitti. Anche quando una guerra è giusta, ci sono limiti da rispettare. Non tutto è permesso: devono essere tutelati i civili, i prigionieri e deve essere evitata la crudeltà gratuita. L’intento è chiaramente quello di “civilizzare” la guerra, ponendo limiti morali e giuridici alla violenza. In questo senso, anticipò molti dei princìpi che si sarebbero ritrovati nel diritto internazionale umanitario contemporaneo, come le Convenzioni di Ginevra.

L’impatto dell’opera di Grozio è stato duraturo. Il suo pensiero ha influenzato filosofi, giuristi e teorici della politica nei secoli successivi, da Pufendorf a Kant, da Locke a Vattel. La sua visione di un ordine giuridico internazionale fondato sulla ragione ha anticipato l’idea di una comunità delle nazioni regolata da norme condivise, che si sarebbe ritorvata nei progetti dell’Illuminismo e, più tardi, nelle istituzioni moderne come l’ONU o la Corte Internazionale di Giustizia.
Grozio è spesso definito il “padre del diritto internazionale” proprio perché ha posto le basi teoriche di un diritto che non si limita ai confini degli Stati, ma regola i rapporti tra di essi in nome di una razionalità giuridica superiore.
De iure belli ac pacis fu un tentativo coraggioso e innovativo di costruire un diritto comune in un’epoca di disordine. Grozio si rivolse alla ragione come fondamento della convivenza tra gli uomini e tra gli Stati, superando il particolarismo delle leggi nazionali e l’arbitrarietà del potere. In un mondo in cui la guerra sembrava inevitabile e spesso giustificata da pretesti religiosi o politici, Grozio ebbe l’ambizione – e la lucidità – di immaginare un sistema giuridico universale, in cui anche il conflitto fosse soggetto a regole. La sua lezione rimane attuale: in un’epoca globale segnata da nuove tensioni e minacce, il richiamo alla ragione e alla legge come strumenti per contenere la violenza e garantire la pace non ha perso forza.

 

 

 

 

 

Pensiero collettivo e presenze psichiche

L’eggregoro tra esoterismo e psicologia

 

 

 

 

Il concetto di eggregoro appartiene alla tradizione esoterica occidentale e si riferisce a un’entità psichica o spirituale collettiva generata dalla somma delle intenzioni, emozioni e pensieri di un gruppo umano coeso intorno a un obiettivo, un simbolo o una credenza comune. Si tratta di un’idea che, pur nascendo in ambito occultista, presenta implicazioni rilevanti anche nel campo della psicologia collettiva, della sociologia e della filosofia della mente.
L’origine etimologica della parola risale al greco antico egrégoroi (ἐγρήγοροι), utilizzato nel Libro di Enoch per indicare “coloro che vegliano”, ovvero esseri spirituali caduti, spesso interpretati come angeli ribelli. Questo riferimento biblico-apocrifo, ripreso successivamente da testi esoterici tardo-ottocenteschi, viene rielaborato da occultisti come Éliphas Lévi, il quale, nei suoi scritti, in particolare Dogme et Rituel de la Haute Magie (1854-1856), ipotizza l’esistenza di entità astrali influenzate dalla volontà umana, suggerendo che gruppi di persone possano, attraverso il rituale e la concentrazione mentale, “creare” vere e proprie forze intelligenti.
Il concetto assume una forma più strutturata nell’ambito delle scuole esoteriche moderne, come l’Hermetic Order of the Golden Dawn e, più tardi, nella Societas Rosicruciana in Anglia. Arthur Edward Waite, in alcune sue opere sulla magia cerimoniale, accenna alla possibilità che un gruppo coeso e disciplinato possa generare una presenza autonoma, dotata di una sorta di identità propria. Questo pensiero verrà poi approfondito nel XX secolo da autori come Dion Fortune, che nel suo Psychic Self-Defense (1930) descrive gli eggregori come forme-pensiero collettive dotate di potere reale nel mondo psichico e in grado di esercitare influenza sui singoli membri del gruppo.
Negli anni successivi, l’idea di eggregoro trova una nuova sistematizzazione nell’opera di Valentin Tomberg, autore dei Meditations on the Tarot (pubblicato postumo nel 1980), in cui il concetto viene associato alla realtà degli archetipi collettivi e delle strutture immaginative che plasmano l’esperienza spirituale dell’essere umano.

Sebbene il termine non faccia parte del vocabolario scientifico, il concetto di eggregoro può essere messo in relazione con alcune teorie psicologiche, in particolare con la psicologia del profondo. Carl Gustav Jung, pur non utilizzando questa parola, descrive nel suo lavoro l’esistenza di archetipi condivisi che abitano l’inconscio collettivo e influenzano profondamente le strutture simboliche e i comportamenti individuali. Gli archetipi, come forze impersonali e transpersonali, possono essere attivati da energie collettive e assumere un ruolo dominante nei contesti culturali o nei gruppi sociali.
In questo senso, un eggregoro può essere visto come un archetipo attualizzato attraverso la partecipazione emotiva e simbolica del gruppo, che ne rinforza la coerenza interna e lo “incarna” in forme riconoscibili, talvolta mitizzate. La dinamica del transfert collettivo, concettualizzata anche in ambito psicoanalitico, descrive in termini clinici come il singolo individuo possa perdere il senso critico quando immerso in una psiche di gruppo altamente suggestiva.
Nella cultura contemporanea, l’idea di eggregoro si manifesta sotto forma di identità collettive che acquisiscono vita propria. Ad esempio, la cultura di marca (brand culture), come evidenziato da Naomi Klein in No Logo (1999), mostra come alcuni marchi diventino “organismi viventi” capaci di aggregare comunità di consumatori affezionati, alimentare immaginari condivisi e influenzare scelte comportamentali e valoriali. Il marchio non è solo un simbolo commerciale, ma un catalizzatore di significati, simile a un eggregoro: è sostenuto da narrazioni, rituali, fedeltà e perfino forme di identificazione personale.
Anche nei fenomeni politici e ideologici troviamo dinamiche simili. La propaganda, i rituali di appartenenza e le rappresentazioni simboliche condivise (bandiere, slogan, inni) rafforzano l’eggregoro ideologico di una nazione, di un partito o di un movimento. Lo stesso accade nelle religioni istituzionalizzate, dove divinità, santi o figure carismatiche vengono alimentate da millenni di devozione collettiva, diventando entità psichiche stabili nella memoria e nella pratica dei fedeli.
Nel contesto digitale, il concetto di eggregoro si rivela particolarmente attuale. Le comunità online, i fandom, le subculture nate sui social media producono continuamente nuove entità psichiche collettive, alimentate da flussi costanti di attenzione, affetto, indignazione o partecipazione. La viralità stessa può essere interpretata come un meccanismo di “nutrimento” energetico per queste forme simboliche, che acquistano rilevanza, potere e resistenza grazie alla massa critica di utenti coinvolti.
Secondo alcuni esoteristi contemporanei, tra cui Mark Stavish nel suo libro Egregores: The Occult Entities That Watch Over Human Destiny (2018), un eggregoro può diventare tanto potente da acquisire un’autonomia relativa, condizionando le decisioni dei singoli anche al di fuori della loro volontà conscia. Questo lo rende uno strumento potente, ma anche potenzialmente pericoloso. Un eggregoro positivo può sostenere un movimento evolutivo, spirituale o sociale; uno negativo può degenerare in fanatismo, controllo psichico e regressione collettiva.
L’idea che una forma-pensiero collettiva possa “sopravvivere” a chi l’ha creata è centrale nella teoria esoterica. Alcuni eggregori, una volta generati, tendono a mantenere la loro coerenza e persistenza attraverso nuove generazioni di aderenti, mantenendo il nucleo simbolico e adattandosi ai mutamenti storici. Si parla in questo caso di eggregori longevi, come quelli associati alle grandi religioni, agli ordini iniziatici o a istituzioni culturali millenarie.
L’eggregoro, quindi, pur rimanendo un concetto non scientifico in senso stretto, rappresenta una metafora potente per interpretare la dinamica psichica e simbolica dei gruppi umani. Che lo si consideri un’entità spirituale autonoma o una rappresentazione delle forze collettive dell’inconscio, esso permette di indagare come le idee si trasformino in strutture vive, capaci di influenzare individui, società e culture. Comprendere gli eggregori significa riconoscere che il pensiero collettivo non è una semplice somma di pensieri individuali, ma una forza emergente, complessa, talvolta creativa, talvolta distruttiva. In un’epoca in cui la partecipazione di massa è mediata da tecnologie istantanee e dove le identità si formano spesso all’interno di spazi virtuali, la consapevolezza della natura e del potere degli eggregori è più che mai urgente.

 

 

 

 

Alle origini della logica universale

La rivoluzione silenziosa del giovane Leibniz

 

 

 

 

La Dissertatio de Arte Combinatoria, pubblicata nel 1666 da un giovanissimo Gottfried Wilhelm Leibniz, rappresenta una delle prime e più visionarie riflessioni sull’organizzazione del sapere umano. Scritto come tesi di dottorato all’età di soli vent’anni, il testo è tutt’altro che un esercizio scolastico: è il manifesto di un pensiero già radicalmente innovatore, che punta a trasformare la conoscenza in qualcosa di calcolabile e rigoroso.
Il cuore dell’opera è l’idea di una ars combinatoria, cioè di una tecnica sistematica per combinare concetti fondamentali in modo da generare tutto il sapere possibile. Secondo Leibniz, i concetti complessi possono essere scomposti in elementi semplici, paragonabili alle lettere di un alfabeto. Una volta identificati questi “atomi del pensiero”, la mente può costruire, combinare e manipolare idee complesse proprio come si fa con i numeri o le lettere.
La proposta è ambiziosa: non solo classificare la conoscenza, ma renderla trattabile tramite regole formali. Una tale formalizzazione porterebbe alla creazione di un linguaggio simbolico universale – la characteristica universalis – in grado di rappresentare concetti in modo univoco, senza ambiguità. Questo linguaggio non sarebbe solo una notazione: sarebbe uno strumento per ragionare. Per Leibniz, infatti, i conflitti intellettuali e le dispute filosofiche derivano spesso da un uso confuso del linguaggio. Con una notazione precisa, le differenze tra opinioni potrebbero essere analizzate e risolte come problemi matematici. È celebre il suo sogno: “Calculemus!” – “Mettiamoci a calcolare”, come soluzione alle controversie.
Leibniz riprende e sviluppa l’idea medievale di Ramon Llull (Raimondo Lullo), che nel XIII secolo aveva concepito un’arte combinatoria per la teologia e la filosofia. Llull cercava una macchina concettuale che, attraverso la rotazione di dischi con concetti fondamentali, potesse generare tutte le proposizioni possibili sulla realtà. Ma mentre Llull rimaneva in ambito mistico e teologico, Leibniz cerca una base logica e matematica, fondata su strutture formali. Questo passaggio dalla mistica al razionale è una svolta chiave.

La Dissertatio è organizzata in modo sistematico. Leibniz inizia distinguendo tra termine (l’elemento semplice) e combinazione di termini. Poi, introduce il concetto di ars combinatoria come metodo per costruire tutte le combinazioni possibili. L’idea è che con un numero finito di elementi (concetti primitivi), si possano ottenere – tramite regole precise – tutte le verità composte. A supporto di ciò, Leibniz utilizza strumenti matematici come la combinatoria, il calcolo delle permutazioni e delle disposizioni. Interessante è anche la distinzione tra combinazioni reali e combinazioni formali: le prime corrispondono a verità del mondo (ontologia), le seconde a relazioni logiche (strutture sintattiche). Questa distinzione anticipa la separazione tra semantica e sintassi che sarà centrale nella logica del XX secolo.
Sebbene la Dissertatio rimanga un progetto incompiuto e speculativo, le sue intuizioni sono straordinariamente lungimiranti. Leibniz anticipa concetti che verranno formalizzati solo secoli dopo: il calcolo proposizionale, la logica simbolica, l’idea di una macchina logica (che prefigura il concetto di computer) e persino il sogno dell’Intelligenza Artificiale. L’idea di Leibniz secondo cui il pensiero può essere formalizzato e automatizzato influenzerà profondamente pensatori come Frege, Boole, Peano e successivamente Turing e Gödel. In un certo senso, il progetto leibniziano prende corpo proprio nel Novecento, con la nascita dell’informatica teorica e della logica matematica.
La Dissertatio de Arte Combinatoria non è solo una testimonianza della genialità precoce di Leibniz, ma anche uno dei primi tentativi di costruire un linguaggio formale del pensiero. Il suo progetto di una logica combinatoria per organizzare e generare la conoscenza prefigura lo spirito della scienza moderna: ordine, calcolo, sistema. Anche se non giunge a una formulazione definitiva, l’opera apre la strada a un modo nuovo di concepire il sapere come qualcosa che può essere analizzato, costruito e perfino automatizzato. Una visione che, oggi, è più attuale che mai.

 

 

 

 

La fine dei mondi culturali

Ernesto De Martino e il nichilismo dell’Occidente

 

 

 

 

Negli anni ’60, il grande antropologo e storico delle religioni Ernesto De Martino elaborò una riflessione di straordinaria profondità e attualità sulla crisi culturale dell’Occidente nel suo scritto incompiuto La fine del mondo. Quest’opera, pubblicata postuma, rappresenta una delle più acute diagnosi della condizione dell’uomo moderno, alle prese con il crollo delle grandi strutture simboliche che per secoli avevano garantito un orizzonte stabile di significato. Secondo De Martino, l’Occidente si trovava di fronte a una frattura epocale: la crisi del Cristianesimo, la dissoluzione del marxismo e, più in generale, la perdita di ogni riferimento culturale assoluto segnavano la fine dei “mondi culturali possibili”, lasciando l’individuo immerso in una condizione di nichilismo e spaesamento.
Il concetto di “fine del mondo” elaborato da De Martino non va inteso in senso apocalittico o catastrofico, ma come la disgregazione di quei sistemi simbolici che consentono agli uomini di orientarsi nella realtà. L’autore prende le mosse da un’importante intuizione antropologica: l’uomo non esiste mai in un vuoto esistenziale neutro, ma sempre all’interno di un mondo culturale che struttura la sua esperienza. Se questo mondo crolla, l’uomo si trova esposto al rischio dello spaesamento, una condizione di disorientamento radicale in cui perde il senso del proprio esserci.
De Martino si inserisce così nel solco delle grandi riflessioni novecentesche sulla “morte di Dio”, concetto reso celebre da Friedrich Nietzsche, secondo cui la dissoluzione della fede cristiana avrebbe portato con sé il crollo di ogni certezza metafisica e morale. Tuttavia, egli estende questa analisi anche alla crisi del marxismo, l’altra grande narrazione totalizzante dell’epoca moderna. Se per secoli il Cristianesimo aveva garantito all’uomo occidentale un senso trascendente dell’esistenza, e se nel XIX e XX secolo il marxismo aveva offerto un nuovo orizzonte di significato basato sulla lotta di classe e sulla costruzione di una società giusta, la crisi di entrambe queste visioni aveva lasciato il soggetto contemporaneo senza coordinate, esposto al vuoto. Questo vuoto, però, non si traduce solo in un disorientamento intellettuale o filosofico, ma ha conseguenze antropologiche profonde: senza un orizzonte simbolico che gli permetta di darsi un’identità e di agire nel mondo con senso, l’individuo precipita in una condizione di alienazione e angoscia esistenziale.
Uno degli aspetti centrali del pensiero di De Martino è la distinzione tra il semplice “esserci” e il “dover esserci”. L’antropologo sottolinea come l’esistenza umana non sia mai un semplice dato biologico o materiale, ma sempre una costruzione culturale. Non basta che l’uomo viva nel mondo: egli deve poter abitare il mondo attraverso un sistema di significati condivisi, senza il quale si trova a rischio di smarrimento.
Il “dover esserci” si manifesta nella necessità di costruire continuamente forme culturali attraverso cui l’individuo possa riconoscersi e orientarsi nella realtà. Queste forme possono assumere molteplici declinazioni – religiose, filosofiche, politiche, artistiche – ma tutte hanno la funzione essenziale di sottrarre l’uomo alla crisi dell’esserci, garantendogli una stabilità esistenziale.

Il problema, secondo De Martino, emerge quando questi mondi culturali si sfaldano senza essere sostituiti da nuove strutture di senso. In questa condizione, l’individuo si trova immerso in quello che egli definisce nichilismo, ovvero la perdita di ogni possibilità di fondare la propria esistenza su un significato condiviso.
Il concetto di spaesamento è centrale nella riflessione di De Martino. Esso non indica solo un senso di confusione psicologica o di disorientamento individuale, ma un vero e proprio crollo della presenza. L’uomo, infatti, non può vivere senza riferimenti culturali: quando questi si sgretolano, egli non riesce più a riconoscersi nel mondo e rischia di perdere la propria soggettività. È in questo contesto che emerge il nichilismo, inteso non solo come negazione dei valori tradizionali, ma come condizione esistenziale in cui l’individuo è incapace di costruire nuovi significati.
De Martino individua questo rischio non solo nella società occidentale moderna, ma anche in contesti storici e antropologici differenti. Ad esempio, nelle sue ricerche sul folklore e sui riti magici del Sud Italia, egli osserva come le comunità tradizionali abbiano sviluppato pratiche simboliche capaci di preservare l’individuo dalla perdita della presenza. I rituali, i miti e le credenze collettive hanno sempre avuto la funzione di proteggere l’uomo dal nichilismo, offrendo strumenti per affrontare le crisi esistenziali.
Tuttavia, nella modernità avanzata, la perdita di questi meccanismi di difesa culturale ha esposto l’individuo a una vulnerabilità senza precedenti. La dissoluzione delle grandi narrazioni (religiose, politiche e ideologiche) ha lasciato un vuoto che le nuove forme di organizzazione sociale non sono state in grado di colmare. Il risultato è un’epoca caratterizzata da insicurezza, ansia e alienazione, in cui l’uomo fatica a ritrovare un senso di appartenenza.
La riflessione di De Martino non si limita a una diagnosi della crisi, ma solleva anche un’importante questione: è possibile ricostruire nuovi mondi culturali in grado di restituire senso all’esistenza? L’antropologo non offre una risposta definitiva, ma il suo pensiero suggerisce che l’uomo abbia sempre la capacità di reinventare le proprie strutture simboliche. La sfida del presente, dunque, è quella di individuare nuovi orizzonti di significato capaci di sostituire le vecchie narrazioni in crisi.
Ciò potrebbe avvenire attraverso nuove forme di aggregazione culturale, filosofica e politica, capaci di riscoprire un senso di comunità e appartenenza senza cadere in dogmatismi o totalitarismi. Se il rischio del nichilismo è quello di un’individualizzazione estrema e di una perdita di senso condiviso, la possibile via d’uscita sta nel recupero di un linguaggio simbolico comune, che possa offrire agli uomini la possibilità di ritrovare un fondamento su cui costruire la propria presenza nel mondo.
L’opera di Ernesto De Martino, con la sua lucida analisi della crisi culturale dell’Occidente, rimane oggi più attuale che mai. La sua riflessione sulla fine dei mondi culturali e sul conseguente rischio di nichilismo è un monito per la contemporaneità, in cui il declino delle vecchie strutture simboliche non ha ancora trovato una piena alternativa. Il suo pensiero invita a riconoscere che l’uomo non può vivere senza un orizzonte di senso, e che la sfida del nostro tempo è proprio quella di ricostruire nuovi significati in grado di rispondere alle esigenze esistenziali dell’individuo e della società.