Archivi categoria: Filosofia

La filosofia inglese e le sue leggi “concrete”

 

Perché gli inglesi hanno dominato il mondo per almeno quattro secoli

 

di

Riccardo Piroddi

 

 

Gli inglesi, per quel che concerne la storia del pensiero, si sono distinti dagli altri popoli europei, antichi e moderni, a causa di quella impronta, ad essi del tutto peculiare, tendenzialmente antimetafisica ed essenzialmente pragmatica. A scorrere rapidamente quella storia, infatti, ciò può essere facilmente notato: quando il Medioevo volgeva ormai al termine, mentre nelle scuole del resto d’Europa i dotti erano ancora impelagati nelle dispute scolastiche sulle prove dell’esistenza di Dio, sugli universali, sulla Trinità e sui quodlibeta, Roger Bacon, filosofo, scienziato e mago, il doctor mirabilis (dottore dei miracoli), fondava la gnoseologia empirica, secondo la quale l’esperienza sia il vero e unico mezzo per acquisire conoscenza del mondo. Tre erano, secondo il filosofo, i modi con cui l’uomo potesse comprendere la verità: con la conoscenza interna, data da Dio tramite l’illuminazione; con la ragione, la quale, però, non è bastevole, e, infine, con l’esperienza sensibile, ovvero tramite i cinque sensi, il non plus ultra di cui esso possa disporre e che gli consente di avvicinarsi alla reale conoscenza delle cose. Il frate francescano William of Ockham, il doctor invincibilis (dottore invincibile), con il suo famosissimo rasoio, semplificò al massimo la spiegazione dei fenomeni, mostrando l’inutilità di moltiplicare le cause e di introdurre enti al di là della fisica: “Frustra fit per plura, quod fieri potest per pauciora” (è inutile fare con più, ciò che si può fare con meno). Francis Bacon, il filosofo dell’adagio “Sapere è potere”, padre della rivoluzione scientifica e del metodo scientifico nell’osservazione e nello studio dei fenomeni attraverso l’induzione, meglio definita e rinnovata rispetto a quella aristotelica, fu avversatore dei pregiudizi, da lui chiamati idola (idoli o immagini), che impedivano la reale conoscenza e intelligenza della natura, e fu ispiratore di un’altra grande mente inglese, Isaac Newton, lo scienziato-osservatore empirico per eccellenza. Thomas Hobbes diede spiegazione a tutti gli aspetti della realtà col suo materialismo meccanicistico, annullando la res cogitans (sostanza pensante) di Cartesio e il suo ambiguo rapporto con la res extensa (sostanza materiale), retroterra sul quale basò la sua concezione della natura umana, della condizione di guerra di tutti contro tutti (l’homo homini lupus), del patto di unione e del patto di società, dai quali sarebbero poi nati, rispettivamente, la civiltà e, attraverso la rinuncia da parte di ogni uomo al suo diritto su tutto e la cessione di questo al sovrano, lo Stato, il Leviathan (Leviatano). John Locke, l’empirista, l’autore di An essay concerning human under standing (Saggio sull’intelletto umano), sosteneva che tutta la conoscenza umana derivasse dai sensi. Indagò le idee e i processi conoscitivi della mente, criticando l’innatismo cartesiano e leibniziano e, tra l’altro, fu strenuo propugnatore del liberalismo politico e della tolleranza religiosa. David Hume, l’estremo dell’empirismo inglese, asseriva, come Locke, che la conoscenza non fosse innata, ma scaturisse dall’esperienza. Egli negò sia la sostanza materiale che quella spirituale, tutto riducendo a sensazione e stato di coscienza. Demolì il concetto di causa, ritenendolo mero costume della mente, suscitato dall’abitudine, e postulò, quali conoscenze universali e necessarie, soltanto quelle della geometria, dell’algebra e dell’aritmetica. Adam Smith, filosofo ed economista, teorizzò l’idea che la concorrenza tra vari produttori e consumatori avrebbe generato la migliore distribuzione possibile di beni e servizi, poiché avrebbe incoraggiato gli individui a specializzarsi e migliorare il loro capitale, in modo da produrre più valore con lo stesso lavoro. E, infine, l’Utilitarismo di Jeremy Bentham e John Stuart Mill prima, con tutte le implicazioni morali (o moralmente inglesi), legate ai concetti di “utile” e di “felicità“, e quello di Henry Sidgwick, poi, col suo edonismo etico, mediante il quale aggiunse importanti precisazioni ai concetti dell’utilitarismo classico. Queste riflessioni filosofiche hanno certo corrispettivo pratico allorquando si osservano attentamente tutte le sfaccettature dell’English way of life e dei princìpi che, ancora oggi, lo animano. Il motivo per cui gli inglesi, fino a circa settant’anni fa, hanno realmente dominato il mondo (basti pensare al British Empire e al Commonwealth), ha le proprie basi nel pragmatismo che, dal 1200 in poi, ha caratterizzato le sue classi intellettuali e, di riflesso, quelle deputate all’azione. Un popolo non condizionato dalla religione, come lo sono stati, dal Medioevo alle soglie dell’età contemporanea, la maggior parte dei Paesi cattolici europei, libero di sottomettere altre genti, che non ha combattuto in nome di Dio ma degli uomini, era destinato ad avere il ruolo che ha avuto e che ancora ha. Del resto, negli stessi anni in cui un bardo venuto dalle Midlands incantava gli spettatori del Globe Theatre a Londra, mettendo in scena l’amore tra Romeo e Giulietta, la filosofia dell’essere e del non essere e la gelosia di Otello, la regina Elisabetta I nominava baronetto il più astuto e lesto pirata della storia: sir Francis Drake!

 

Sir Francis Bacon (1561-1626)

 

Pubblicato l’1 aprile 2017 su La Lumaca

 

Le Meditazioni Metafisiche di Cartesio

La luce della vera conoscenza

 

 

 

In un’epoca ancora dominata dalle ombre lunghe della scolastica medievale ma che presto sarebbero state spazzate via dal nascente uso della ragione, Cartesio (René Descartes), nelle Meditazioni Metafisiche, pubblicate in latino, col titolo Meditationes de prima philosophia, nel 1641, si inerpica in un cammino solitario e intimo nei meandri della mente umana e della stessa esistenza. Quest’opera non è solamente un testo filosofico, ma rappresenta un vero e proprio poema in prosa sulla ricerca dell’indubbia verità.
Descartes intraprende il suo percorso con il dubbio metodico, quella “notte oscura dell’anima” in cui tutte le certezze precedentemente accolte vengono messe in discussione, invitando il lettore a spogliarsi di ogni preconcetto per farsi accompagnare in una catabasi nelle profondità della propria coscienza. È un inizio che assomiglia più a un rito di purificazione che a un’esercitazione logica.
 
Prima Meditazione: Delle cose che si possono mettere in dubbio
Descartes principia con il processo del dubbio metodico, sfidando la validità delle proprie percezioni e delle conoscenze acquisite. Egli dubita di tutto ciò che è appreso tramite i sensi, poiché questi possono essere ingannevoli, e persino delle verità matematiche, considerando l’ipotesi di un “genio maligno” che potrebbe ingannarlo sistematicamente. Questa meditazione pone le fondamenta del suo inquisitorio filosofico, demolendo tutte le certezze per ricostruirle su basi più solide.
 
Seconda Meditazione: Della natura dello spirito umano; e che esso è più facile a conoscere del corpo
Dopo aver demolito tutte le sue credenze, Cartesio trova una certezza irrefutabile: il fatto stesso di dubitare dimostra la sua esistenza come entità pensante. Emerge il famoso Cogito, ergo sum (Penso, dunque sono), prima verità incontrovertibile dell’edificio cartesiano. Questa affermazione si erge come un faro di verità in mezzo alle tempeste del dubbio, un punto fermo da cui prendere le misure dell’esistenza. È un momento di rivelazione quasi mistica, dove il soggetto scopre la propria inalienabile essenza come essere pensante, indipendente dalle ingannevoli percezioni sensoriali e dalle opinioni altrui. In questa meditazione, l’Autore esplora la natura dell’io o res cogitans e stabilisce che le idee chiare e distinte siano quelle su cui si possa basare la conoscenza certa.
 
Terza Meditazione: Di Dio; che Egli esiste
L’argomentazione sulla prova dell’esistenza di Dio è intricata come un arazzo normanno, tessuto di logica e di intuizioni filosofiche. Nonostante le possibili controversie interpretative, la visione cartesiana di un Dio perfetto, causa prima di tutto, serve a stabilire un ordine cosmico dal quale nulla può prescindere. Descartes introduce l’argomento dell’esistenza di Dio partendo dal principio che debba esistere una causa per la sua idea di sostanza perfetta e infinita. Utilizzando l’argomentazione ontologica e quella dalla causalità, propone che solo un essere perfetto e supremo, come Dio, può essere la fonte dell’idea di perfezione assoluta che è presente nella mente umana, confermando, così, non solo l’esistenza di Dio, ma anche che Dio non può essere ingannatore.
 
Quarta Meditazione: Della verità e dell’errore
Questa meditazione si concentra sulla natura dell’errore, che Descartes attribuisce alla volontà umana quando opera senza il pieno supporto dell’intelletto. Qui, il filosofo affronta il problema di come possa esistere l’errore se un Dio perfetto ha creato un mondo che riflette la sua perfezione. La soluzione risiede nella libertà di arbitrio: l’errore emerge quando l’uomo estende il proprio libero arbitrio oltre ciò che la sua capacità intellettuale può supportare.


Quinta Meditazione: Delle cose materiali e dell’esistenza reale del mondo esterno e di Dio, riprovata
L’Autore ritorna alla prova dell’esistenza di Dio e presenta l’argomentazione ontologica più formalmente. Inoltre, inizia a trattare il problema dell’esistenza del mondo materiale, sostenendo che la chiarezza e distinzione delle percezioni sensoriali siano garanzia della loro veridicità, sotto la premessa dell’esistenza di un Dio non ingannatore.
 
Sesta Meditazione: Del concorso delle cose materiali
L’ultima meditazione completa l’opera con la discussione sull’esistenza del mondo materiale, considerando anche la materia e il suo rapporto con la mente. Qui, Cartesio stabilisce le basi del “dualismo cartesiano”, distinzione radicale tra res cogitans (la mente) e res extensa (la materia), due realtà ontologicamente diverse ma interconnesse, destinazione finale di questo pellegrinaggio filosofico. Introduce il concetto di esprits animaux (spiriti animali) e spiega come corpo e mente, sebbene completamente separati in natura, interagiscano e causino movimenti fisici e sensazioni. Conclude, quindi, che esiste un mondo esterno, i cui corpi hanno proprietà che corrispondono alle percezioni delle menti.
 
Le Meditazioni Metafisiche non sono solo un’indagine sulle fondamenta della conoscenza e dell’esistenza, ma sono anche un’opera d’arte che sfida il tempo. Descartes scrive con una prosa che è tanto rigorosa quanto evocativa, capace di trasportare il lettore in un’epoca di rivoluzioni intellettuali. Attraverso il suo stile, il filosofo non si limita a presentare argomenti, ma invita a un’esperienza, a un’esplorazione personale che va oltre il mero intelletto. Le Meditazioni rimangono una guida per chi cerca nella filosofia non solo risposte, ma anche domande più profonde, un invito a navigare nel mare aperto del pensiero, sotto il cielo stellato delle grandi questioni esistenziali. Un classico senza tempo, che continua a interrogare e ispirare, ponte tra il mondo antico e il moderno, tra la poesia dell’esistenza e la scienza.

 

 

 

Essere e Tempo di Martin Heidegger

Essere, esser-ci

 

 

 

Essere e Tempo di Martin Heidegger, pubblicato per la prima volta nel 1927, è uno dei testi fondamentali della filosofia contemporanea e costituisce un’opera cruciale nel pensiero del XX secolo. La complessità e la profondità delle tematiche affrontate lo rendono sfidante ma incredibilmente ricco.
Il nucleo centrale dell’opera è una profonda indagine sull’essere. Heidegger si propone di rivisitare e rifondare la metafisica attraverso una domanda che appare decettivamente semplice: “Che cos’è l’essere?” Questo interrogativo, nonostante la sua apparente immediatezza, si rivela di grande complessità e portata, poiché invita a un esame minuzioso e radicale dell’ontologia, la branca della filosofia che studia l’essenza delle cose.
Nel suo argomentare, l’Autore critica apertamente la tradizione filosofica occidentale, accusandola di avere spesso trascurato o assunto come scontata questa fondamentale questione. Secondo Heidegger, gran parte del pensiero precedente ha fallito nel dare una risposta adeguata a cosa effettivamente sia l’essere, limitandosi a trattare temi più superficiali o derivativi. Egli sostiene che un’autentica comprensione dell’essere sia vitale e necessaria per la filosofia, poiché solo partendo da una corretta interpretazione dell’essere si possono comprendere tutte le altre questioni ontologiche ed esistenziali.
Nel contesto della sua indagine filosofica, Heidegger introduce un concetto chiave, quello di Dasein. Questa parola tedesca, traducibile come “esserci” o “presenza”, è usata specificatamente per descrivere l’essere umano, ponendo l’accento sulla modalità particolare e concreta con cui gli esseri umani manifestano la loro esistenza nel mondo. L’uso di questo termine non è casuale, ma riflette l’intenzione del filosofo di sottolineare una distinzione fondamentale tra l’esistenza umana e quella degli altri enti.
Il Dasein è caratterizzato principalmente dal suo “essere-nel-mondo”, espressione che indica non solo come l’esistenza umana sia sempre un’esistenza con altri enti all’interno di un mondo condiviso, ma anche che questa immersione nel mondo sia una caratteristica inseparabile e definitoria del modo di essere dell’essere umano. Secondo Heidegger, l’essere umano non è un soggetto isolato che si trova in un mondo esterno, ma è profondamente integrato e interagisce continuamente con l’ambiente che lo circonda.
Approfondendo il concetto di Dasein, il filosofo esplora la natura dell’esperienza umana attraverso vari aspetti della vita quotidiana e delle strutture esistenziali fondamentali, come l’ansia, il tempo, la morte. Queste riflessioni portano alla luce come l’essere umano sperimenti il mondo e si relazioni a esso in modi che sono radicalmente diversi da quelli di qualsiasi altro ente. Il Dasein è quindi visto come un ente per cui, nel proprio essere, è in gioco il proprio stesso essere; è l’unico ente per cui vale la pena porsi la domanda dell’essere.

Attraverso l’analisi del Dasein, Heidegger mira altresì a rivelare come le strutture fondamentali dell’essere umano siano configurate dalla loro specificità esistenziale e dalla loro capacità di riflettere e interrogarsi sull’essere. Ciò porta a una comprensione più profonda della condizione umana, che si distacca dall’approccio più tradizionale della metafisica, orientato piuttosto verso una descrizione oggettiva degli enti. Heidegger, con la sua focalizzazione sul Dasein, apre quindi una nuova via per comprendere non solo cosa significhi esistere come essere umano, ma anche come questo modo di essere influenzi la percezione di tutto ciò che ci circonda.
La temporalità è una componente essenziale dell’essere per Heidegger. Egli sostiene che l’essere sia intrinsecamente temporale e che il tempo non sia solo un mero sfondo neutro per gli eventi: è un elemento attivo che forma l’essere stesso. L’analisi della temporalità conduce il filosofo a esplorare la storicità del Dasein, ovvero la sua capacità di comprendere e configurare il proprio passato e futuro.
Uno degli aspetti più noti di Essere e tempo è l’analisi dell’angoscia come stato fondamentale del Dasein. L’angoscia rivela la verità sull’essere del Dasein, mostrando la sua completa solitudine e separazione dagli altri enti. Attraverso l’angoscia, il Dasein si confronta con la propria mortalità e finitudine, portando alla luce la realtà dell’essere verso la morte.
Heidegger distingue tra le modalità di esistenza autentica e inautentica del Dasein. L’inautenticità si verifica quando il Dasein vive in modo superficiale, seguendo convenzioni sociali senza riflettere sulla propria esistenza. Al contrario, l’autenticità è uno stato in cui il Dasein si assume la responsabilità del proprio essere, vivendo in modo pienamente consapevole e deliberato.
Essere e Tempo, pertanto si presenta come un’opera profondamente critica nei confronti della metafisica tradizionale. Heidegger sfida le concezioni prevalenti di verità, conoscenza e realtà, proponendo un nuovo modo di pensare che enfatizza la questione dell’essere piuttosto che la ricerca di essenze fisse o immutabili.
La sua opera più famosa non è solo un’indagine filosofica profonda sull’essere, ma anche una sfida lanciata al lettore a riflettere sulla propria esistenza in modi nuovi e sorprendenti. La ricchezza delle sue tematiche e la profondità del suo sguardo filosofico, infatti, continuano a influenzare e provocare pensatori in molteplici campi.

 

 

 

State, sovereignty, law and economics
in the era of globalization

 

 

 

Taken from my lectures as a Teaching Fellow in International Law, these reflections highlight how State sovereignty and International Law are profoundly influenced by globalization, economic integration and digital technologies, raising fundamental questions about global governance, State autonomy and the adaptation of legal structures to new economic and technological realities.

 

Part V

Sovereignty’s contexts

 

The territorial dimension characterizes and shapes the exercise of national sovereignty, outlining its foundational principles, strategies, and actions. It establishes the contexts in which sovereignty is manifested, implemented, or denied, in relation to the territorial realms of other nations. This dynamic of inclusion and exclusion, traditionally depicted through the dichotomy of “inside” versus “outside” (“in” versus “out”), emerges as the central issue. Here, “in” represents the activation of jurisprudence while “out” symbolizes the deactivation of economic dynamics, a suspension of State supremacy in relation to that similarly exercised by another State. However, this switching state (“on/off”) presents itself as almost a given mechanic, theoretically obvious but sometimes complex in practice, with reference to specific territorial areas delineated by borders. Conversely, in the homogenizing context of globalization: 1) the perception of limit, boundary, and territorial demarcation typical of the nation-State fades away, ceasing to be a reference point; 2) the conception of space expands, encompassing the entire planet and its surface. As a result, the world globe loses the distinctive colours of nations, fading under the visual effect created by the electronic whirlwind. The uniform non-colour of the market prevails, dominating with its monochromatic financial tone, and with the dissolution of territoriality as the organizing principle of the economy, it becomes unnatural for economic activities conducted on a global scale to depend on the nation-State framework. States, with increasingly indistinct borders, find themselves in a paradoxical condition: though not openly acknowledging it, they realize they are too small and inadequate for handling global phenomena, yet at the same time too large and sometimes not suitable for addressing local issues.


Economic power, by its nature and generally, appears indifferent to the space defined by political power: the former aspires to an unlimited spatial conception, while the latter is based on the premise of a limited space within which to exert influence. This does not imply that economic development should occur in a rule-free context, but rather that it can be facilitated by supranational institutions, which promote expansion beyond traditional national borders. The legal norm, the expression of a will impervious to conflict or competition, manifests the so-called “dominion power” of the State over the territory and the tangible. The relocation of a significant portion of economic relationships into an “a-spatial domain” de facto erodes the authority of national States and limits their territorial legal capacity. This phenomenon effectively establishes the right to choose one’s own legal system. The absence of universally recognized principles lays the groundwork for the governance of globalization actors: subjects operating in abstract relations from territorial contexts, on free paths, and without tangible physicality, within spaceless networks. This “requires a new law of spaces,” a blend of interstate, abstract, and artificial normativity. This, closely allied with technical and economic artificiality, implemented through interstate agreements, capable of adapting to any spatial configuration, represents the only effective method for addressing global issues through law. Here, the focus is on artificial normativity: 1) developed at the State level but expanded and enhanced through interstate agreements; 2) predestined to chase global phenomena and borderless markets, ubiquitous in the network; 3) aimed at unleashing an action potential equivalent to the breadth of global exchanges and mediating between territoriality and spatiality on a legal plane. In this context, “what predominates are not international conventions of uniform law”; rather, “the predominant element is the international circulation of standardized contractual models,” whose function as flexible and meta-national instruments is to consolidate the unity of law within the global market’s entirety.

 

 

 

 

Utopia di Thomas More

L’isola che non c’è

 

 

 

Utopia, pubblicata nel 1516 da Thomas More, è un’opera che non solo ha introdotto un nuovo genere letterario, quello della letteratura utopica, ma ha anche offerto uno spaccato profondo delle tensioni politiche e filosofiche del Cinquecento inglese ed europeo. Attraverso la descrizione di un’isola immaginaria e della sua società ideale, More esplora temi di giustizia sociale, organizzazione politica e morale individuale.
L’Autore scrive Utopia nel contesto dell’Inghilterra del XVI secolo, un periodo di grandi cambiamenti e di instabilità politica. L’Europa è attraversata dalle prime ondate di Riforma protestante e dalla dissoluzione dei monopoli ecclesiastici, mentre i regni si trovano a navigare le complesse dinamiche del capitalismo nascente. In questo quadro, More, uomo di legge e Lord Cancelliere sotto Enrico VIII, propone un modello di convivenza che critica tanto le monarchie assolute quanto le tensioni economiche prodotte dall’emergente mercantilismo.
Il libro è diviso in due parti: la prima contiene una critica pungente delle politiche europee dell’epoca, specialmente quelle inglesi, mentre la seconda descrive l’isola di Utopia. Questa divisione riflette la doppia visione di More che, da un lato, denuncia le ingiustizie del suo tempo e, dall’altro, propone un modello alternativo basato su principi di equità e comunanza delle risorse.
Utopia è rappresentata come una società che ha abolito la proprietà privata, dove i beni sono condivisi e l’avidità è vista come un vizio non solo morale ma anche sociale. Il lavoro è obbligatorio per tutti, garantendo che nessuno possa accumulare ricchezze a discapito di altri. More introduce anche un sistema educativo avanzato e inclusivo, mirato al miglioramento morale oltre che intellettuale.
L’opera è ricca di implicazioni filosofiche che non solo delineano una critica sociale, ma invitano anche a un esame delle basi etiche e dei principi su cui si potrebbe costruire una società ideale.
La nozione di bene comune è centrale in Utopia. More immagina una società dove la proprietà privata non esista; tutti i beni sono di proprietà comune e gestiti dallo Stato. Ciò elimina non solo la povertà, ma anche l’invidia e il crimine che, secondo l’Autore, sono spesso prodotti dalla disuguaglianza economica. Questa visione utopica riflette influenze platoniche, in particolare l’idea della proprietà comune tra i guardiani nel dialogo Repubblica. More utilizza questo modello per criticare le ingiustizie del capitalismo nascente, proponendo un’alternativa radicale che oggi potremmo associare al comunismo utopico.


Il lavoro, poi, è obbligatorio per tutti i cittadini e si basa su un’etica che valorizza il contributo individuale al bene comune. Questo non solo assicura che ogni individuo contribuisca alla società, ma promuove anche un senso di solidarietà e cooperazione. L’obbligo di lavorare riduce la dipendenza da servitù o schiavitù, concetti molto presenti nell’Europa del XVI secolo. La visione di More sul lavoro come dovere sociale e fonte di realizzazione individuale anticipa discussioni moderne sull’etica del lavoro e sul suo ruolo nell’autorealizzazione.
L’approccio di More alla legalità è notevolmente progressista. Le leggi sono poche e semplici, progettate per essere facilmente comprensibili da tutti i cittadini, evitando così la corruzione e l’abuso di potere, che spesso accompagnano sistemi legali complessi e arcuati. Inoltre, il sistema giuridico di Utopia è orientato più alla prevenzione del crimine e alla rieducazione del criminale che non al suo semplice castigo. Questa visione riformista della legge come strumento di giustizia sociale riflette le idee dell’Autore sulla moralità applicata alla legislazione, dove le pene severe sono rare e considerate contrarie all’etica della rieducazione.
More, inoltre, propone un modello di tolleranza religiosa che è eccezionale per il suo tempo. L’isola accoglie una varietà di credenze religiose e i conflitti teologici sono risolti attraverso il dialogo e la persuasione piuttosto che la coercizione. Questo pluralismo non solo critica la tendenza dell’Europa coeva di risolvere le differenze religiose attraverso la violenza, ma propone anche un modello di coesistenza pacifica che prefigura le moderne società laiche.
Le proposte di More, pertanto, sebbene idealizzate, fungono da critica alle strutture di potere del suo tempo e offrono spunti ancora rilevanti per le discussioni contemporanee su come costruire società più giuste e equilibrate. Utopia, quindi, non è solo un’opera di critica sociale, ma un manifesto filosofico che interroga i fondamenti stessi della società umana. Sebbene l’isola di Utopia possa apparire come un’ideale irraggiungibile, le questioni che solleva sono di straordinaria attualità. L’opera invita a un esame critico delle strutture di potere e delle disuguaglianze, mostrando come la letteratura possa fungere da catalizzatore per il cambiamento sociale e culturale. La visione di More non offre solo una fuga dall’iniquità, ma una mappa per una rifondazione della società basata su principi di equità e giustizia condivisa.

 

 

 

 

State, sovereignty, law and economics
in the era of globalization

 

 

 

Taken from my lectures as a Teaching Fellow in International Law, these reflections highlight how State sovereignty and International Law are profoundly influenced by globalization, economic integration and digital technologies, raising fundamental questions about global governance, State autonomy and the adaptation of legal structures to new economic and technological realities.

 

Part IV

Hegel’s political legacy

 

The titanic struggle between the Lord and the Servant, interpreted through the Marxist lens, highlights the parallel between the feudal lord and the capitalist master. Just as the feudal lord appropriates the products of the Servant’s labour by consuming them directly, the capitalist master strips away the material labour of the worker, converting it into the abstract form of surplus value, the source of his profit. Consequently, the entrepreneur emerges as the adversary of community fabric and its ethical closeness, introducing the cold distance of the abstraction of exchange value.
This analysis overlooks the fact that every trend toward a new feudalism, observable in every projection that privileges the tangible in an era dominated by the abstract, is inherently anachronistic. It presupposes a return to borders in a boundless age, to land in the epoch of space, reinstating demarcations in a universe devoid of constant reference points.
The contemporary reaction to globalization, which inclines towards the recovery of national and community identity, the rediscovery of ethical authenticity devoid of external comparisons, the valorisation of the tangible devoid of commercial exchanges, and of relations devoid of political commitment, reflects a strong political inclination. In this context of total mobilization, the opposition to globalism does not offer a path to emancipation but rather anticipates the birth of new dominators who, exploiting abstraction, leave the current and future Servants to fight for a soil and an existence unalienated: 1) a soil made unproductive not by domination, but by the obsolescence of a thought that seeks legitimacy exclusively in the land; 2) an aspiration to non-alienation that, at the heart of the system, highlights a theft, the alienation of real labour for the gain of capital.
The challenge of globalization cannot be addressed by simply opposing and attempting to reverse positions in the name of values, since even values fit into the logic of the same domain being critiqued. Capitalism is based not so much on the exchange value and the importance of the consumer but on the remuneration of risk and the capacity for entrepreneurial initiative.
The real dynamic between State and market lies in the mutuality of services, a relationship that encompasses the economic, legal, and relational. Contrary to the isolation of the subject theorized by neoclassical economics, the actors in the enterprise are those who enter into a relationship of mutual openness in the market. And on this particular point, the philosophical debate on the relationship between Lord and Servant has much more to explore.
The renewal of the Hegelian conflict between the dominant and the subaltern manifests in the contrast between mobile and globalized individuals and those static, confined to a State or territory. On one side are the Lords who can choose the legal conditions most advantageous to them, on the other are the Servants, anchored to a territory, who therefore suffer increased taxation by impoverished States.
Hegel had already interpreted this conflict as a confrontation between the abstract and the tangible: the Lord, having at his disposal money and language, dispenses with the concreteness of things, substituting them with symbols, just as money does. Instead, the Servant, devoid of substance, possesses only a language and a dialect, incapable of communicating on a universal scale. While the Servants remain anonymous and without public recognition, the Lord, not even needing a surname, is universally recognized.
Money and language emerge from the willingness to risk physical presence, including one’s life. This courage characterizes the entrepreneurial bourgeoisie, admired by Hegel, who celebrates the maritime peoples pioneering in risky trade, such as the Dutch, the English, and the future nation of the United States of America, born from a sea journey. Hegel also admires the Revolution for its capacity to form a state of Servants emancipated from feudal subjection through enterprise rather than arms, introducing intelligence (Geist) into the traditional economy, tied to the land and agriculture. The State thus becomes an expression of this intelligence, overcoming the individualism of particular interests.
Hegel’s reflection on politics and law, filtered through Marxism, identifies the Lord as the master of capital and the Servant as the worker, reduced to a new serf by economic exploitation. However, according to Hegel, emancipation does not occur by replacing the Servant with the Master, a move that historically has generated new Masters, but by breaking the determinism of Marxism through the unpredictability of entrepreneurial initiative. In this perspective, the market reveals itself not as a mere arena of exploitation but as a space where the abstraction of finance can expand the entrepreneurial capacities and social wealth, overcoming the predation of the globalized economy.
Finally, globalization should not be seen merely as a predatory dynamic but rather as the stage on which such a dynamic unfolds, serving as the means through which the predatory action manifests and nourishes itself. The war of techno-finance is not fought through traditional conflicts between States but rather through strategies that exploit States for personal advantages, operations that go beyond traditional territorial boundaries, acting in a parallel cybernetic dimension, without the need for physical movements or advanced armaments.

 

 

 

 

La nascita della tragedia dallo spirito della musica
di Friedrich Wilhelm Nietzsche

Ombra e luce tra estasi e verità

 

 

 

Nelle spire avvolgenti di La nascita della tragedia (1872), Friedrich Nietzsche intreccia un manifesto di visioni estatiche e riflessioni profonde, dove filosofia e letteratura danzano in un abbraccio inestricabile. Il testo, opera prima di un giovane Nietzsche ancora influenzato dall’ellissi di Schopenhauer e dal dramma musicale di Wagner, si configura come una meditazione ardente sulla musica, sulla tragedia greca e sulla capacità dell’arte di svelare e, allo stesso tempo, velare la crudele verità dell’esistenza.
Al centro della riflessione nietzschiana giace il contrasto eterno tra il principio apollineo e quello dionisiaco. Apollo, dio della luce, dell’ordine e della forma, rappresenta la bellezza estetica, il confine che disciplina il caos. Dioniso, al contrario, incarna l’estasi, l’irrazionale, l’ebbrezza che dissolve ogni frontiera, celebrando l’unità primordiale dell’individuo con la natura attraverso il rito del vino e del sacrificio.
Nella filosofia di Friedrich Nietzsche, esposta con particolare forza anche in quest’opera, i concetti di apollineo e dionisiaco rappresentano due forze opposte ma complementari, che definiscono l’essenza dell’arte, della cultura e dell’esistenza umana. Il filosofo utilizza questi archetipi per esplorare le dinamiche profonde dell’arte tragica, ma anche per riflettere su questioni più ampie relative alla condizione umana.
Il principio apollineo rappresenta il desiderio di ordine, armonia e bellezza. Apollo è il protettore delle arti visive e della profezia, simbolo di controllo e di misura. Nell’estetica nietzschiana questo principio si manifesta nel bisogno di struttura, nella chiarezza delle forme e nella coerenza dell’illusione. L’apollineo è associato al mondo dei sogni, dove ogni immagine è definita e ogni contorno chiaro; è un regno in cui il caos viene controllato attraverso la creazione di forme riconoscibili e la delineazione di limiti.
Nel contesto della tragedia greca, l’apollineo si riflette nella maschera del tragico, che serve a creare una distanza tra l’attore e il personaggio, permettendo agli spettatori di sperimentare la catarsi in modo sicuro, senza essere sopraffatti dall’immediatezza delle emozioni rappresentate.
In contrasto, il principio dionisiaco incarna la perdita dell’individuazione, l’ebbrezza e la fusione con la natura e con gli altri esseri umani. Dioniso è il dio del vino, dell’intossicazione e del rilascio delle inibizioni sociali. In termini nietzschiani, Dioniso rappresenta l’energia vitale irrazionale e caotica che sottende all’esistenza, il desiderio di unione mistica e di dissoluzione dei confini tra il sé e l’altro.

Nel teatro tragico, il coro dionisiaco agisce come la voce collettiva della comunità, esprimendo le verità profonde e universali per mezzo del canto e della danza. È attraverso Dioniso che il teatro diventa uno spazio di identificazione comunitaria, dove gli spettatori si confrontano con le forze primordiali della natura e della psiche umana.
Nietzsche sostiene che l’arte raggiunga il suo apice quando questi due principi sono in equilibrio. La tragedia greca, infatti, combinava l’ordine e la forma dell’apollineo con l’estasi e l’abbandono del dionisiaco. Tale fusione permetteva agli spettatori di guardare direttamente nel cuore del dolore e della sofferenza umana (un territorio dionisiaco), ma attraverso una struttura formale e distanziante (apollinea) che rendeva l’esperienza sopportabile e, infine, catartica.


Quest’interazione tra forma e frenesia, tra sogno e distruzione, non è solo centrale nell’arte ma è un’immagine potente per comprendere i conflitti interni e sociali dell’esistenza umana. Nietzsche vede in questo equilibrio una forza motrice della cultura e un necessario contrappeso alle tendenze unilaterali che possono portare sia all’anedonia che alla dissoluzione.
L’apollineo e il dionisiaco non sono solo categorie estetiche ma anche filosofiche, che offrono una lente attraverso cui Nietzsche interpreta il mondo. La loro danza eterna è un simbolo della tensione incessante tra ordine e caos, tra la razionalità dell’individuo e l’irrazionalità dell’esistenza collettiva.
In una prosa che sfiora il lirismo, Nietzsche esplora come la tragedia greca abbia saputo fondere questi due impulsi apparentemente opposti, creando un’arte capace di sopportare lo sguardo nel terrore della vita, senza tuttavia soccombere sotto il suo peso. Il coro tragico, dunque, si rivela non solo come spettatore ma come partecipe e testimone della sofferenza umana, elevando l’individuo dalla mera angheria del destino alla sublime accettazione del dolore.
Nel descrivere l’evoluzione e il declino della tragedia greca, Nietzsche lancia una critica appassionata contro il razionalismo di Socrate, che con il suo encomio della dialettica avrebbe corrotto e infine soffocato lo spirito dionisiaco della tragedia. Con Socrate inizia l’epoca della “teoreticità”, in cui il pensiero prevale sul sentire, e il principio dionisiaco è messo a tacere.
In La nascita della tragedia, Nietzsche non solo formula una teoria estetica, ma anche una visione del mondo in cui l’arte diviene un cruciale campo di battaglia tra il caos delle passioni umane e l’ordine imposto dal pensiero. Questo testo rappresenta un invito a riscoprire il potere salvifico dell’arte, capace di riconciliare l’umano con il divino, l’effimero con l’eterno, il dolore con la bellezza.
Così, attraverso questo viaggio tra le rovine e i fasti del mondo greco, Nietzsche ci invita a guardare in faccia il nostro abisso, con la speranza, forse, di trovare in quel buio una stella danzante. La sua prosa, vibrante di pathos e di una quasi musicalità, lascia un’impronta indelebile nella storia del pensiero, un canto tragico che risuona attraverso i secoli, sfidando il tempo e la dimenticanza.

 

 

 

DEMOCRACY THROUGH POLITICS
A philosophical and historical inquiry

 

 

The work delves into the intricate relationship between politics, power, and democracy through an integration of political philosophy and the history of democratic thought. The text examines how various models of governance and power have shaped human societies from antiquity to the modern era, with a particular focus on the anthropological and social foundations of politics and the asymmetry of political power. Author investigates political power in relation to military power and the legitimation of political authority through laws, norms, and justice. Tracing a historical trajectory from fifth-century BC Athenian democracy to the challenges faced by democracy in the twentieth century, the book provides critical reflections on how democracy might adapt in response to the demands of a complex and rapidly changing world. The epilogue contemplates the death of Socrates as a symbol of the conflict between political power and moral integrity, linking historical-philosophical themes to the contemporary context.

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Principi della filosofia dell’avvenire di Ludwig Feuerbach

L’uomo crea Dio

 

 

 

Nella potente orditura della storia della filosofia, Ludwig Feuerbach, con Principi della filosofia dell’avvenire, pubblicato nel 1843, intesse una esaltazione dell’umanesimo e una critica acuta dell’idealismo hegeliano. Il testo, come una fiaccola, illumina il cammino verso una comprensione più terrena dell’esistenza umana. Feuerbach, con le sue parole che diventano pennelli, dipinge un quadro dove l’essenza dell’uomo non è astrazione, ma carne, sangue e ossa, intrisi di desideri e di realtà. Quest’opera costituisce una svolta significativa nel pensiero moderno, marcando una transizione dall’idealismo verso una visione più antropocentrica e materialista dell’esistenza.
Feuerbach si propone, innanzi tutto, di rovesciare le vedute tradizionali dell’idealismo, dove le idee sono sovrane, per ricondurre la filosofia ai sentieri terreni dell’essere umano concreto. Prende le mosse criticando l’idealismo hegeliano, secondo cui la realtà è essenzialmente spirituale e la storia umana è il dispiegarsi dell’idea assoluta. Contrariamente a Hegel, sostiene che il punto di partenza della filosofia non debba essere l’Idea o lo Spirito, ma l’uomo materiale e la sua esperienza sensibile. Questo approccio materialista mette in luce come la realtà degli esseri umani sia radicata nelle loro condizioni fisiche e sociali, piuttosto che in una qualche realtà astratta e ideale. Postula che “l’uomo è ciò che mangia”, non solo in senso fisico ma anche intellettuale, ponendo le basi per un materialismo sensibile, che individua nella realtà materiale e nelle relazioni umane la vera essenza della vita. Attraverso questo prisma, esplora l’alienazione religiosa, mostrando come l’ideale divino sia in realtà un riflesso amplificato delle virtù umane, una proiezione delle nostre migliori qualità su uno schermo celestiale.
Tra i contributi più rivoluzionari di Feuerbach alla filosofia della religione è la tesi secondo cui “la teologia è in realtà antropologia”. Il filosofo argomenta che Dio è un’invenzione umana, un ideale proiettato che incarna le qualità e gli attributi più elevati dell’uomo. Le qualità divine – onniscienza, onnipotenza e moralità perfetta – sono aspirazioni umane proiettate in cielo. In questo senso, studiare Dio è studiare l’uomo; comprendere le religioni significa intendere come gli esseri umani idealizzano e esternalizzano le loro virtù e speranze più profonde.
Il pensatore estende la sua critica anche alla religione, evidenziando come essa alieni gli esseri umani dalle loro capacità e potenzialità. Secondo Feuerbach, infatti, quando le persone attribuiscono le proprie qualità migliori a una divinità esterna si privano della capacità di realizzare il proprio potenziale. La fede in Dio, perciò, diventa un meccanismo per l’autoalienazione: gli individui non solo perdono la proprietà delle loro virtù, ma diventano anche dipendenti da un’autorità esterna per il senso della loro vita e della loro moralità.


Il corollario della critica di Feuerbach alla religione è il suo appello a un nuovo umanesimo. Egli vede la necessità di riconoscere pienamente l’umanità dell’uomo e di celebrare le sue capacità reali, piuttosto che idealizzarle in forme divine. Questo umanesimo materialista ridefinisce la posizione dell’uomo nel mondo e promuove l’istituzione di una società in cui l’individuo sia valorizzato non per la sua aderenza a ideali spirituali, quanto per la sua capacità di vivere pienamente e creativamente nel mondo materiale.
Storicamente, Feuerbach si situa in un crocevia critico, in quel dopo Hegel che vide la filosofia tedesca dividersi in correnti contrapposte. La sua critica dell’idealismo non era soltanto un dibattito accademico, ma un intervento urgente nelle questioni socio-politiche della sua era. In un tempo di rivoluzioni e di grandi turbamenti sociali, il filosofo chiamava l’uomo a riconoscere la propria responsabilità e il proprio potere, liberandolo dall’oppressione delle illusioni ideologiche e spingendolo verso l’autocoscienza.
Come un poeta della prosa, Feuerbach intreccia nelle pagine del suo libro una narrazione che è al tempo stesso rigorosa e ricca di invenzione. Le sue teorie non sono fredde disquisizioni, ma ardenti appelli al cuore dell’uomo, inviti a riscoprire la gioia e il dolore del puro essere. In questo, Feuerbach è quasi romantico, poiché eleva l’esperienza sensoriale a strumento di conoscenza, un canto d’amore verso l’umanità stessa.
In Principi della filosofia dell’avvenire, l’Autore sfida il lettore a pensare e a sentirsi vissuto. Ogni pagina costituisce un passo verso la liberazione dall’autorità soffocante delle idee disincarnate, un percorso verso un’avvenire dove l’essenza dell’uomo è finalmente celebrata non nei cieli, ma sulla terra, tra la gente. Con questo lavoro, Feuerbach si conferma un filosofo dell’umanità, un poeta della umana ricerca di significato, un bardo che canta l’epopea dell’esistenza umana contro il coro delle astrazioni. Nel suo richiamo a una filosofia nuova, risiedono un manifesto e una promessa: quella di un avvenire in cui l’uomo, pienamente riconosciuto e valorizzato, possa finalmente trovare la sua dimensione.
Feuerbach, pertanto, in questo suo testo offre una visione radicale e profondamente trasformativa della filosofia e della religione. Il suo invito è a un rinnovamento della filosofia che ponga l’essere umano e la sua esperienza al centro dell’indagine filosofica, liberandolo dalle catene delle ipotesi ideologiche e religiose e aprendo la via a una comprensione più completa e emancipata della sua esistenza.

 

 

 

Sopra lo amore ovvero Convito di Platone
di Marsilio Ficino

L’amore, l’anima, l’assoluto

 

 

 

Nel cielo stellato del Rinascimento italiano, un filo d’oro brilla con luce propria: è Sopra lo amore ovvero Convito di Platone (1469) di Marsilio Ficino, opera in cui la filosofia platonica si fonde con il neoplatonismo in un abbraccio erudito e profondo. Ficino, astrologo e filosofo della corte medicea di Cosimo il Vecchio prima e di Lorenzo il Magnifico poi, dispiega una visione dell’amore che trascende il terreno, elevandosi a modello cosmico, espressione pura dell’anima che aspira alla bellezza assoluta, alla verità oltre il velo delle apparenze.
Le teorie di Platone rivivono in Ficino con una nuova veste, tinta di misticismo e di una spiritualità che si espande oltre i confini della semplice attrazione umana. L’amore è visto come una forza motrice universale, un principio cosmico che lega la terra al cielo, l’umano al divino. È tramite questo amore che l’anima, prigioniera del corpo, può elevarsi, riconoscendo nel bello una scintilla della verità eterna.
Ficino introduce anche elementi di esoterismo, che si intrecciano sottilmente con la dottrina platonica. Il suo amore diviene un viaggio iniziatico, dove ogni forma di bellezza contemplata è un gradino verso la sapienza, un passo più vicino all’Uno, principio supremo e fonte di ogni esistenza. Questa visione dell’amore come percorso di conoscenza e illuminazione trasforma Sopra lo amore in una guida per l’anima che cerca di superare i confini del materiale e del temporale. All’amore e alla bellezza non nono attribuite soltanto valenze filosofiche ma anche simboliche e occulte. Questo amore esoterico suggerisce una dimensione di segreti nascosti da scoprire, di verità velate da svelare attraverso simboli e rituali che superano la mera razionalità e che si addentrano nei misteri più profondi dell’esistenza.
Attraverso il dialogo tra i vari personaggi, l’Autore esplora queste tematiche con una delicatezza e una profondità che incantano il lettore, portandolo a riflettere sulle proprie esperienze amorose e sulla natura dell’amore stesso. Gli interlocutori, filosofi e sapienti del suo tempo, si scambiano opinioni e argomentazioni che riflettono un’epoca in cui l’indagine dell’amore e della bellezza poteva essere tanto un’esercitazione intellettuale quanto un percorso spirituale.
Ficino riprende la nozione platonica di amore, o Eros, come principio catalizzatore che muove l’anima verso il suo fine ultimo: la contemplazione del bello in sé, ossia l’Idea del Bello. Questo concetto si discosta dall’amore terreno, poiché per Platone l’amore è il desiderio perpetuo di ciò che è perpetuamente assente. Ficino estende questa visione, identificando l’amore come forza universale che unisce non solo gli esseri umani tra loro, ma anche l’uomo con il cosmo e il divino. In questo modo, l’amore diventa un mezzo attraverso il quale l’anima può aspirare alla sua purificazione e ascensione.


Uno dei pilastri del pensiero di Platone, che il filosofo fiorentino elabora ulteriormente, è il concetto di anamnesi, ovvero la reminiscenza dell’anima delle forme pure a cui era unita prima di incarnarsi nel mondo materiale. Attraverso l’esperienza della bellezza – che si manifesta nel mondo sensibile ma che rimanda a quella ideale e immutabile – l’anima ricorda la sua origine divina e viene stimolata a ritornare a quella condizione. Ficino, quindi, vede la bellezza come un ponte tra il sensibile e l’intelligibile, tra l’anima e l’Idea suprema della Bellezza stessa.
Nel neoplatonismo, e particolarmente in Ficino, l’Uno o il Bene supremo rappresenta la fonte di tutto ciò che esiste. L’amore è inteso come il desiderio dell’anima di ricongiungersi all’Uno, interpretato quale ritorno all’origine, all’assoluto da cui tutto deriva. Tale ritorno è possibile attraverso la conoscenza e l’amore delle forme eterne e immutabili, un percorso descritto come intrinsecamente legato alla pratica filosofica e mistica.
L’intelletto gioca un ruolo cruciale in Sopra lo amore. Non è solo tramite la sensazione o l’emozione che l’amore può essere compreso o realizzato, ma attraverso un’intensa attività intellettuale. L’anima, per Ficino, si eleva al divino non solo amando, ma comprendendo e contemplando. L’atto di “vedere” il bello e, quindi, di “ricordare” le verità eterne è un processo intellettivo, una forma di illuminazione spirituale che avvicina l’anima all’Uno.
In Sopra lo amore, l’Autore offre così una sintesi vibrante e complessa di amore, filosofia e misticismo, invitando i lettori a considerare l’amore come il principio primo di una filosofia di vita che aspira all’unione con il tutto, un viaggio dall’ombra alla luce, dalla forma alla sostanza, dal particolare all’universale.
Ficino, pertanto, non si limita a tradurre o interpretare Platone, ma ne rinnova il messaggio in chiave contemporanea, facendo appello alla sua comunità di intellettuali e spiriti affini.
Questo testo non è soltanto un trattato filosofico, ma un manifesto di quella sete di conoscenza che caratterizzò l’Umanesimo.
Leggere Ficino è come ascoltare una melodia antica che parla al cuore e alla mente, una melodia che invita a elevarsi, a cercare il bello e il buono, a fondere amore e conoscenza in un unico cammino luminoso verso l’infinito.