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Breve commento a Dialoghi massonici (1778)

di Gotthold Ephraim Lessing

 

 

 

Gotthold Ephraim Lessing (22 gennaio 1729 – 15 febbraio 1781) è stato uno dei più importanti scrittori, filosofi e critici teatrali tedeschi del XVIII secolo. Nato a Kamenz, in Sassonia, studiò Teologia e Medicina all’Università di Lipsia, ma presto si dedicò alla letteratura e al teatro, àmbiti nei quali avrebbe lasciato un segno indelebile.
È noto per la sua vasta produzione letteraria, che comprende opere teatrali, saggi filosofici e critiche letterarie. Tra le sue opere teatrali più celebri vi sono Miss Sara Sampson (1755), considerata la prima tragedia borghese tedesca, Minna von Barnhelm (1767), una commedia che tratta di temi quali l’onore e la riconciliazione, e Nathan il Saggio (1779), un dramma che promuove la tolleranza religiosa attraverso la figura di Nathan, un ebreo saggio e benevolo.
In ambito filosofico, Lessing fu un fervente sostenitore degli ideali illuministi. La sua opera Laocoonte (1766) è un importante saggio sulla teoria dell’arte, che tratta le differenze tra la poesia e le arti visive.
Lessing è ricordato anche per il suo impegno nella promozione della tolleranza religiosa e dell’uguaglianza. Attraverso le sue opere, ha combattuto contro il fanatismo e l’intolleranza, promuovendo un approccio umanista basato sulla ragione e sulla comprensione reciproca.
La sua insistenza sull’uso della ragione e della critica come strumenti per migliorare la società e l’individuo ha influenzato molti pensatori e scrittori successivi. La sua opera continua a essere studiata e apprezzata per la profondità intellettuale e per il contributo alla promozione dei valori umanisti.

 

Consegna della Costituzione, incisione su rame di John Pine (1690-1756), 1723. Illustrazione del frontespizio del “Book of Constitutions” di James Anderson. Il Gran Maestro duca di Montagu consegna al suo successore, duca di Warthon, la costituzione non ancora stampata.

 

Dialoghi massonici di Gotthold Ephraim Lessing, pubblicato nel 1778, costituisce, innanzi tutto, il tentativo dell’Autore di difendere e spiegare i principi della massoneria, attraverso una serie di dialoghi immaginari tra personaggi dai caratteri fortemente simbolici.
Lessing scrisse i Dialoghi massonici in un periodo di grande fermento intellettuale e sociale in Europa. Il XVIII secolo, conosciuto come Età dei Lumi, fu caratterizzato da pregnanti riflessioni sulla ragione, sulla scienza e sull’umanesimo. La massoneria, con i suoi ideali, trovò terreno fertile in questo contesto. Lessing, fervente sostenitore delle dottrine illuministe, utilizza i dialoghi per confrontarsi con le critiche e i pregiudizi che circondavano la libera muratoria. La sua opera offre uno spaccato delle tensioni tra tradizione e progresso, religione e ragione, che animavano il dibattito pubblico dell’epoca.
Dal punto di vista filosofico, i Dialoghi massonici affermano i valori illuministi e umanisti. Lessing, attraverso il prisma della massoneria, vi esamina temi come la verità, la morale e la libertà individuale. Nei dialoghi, i personaggi discutono delle virtù, della tolleranza, della ricerca della verità e dell’importanza dell’educazione.
Lessing sostiene che la massoneria, con il suo impegno per il miglioramento morale e intellettuale dell’individuo, rappresenti un ideale di società basata sulla ragione e sull’etica. Questa prospettiva filosofica riflette la convinzione del filosofo che la conoscenza e la comprensione siano strumenti essenziali per il progresso umano.
Sul piano letterario, l’opera rappresenta un preclaro esempio di dialogo filosofico, forma letteraria che Lessing utilizza con maestria per esporre le sue teorie. Tale scelta permette una presentazione vivace e dinamica delle argomentazioni, con i personaggi che si fanno portatori di diverse prospettive e opinioni. Questa tecnica rende certamente l’opera più coinvolgente, ma permette anche all’Autore di delineare le sfumature delle questioni trattate. I dialoghi sono scritti in uno stile chiaro e incisivo, riflettendo la chiarezza di pensiero e la profondità intellettuale di Lessing.
Per quanto riguarda gli aspetti massonici, i Dialoghi, come detto, propongono una strenua difesa dei principi e degli ideali della massoneria. L’Autore la presenta come un’istituzione dedicata al miglioramento dell’umanità attraverso l’educazione e la moralità. I dialoghi affrontano anche le critiche rivolte alla libera muratoria, come l’accusa di segretezza e la percezione di elitismo. Lessing risponde mostrando come la massoneria promuova la fratellanza e l’uguaglianza tra i suoi membri, indipendentemente dal loro retroterra sociale o religioso. L’opera, quindi, contribuisce a demistificare la massoneria e a palesarla come un movimento progressista e illuminato.
Uno dei temi centrali nei Dialoghi è la natura della verità. Lessing discute l’importanza della ricerca della verità come un processo continuo e infinito, criticando la dogmaticità delle religioni e delle ideologie, che pretendono di possedere la verità assoluta. La verità, sostiene, è qualcosa che deve essere continuamente ricercata e mai completamente raggiunta. Questo approccio riflette il suo impegno per un’epistemologia aperta e critica, in linea con i principi illuministi.
Lessing era inoltre un fervente fautore della tolleranza religiosa, secondo l’idea che la vera religione non risiedesse in dogmi o riti specifici, ma nella moralità e nell’umanità degli individui. La libera muratoria è presentata come un’istituzione che accoglie persone di diverse fedi, promuovendo la comprensione e il rispetto reciproco. Questo messaggio di tolleranza era particolarmente rilevante in un’epoca segnata da conflitti religiosi e intolleranza.
L’educazione è un altro tema fondamentale dell’opera. Lessing asserisce che questa sia lo strumento principale per il progresso umano, sottolineando come la massoneria contribuisca all’educazione morale e intellettuale dei suoi membri, favorendo, così, lo sviluppo di cittadini virtuosi e illuminati.
Anche la moralità e le virtù sono ampiamente trattate. Lessing esamina le qualità morali che i massoni dovrebbero coltivare, come l’onestà, la giustizia, la carità e la fraternità. La libera muratoria è descritta come una scuola di virtù, dove i membri sono incoraggiati a migliorare se stessi e a contribuire al bene comune. Questa visione idealistica della massoneria riflette l’impegno di Lessing per una società più giusta e morale.
I Dialoghi contengono anche una analisi sottile ma incisiva della società a lui contemporanea. Egli critica la corruzione, l’ipocrisia e l’ineguaglianza colà presenti, proponendo la massoneria come modello alternativo, basato sulla giustizia e sulla fratellanza. I dialoghi offrono uno spazio per riflettere sulle ingiustizie sociali e sulla necessità di riforme profonde.
Un aspetto peculiare della libera muratoria, spesso oggetto di critiche, è la sua segretezza. Lessing affronta anche questo tema, chiarendo che la segretezza non è finalizzata a escludere, ma a proteggere i membri e a mantenere la purezza dei riti e dei simboli. Il simbolismo massonico è visto come un mezzo per veicolare insegnamenti profondi in modo comprensibile. La segretezza è, quindi, ritenuta una caratteristica necessaria per preservare l’integrità e l’efficacia dell’istituzione.
Dialoghi massonici, in definitiva, è un’opera di grande rilevanza storica, filosofica, letteraria e massonica. Lessing vi difende i principi della massoneria, ponendola come un baluardo degli ideali illuministi. Lo scritto non solo offre una preziosa testimonianza del pensiero del XVIII secolo, ma continua a essere una lettura stimolante per chiunque sia interessato alla filosofia, alla storia e alla massoneria.

 

 

 

De rerum natura di Tito Lucrezio Caro

Il canto libero della natura

 

 

 

De rerum natura, composto da Tito Lucrezio Caro nel I secolo a.C. e riscoperto nella biblioteca dell’abbazia di San Gallo, in Svizzera, dall’umanista Poggio Bracciolini nel 1417, è un poema che si districa attraverso le volute del pensiero e, con tocco di sublime eloquenza, nell’abbraccio avvolgente dei versi del poeta, custode di una saggezza antica, illumina le profondità oscure della natura e della condizione umana, svelando i segreti dell’universo.
Il testo si rifà alla forma prosastica e al pensiero filosofico di Epicuro, seguendo la struttura del suo trattato Περὶ φύσεως (Sulla natura). Diviso in tre diadi di due libri ciascuna, conta complessivamente 7415 versi.
Nel primo libro, Lucrezio principia con un inno a Venere, simbolo della forza generatrice della natura, avviando, poi, l’esposizione delle teorie fisiche di Epicuro. Discute la natura e il comportamento degli atomi, l’assenza di un fine ultimo nel movimento atomistico e la critica all’idea di un creatore divino, introducendo il concetto di clinamen, o deviazione spontanea degli atomi, meccanismo che permette la libertà nell’universo deterministico. Il secondo libro approfondisce la teoria atomistica, descrivendo come gli atomi formino tutto ciò che si vede e si percepisce, illustrando altresì la varietà infinita delle forme della materia attraverso le combinazioni e le configurazioni degli atomi. Inoltre, mostra la struttura del cosmo, presentando l’universo come infinito ed eterno, tesi che nega la possibilità di un creatore e di un disegno cosmico. Il terzo libro è incentrato sull’anima, materialmente costituita da atomi particolarmente fini, e sulla morte. Lucrezio utilizza assunti della fisica epicurea per argomentare che l’anima è mortale e si dissolve con il corpo, tentando, così, di liberare l’umanità dalla paura della morte, che è parte naturale dell’esistenza. Nel quarto libro, esamina la percezione sensoriale e la mente, seguitando con il tema della materialità dell’esistenza ed esponendo come gli atomi siano responsabili delle sensazioni, dei pensieri e delle operazioni dell’intelletto, dimostrando, in tal modo, come si percepisca il mondo attraverso i sensi e come l’illusione e l’errore possano derivare da interpretazioni errate delle sensazioni. Il quinto libro tratta delle origini e della formazione del mondo e di vari fenomeni naturali, quali le stagioni e i cicli celesti. Il poeta propone spiegazioni naturalistiche di fenomeni spesso attribuiti all’intervento divino, promuovendo l’idea che la natura operi attraverso processi che possono essere compresi razionalmente e osservati, senza il ricorso a miti o divinità. L’ultimo libro, il sesto, presenta varie calamità naturali (fulmini, terremoti ed epidemie) e indaga le cause e gli effetti di malattie e altri disastri naturali. Nonostante il tema a tratti oscuro, l’Autore mantiene la sua prospettiva secondo cui comprendere la natura sia essenziale per liberare l’uomo dalla paura dell’ignoto e dalle superstizioni.


In ogni libro, Lucrezio non si limita a un’esposizione secca di teorie, ma le intreccia con riflessioni sulla condizione umana, profonde osservazioni sulla natura e un appello appassionato alla liberazione intellettuale e spirituale. Nelle sue linee metriche tesse il pensiero di Epicuro con una maestria che trasforma la filosofia in poesia. L’opera costituisce un viaggio attraverso l’atomismo, dove gli atomi, eterni e indivisibili, danzano nel vuoto, creando mondi e distruggendoli, senza mai un disegno divino a guidarli. Lucrezio insegna il primato della ragione e l’importanza dell’osservazione empirica, svelando che la paura e l’ignoranza siano i veri tremendi legacci dell’anima umana.

Con ardore quasi eretico sfida le convenzioni religiose del suo tempo, negando il ruolo degli dèi nella vita dell’uomo. Gli dèi esistono, ammette, ma vivono in una beatitudine distaccata, non curanti del destino umano. Questa visione è una liberazione dalla paura del divino e un invito a vivere una vita basata sulla ricerca della felicità, lontana dal terrore superstizioso degl’inferi. La religione, secondo Lucrezio, troppo spesso incatena l’uomo a timori infondati, mentre la vera beatitudine si raggiunge attraverso l’atarassia, la serenità dell’animo libero da turbamenti.
Epicuro, maestro di saggezza, è presentato come l’architetto di un giardino in cui il piacere, inteso come assenza di dolore, è il fine ultimo della vita. Lucrezio, con passione filosofica, dipinge il ritratto di una vita dedicata alla ricerca di una felicità tranquilla, lontana dagli affanni e dalle ambizioni materiali, che troppo spesso affliggono l’anima. Il poema è un inno alla mortalità, un promemoria che la morte non è da temere, poiché quando siamo, la morte non è, e quando la morte sarà, noi non saremo.
De rerum natura è un’opera che, con profonda reverenza poetica e una lucida critica filosofica, invita a riconsiderare l’esistenza umana. Lucrezio, con la guida di Epicuro, svela un universo governato da leggi naturali, dove la felicità per gli uomini, liberi dal giogo degli dèi e dalle catene dell’ignoranza, è possibile hic et nunc. In De rerum natura la natura stessa si fa tempio e il pensiero umano altare su cui offrire il sacrificio della superstizione, bruciando l’incenso della ragione.

 

 

 

 

L’ideologia tedesca di Karl Marx e Friedrich Engels

Materialismo storico, struttura, sovrastruttura e comunismo

 

 

 

 

L’ideologia tedesca di Karl Marx, scritta con Friedrich Engels tra il novembre del 1846 e l’agosto del 1846, è un’opera fondamentale nel corpus teorico marxista, essenziale per comprendere l’evoluzione del pensiero del filosofo di Treviri, che lo conduce a una visione più strutturata del materialismo storico. Rimasta pressoché inedita durante la vita degli autori, fu pubblicata postuma solo nel 1932.
Marx ed Engels prendono le distanze dall’idealismo hegeliano, criticandolo aspramente e opponendogli un materialismo radicale, che individua nelle condizioni materiali di esistenza la base delle strutture sociali e delle sovrastrutture ideologiche. Marx formula uno dei concetti chiave del suo pensiero: l’idea che non sia la coscienza degli uomini a determinare il loro essere, ma, al contrario, il loro essere sociale a determinare la coscienza. Il filosofo critica la dialettica hegeliana della storia, proponendo una visione materialistica secondo cui sono i conflitti tra classi sociali, basati su rapporti di produzione materiali, a guidare il progresso storico. Questo sposta l’attenzione dalle idee e dalla mente umana alle reali condizioni economiche e sociali. Hegel è accusato di aver sovvertito il rapporto tra essere e coscienza, conferendo a quest’ultima un primato che nella realtà non possiede. Secondo Marx, Hegel si trova intrappolato in un circolo vizioso di astrazioni, che allontanano la filosofia dalla realtà materiale e concreta delle condizioni umane. Di qui, l’approdo al materialismo storico.
Marx ed Engels argomentano che la base economica di una società –le forze produttive e i rapporti di produzione (la struttura) – condizioni le istituzioni sociali, politiche e ideologiche (la sovrastruttura). Questa teoria implica che qualsiasi cambiamento significativo nelle condizioni materiali porta a cambiamenti nella cultura e nell’organizzazione politica della società. Le forze produttive includono la tecnologia, le capacità lavorative e il know-how tecnico disponibili in una società, mentre i rapporti di produzione rappresentano le relazioni sociali ed economiche che si muovono attorno alla produzione (ad esempio, le classi di proprietari e di lavoratori). Il progresso delle forze produttive, poi, entra inevitabilmente in conflitto con i rapporti di produzione esistenti, un fenomeno che può portare a tensioni sociali e a rivoluzioni. L’approccio dialettico, ereditato da Hegel ma trasformato in una chiave materialistica, è essenziale nel materialismo storico. Marx adotta una visione della storia che contempla lo sviluppo sociale come risultato di contraddizioni interne e conflitti tra classi opposte, conflitti che non sono anomalie ma motore essenziale del cambiamento storico. A differenza di Hegel, per cui le idee (tesi) evolvono attraverso contraddizioni interne (antitesi) fino a risolversi in una forma superiore (sintesi), Marx vede i cambiamenti materiali ed economici come i veri driver del progresso storico. Questo implica che la coscienza e le idee degli uomini siano in gran parte il prodotto delle loro condizioni materiali di vita. Filosoficamente, il materialismo storico non si limita a una mera interpretazione della storia, ma serve anche come una guida per l’azione. Il riconoscimento delle condizioni materiali base dei conflitti sociali giustifica la lotta politica e la rivoluzione quali mezzi legittimi per risolvere queste contraddizioni.


Nell’opera, i due autori delineano altresì le fondamenta teoriche del comunismo, che poi svilupperanno ulteriormente nelle loro opere successive, culminando ne Il Capitale. Il comunismo è qui presentato sia come teoria politica od obiettivo da raggiungere che risultato inevitabile del collasso del capitalismo, guidato dalle sue stesse contraddizioni interne e dallo sviluppo delle forze produttive. Il capitalismo aliena l’uomo dalla sua essenza, dal suo lavoro e dai suoi simili. Il comunismo mira a superare questa alienazione, restituendo all’individuo un senso di appartenenza e di realizzazione tramite il lavoro. Il comunismo è così descritto come la fase della storia umana che segue la distruzione della borghesia e dei suoi rapporti di produzione. Marx ed Engels intendono la storia come una serie di fasi economiche, ognuna delle quali si evolve a causa delle contraddizioni interne e si conclude con la rivoluzione sociale. Il comunismo, quindi, costituisce l’ultima fase di questo processo storico. Nella società comunista le classi sociali sono abolite e non essendoci più distinzione tra proletariato e borghesia, si elimina la base dei conflitti di classe. La proprietà privata dei mezzi di produzione è rimpiazzata dalla proprietà collettiva. Ciò cambia radicalmente l’economia e la struttura della società, rendendo possibile una distribuzione equa delle risorse. Invece di essere guidata dal profitto, la produzione è organizzata per soddisfare i bisogni reali delle persone. Ciò dovrebbe garantire che nessuno soffra di povertà o mancanza di risorse essenziali. Marx ed Engels prevedono anche che lo Stato, considerato strumento per l’oppressione di una classe su un’altra, diventi superfluo in una società senza classi e, pertanto, si dissolverà gradualmente. L’utopia comunista, come presentata ne L’ideologia tedesca, è la risposta ai problemi generati dal capitalismo, inclusi sfruttamento, disuguaglianza e alienazione; tuttavia, l’applicazione pratica di questi principi nel XX secolo, attraverso regimi che si sono dichiarati comunisti, ha spesso portato a risultati molto diversi (e drammatici) dalle teorie originali di Marx ed Engels, suscitando critiche e dibattiti continui sull’applicabilità e sulla validità del comunismo come modello socio-economico.
L’ideologia tedesca è un testo cruciale per comprendere le radici del marxismo e la formazione intellettuale di Marx ed Engels. Nonostante la sua complessità e il contesto polemico in cui è stato scritto, offre spunti di riflessione ancora attuali sul rapporto tra economia, società e politica. La critica diretta a figure del tempo e la profondità, spesso violenta, dell’analisi rendono questo lavoro un pilastro della filosofia politica ed economica moderna.

 

 

 

 

Pensiero collettivo e presenze psichiche

L’eggregoro tra esoterismo e psicologia

 

 

 

 

Il concetto di eggregoro appartiene alla tradizione esoterica occidentale e si riferisce a un’entità psichica o spirituale collettiva generata dalla somma delle intenzioni, emozioni e pensieri di un gruppo umano coeso intorno a un obiettivo, un simbolo o una credenza comune. Si tratta di un’idea che, pur nascendo in ambito occultista, presenta implicazioni rilevanti anche nel campo della psicologia collettiva, della sociologia e della filosofia della mente.
L’origine etimologica della parola risale al greco antico egrégoroi (ἐγρήγοροι), utilizzato nel Libro di Enoch per indicare “coloro che vegliano”, ovvero esseri spirituali caduti, spesso interpretati come angeli ribelli. Questo riferimento biblico-apocrifo, ripreso successivamente da testi esoterici tardo-ottocenteschi, viene rielaborato da occultisti come Éliphas Lévi, il quale, nei suoi scritti, in particolare Dogme et Rituel de la Haute Magie (1854-1856), ipotizza l’esistenza di entità astrali influenzate dalla volontà umana, suggerendo che gruppi di persone possano, attraverso il rituale e la concentrazione mentale, “creare” vere e proprie forze intelligenti.
Il concetto assume una forma più strutturata nell’ambito delle scuole esoteriche moderne, come l’Hermetic Order of the Golden Dawn e, più tardi, nella Societas Rosicruciana in Anglia. Arthur Edward Waite, in alcune sue opere sulla magia cerimoniale, accenna alla possibilità che un gruppo coeso e disciplinato possa generare una presenza autonoma, dotata di una sorta di identità propria. Questo pensiero verrà poi approfondito nel XX secolo da autori come Dion Fortune, che nel suo Psychic Self-Defense (1930) descrive gli eggregori come forme-pensiero collettive dotate di potere reale nel mondo psichico e in grado di esercitare influenza sui singoli membri del gruppo.
Negli anni successivi, l’idea di eggregoro trova una nuova sistematizzazione nell’opera di Valentin Tomberg, autore dei Meditations on the Tarot (pubblicato postumo nel 1980), in cui il concetto viene associato alla realtà degli archetipi collettivi e delle strutture immaginative che plasmano l’esperienza spirituale dell’essere umano.

Sebbene il termine non faccia parte del vocabolario scientifico, il concetto di eggregoro può essere messo in relazione con alcune teorie psicologiche, in particolare con la psicologia del profondo. Carl Gustav Jung, pur non utilizzando questa parola, descrive nel suo lavoro l’esistenza di archetipi condivisi che abitano l’inconscio collettivo e influenzano profondamente le strutture simboliche e i comportamenti individuali. Gli archetipi, come forze impersonali e transpersonali, possono essere attivati da energie collettive e assumere un ruolo dominante nei contesti culturali o nei gruppi sociali.
In questo senso, un eggregoro può essere visto come un archetipo attualizzato attraverso la partecipazione emotiva e simbolica del gruppo, che ne rinforza la coerenza interna e lo “incarna” in forme riconoscibili, talvolta mitizzate. La dinamica del transfert collettivo, concettualizzata anche in ambito psicoanalitico, descrive in termini clinici come il singolo individuo possa perdere il senso critico quando immerso in una psiche di gruppo altamente suggestiva.
Nella cultura contemporanea, l’idea di eggregoro si manifesta sotto forma di identità collettive che acquisiscono vita propria. Ad esempio, la cultura di marca (brand culture), come evidenziato da Naomi Klein in No Logo (1999), mostra come alcuni marchi diventino “organismi viventi” capaci di aggregare comunità di consumatori affezionati, alimentare immaginari condivisi e influenzare scelte comportamentali e valoriali. Il marchio non è solo un simbolo commerciale, ma un catalizzatore di significati, simile a un eggregoro: è sostenuto da narrazioni, rituali, fedeltà e perfino forme di identificazione personale.
Anche nei fenomeni politici e ideologici troviamo dinamiche simili. La propaganda, i rituali di appartenenza e le rappresentazioni simboliche condivise (bandiere, slogan, inni) rafforzano l’eggregoro ideologico di una nazione, di un partito o di un movimento. Lo stesso accade nelle religioni istituzionalizzate, dove divinità, santi o figure carismatiche vengono alimentate da millenni di devozione collettiva, diventando entità psichiche stabili nella memoria e nella pratica dei fedeli.
Nel contesto digitale, il concetto di eggregoro si rivela particolarmente attuale. Le comunità online, i fandom, le subculture nate sui social media producono continuamente nuove entità psichiche collettive, alimentate da flussi costanti di attenzione, affetto, indignazione o partecipazione. La viralità stessa può essere interpretata come un meccanismo di “nutrimento” energetico per queste forme simboliche, che acquistano rilevanza, potere e resistenza grazie alla massa critica di utenti coinvolti.
Secondo alcuni esoteristi contemporanei, tra cui Mark Stavish nel suo libro Egregores: The Occult Entities That Watch Over Human Destiny (2018), un eggregoro può diventare tanto potente da acquisire un’autonomia relativa, condizionando le decisioni dei singoli anche al di fuori della loro volontà conscia. Questo lo rende uno strumento potente, ma anche potenzialmente pericoloso. Un eggregoro positivo può sostenere un movimento evolutivo, spirituale o sociale; uno negativo può degenerare in fanatismo, controllo psichico e regressione collettiva.
L’idea che una forma-pensiero collettiva possa “sopravvivere” a chi l’ha creata è centrale nella teoria esoterica. Alcuni eggregori, una volta generati, tendono a mantenere la loro coerenza e persistenza attraverso nuove generazioni di aderenti, mantenendo il nucleo simbolico e adattandosi ai mutamenti storici. Si parla in questo caso di eggregori longevi, come quelli associati alle grandi religioni, agli ordini iniziatici o a istituzioni culturali millenarie.
L’eggregoro, quindi, pur rimanendo un concetto non scientifico in senso stretto, rappresenta una metafora potente per interpretare la dinamica psichica e simbolica dei gruppi umani. Che lo si consideri un’entità spirituale autonoma o una rappresentazione delle forze collettive dell’inconscio, esso permette di indagare come le idee si trasformino in strutture vive, capaci di influenzare individui, società e culture. Comprendere gli eggregori significa riconoscere che il pensiero collettivo non è una semplice somma di pensieri individuali, ma una forza emergente, complessa, talvolta creativa, talvolta distruttiva. In un’epoca in cui la partecipazione di massa è mediata da tecnologie istantanee e dove le identità si formano spesso all’interno di spazi virtuali, la consapevolezza della natura e del potere degli eggregori è più che mai urgente.

 

 

 

 

Alle origini della logica universale

La rivoluzione silenziosa del giovane Leibniz

 

 

 

 

La Dissertatio de Arte Combinatoria, pubblicata nel 1666 da un giovanissimo Gottfried Wilhelm Leibniz, rappresenta una delle prime e più visionarie riflessioni sull’organizzazione del sapere umano. Scritto come tesi di dottorato all’età di soli vent’anni, il testo è tutt’altro che un esercizio scolastico: è il manifesto di un pensiero già radicalmente innovatore, che punta a trasformare la conoscenza in qualcosa di calcolabile e rigoroso.
Il cuore dell’opera è l’idea di una ars combinatoria, cioè di una tecnica sistematica per combinare concetti fondamentali in modo da generare tutto il sapere possibile. Secondo Leibniz, i concetti complessi possono essere scomposti in elementi semplici, paragonabili alle lettere di un alfabeto. Una volta identificati questi “atomi del pensiero”, la mente può costruire, combinare e manipolare idee complesse proprio come si fa con i numeri o le lettere.
La proposta è ambiziosa: non solo classificare la conoscenza, ma renderla trattabile tramite regole formali. Una tale formalizzazione porterebbe alla creazione di un linguaggio simbolico universale – la characteristica universalis – in grado di rappresentare concetti in modo univoco, senza ambiguità. Questo linguaggio non sarebbe solo una notazione: sarebbe uno strumento per ragionare. Per Leibniz, infatti, i conflitti intellettuali e le dispute filosofiche derivano spesso da un uso confuso del linguaggio. Con una notazione precisa, le differenze tra opinioni potrebbero essere analizzate e risolte come problemi matematici. È celebre il suo sogno: “Calculemus!” – “Mettiamoci a calcolare”, come soluzione alle controversie.
Leibniz riprende e sviluppa l’idea medievale di Ramon Llull (Raimondo Lullo), che nel XIII secolo aveva concepito un’arte combinatoria per la teologia e la filosofia. Llull cercava una macchina concettuale che, attraverso la rotazione di dischi con concetti fondamentali, potesse generare tutte le proposizioni possibili sulla realtà. Ma mentre Llull rimaneva in ambito mistico e teologico, Leibniz cerca una base logica e matematica, fondata su strutture formali. Questo passaggio dalla mistica al razionale è una svolta chiave.

La Dissertatio è organizzata in modo sistematico. Leibniz inizia distinguendo tra termine (l’elemento semplice) e combinazione di termini. Poi, introduce il concetto di ars combinatoria come metodo per costruire tutte le combinazioni possibili. L’idea è che con un numero finito di elementi (concetti primitivi), si possano ottenere – tramite regole precise – tutte le verità composte. A supporto di ciò, Leibniz utilizza strumenti matematici come la combinatoria, il calcolo delle permutazioni e delle disposizioni. Interessante è anche la distinzione tra combinazioni reali e combinazioni formali: le prime corrispondono a verità del mondo (ontologia), le seconde a relazioni logiche (strutture sintattiche). Questa distinzione anticipa la separazione tra semantica e sintassi che sarà centrale nella logica del XX secolo.
Sebbene la Dissertatio rimanga un progetto incompiuto e speculativo, le sue intuizioni sono straordinariamente lungimiranti. Leibniz anticipa concetti che verranno formalizzati solo secoli dopo: il calcolo proposizionale, la logica simbolica, l’idea di una macchina logica (che prefigura il concetto di computer) e persino il sogno dell’Intelligenza Artificiale. L’idea di Leibniz secondo cui il pensiero può essere formalizzato e automatizzato influenzerà profondamente pensatori come Frege, Boole, Peano e successivamente Turing e Gödel. In un certo senso, il progetto leibniziano prende corpo proprio nel Novecento, con la nascita dell’informatica teorica e della logica matematica.
La Dissertatio de Arte Combinatoria non è solo una testimonianza della genialità precoce di Leibniz, ma anche uno dei primi tentativi di costruire un linguaggio formale del pensiero. Il suo progetto di una logica combinatoria per organizzare e generare la conoscenza prefigura lo spirito della scienza moderna: ordine, calcolo, sistema. Anche se non giunge a una formulazione definitiva, l’opera apre la strada a un modo nuovo di concepire il sapere come qualcosa che può essere analizzato, costruito e perfino automatizzato. Una visione che, oggi, è più attuale che mai.

 

 

 

 

Friedrich Wilhelm Nietzsche e Violetta Elvin:
la poesia della gaia scienza e l’amore della gaia vita

 

di

Riccardo Piroddi*

 

Potrei credere solo a un dio che sapesse danzare. E quando ho visto il mio demonio, l’ho sempre trovato serio, radicale, profondo, solenne: era lo spirito di gravità, grazie a lui tutte le cose cadono. Non con la collera, col riso si uccide. Orsù, uccidiamo lo spirito di gravità. Ho imparato ad andare: da quel momento mi lascio correre. Ho imparato a volare: da quel momento non voglio più essere urtato per smuovermi. Adesso sono lieve, adesso io volo, adesso vedo al di sotto di me, adesso è un dio a danzare, se io danzo”.

Buona sera, buona sera a tutti. Le parole che ho appena recitato non sono mie. Lo fossero, ora sarei nell’olimpo dei pensatori di tutti i tempi. Sono di un personaggio della storia del pensiero universale di cui vi parlerò tra poco. Non ho bisogno di presentarmi, mi conoscete tutti. Mi considero ancora un giovane virgulto, figlio di questa terra meravigliosa, la terra massese. Non è un mistero che, da anni, collabori con il professor Lauro, per cui, di quest’opera che presentiamo stasera conosco anche l’esatta posizione delle virgole. Lo scorso anno, quando, a pochi metri da qui, in piazza, presentammo il romanzo precedente del professor Lauro, “Caruso The Song – Lucio Dalla e Sorrento”, dedicai il mio intervento a donna Violetta. Stasera ella è qui, davanti a me e tra voi, e con il cuore tra le mani voglio dire a lei che sto per offrirle, non soltanto questa mia relazione, ma la mia anima. Avrei voluto tenere, in questa occasione, un discorso nel quale raccontarvi l’incredibile storia che mi ha visto protagonista, in tutte le fasi che hanno portato alla pubblicazione di questo romanzo, dalle interviste a donna Violetta, alle quali ho avuto la gratificante possibilità di partecipare (in qualità di novizio di frate Guglielmo da Baskerville – Lauro, per citare il mio amato Umberto Eco), alla nostra amicizia, la quale è una medaglia d’onore che avrò appuntata sul petto fino alla fine dei miei giorni, sino alle nostre telefonate notturne, sovente in inglese, durante le quali parliamo di William Turner, di Dante Alighieri, di letteratura e delle ultime vicende politiche internazionali. Avrei voluto, ma come mi ha insegnato il filosofo ginevrino Jean-Jacques Rousseau, a parlare di sé non si guadagna mai nulla! Ed ecco, allora, che per onorare secondo il massimo delle mie possibilità questa donna straordinaria, ho deciso di indossare i miei abiti migliori, quelli dell’educazione sentimentale e culturale, e di riferirvi talune impressioni suscitatemi da questo bel romanzo, facendomi condurre per mano da uno dei più elevati spiriti dell’umanità, che io sommamente amo e al quale sono enormemente debitore. L’autore delle parole che ho poc’anzi recitato: Friedrich Wilhelm Nietzsche.
Perché mai, proprio Nietzsche? Perché, credetemi, Violetta Elvin e Friedrich Wilhelm Nietzsche hanno molte caratteristiche in comune. Non soltanto il medesimo amore per la danza. In Nietzsche, la danza è attività libera e liberatrice. E’ espressione, insieme con la musica, di quell’elemento dionisiaco oscuro, contrapposto all’apollineo luminoso. Per mostrarvi, dunque, queste caratteristiche comuni vorrei partire dall’occasione che, nel romanzo, mi ha suggerito questo percorso. Monte Comune, Vico Equense: in un afflato di incanto naturalistico, la giovane Violetta, immersa nell’estasi visiva del golfo di Napoli, ripercorre, in pochi attimi, cito: “Il grande cratere di fuoco, il prevalere delle acque, il consolidarsi di quell’armonia, un’opera d’arte, che anche il più convinto agnostico avrebbe faticato a non definire divina. Da quel punto di osservazione del mondo l’epopea della vita, la nascita di Venere pagana, che emerge dalla spuma delle onde, e il destino dell’umanità, tutto diventava più chiaro, intuitivamente, senza avere più bisogno di spiegazioni”.
La giovane Violetta, in quel momento, decide di riprendere in mano la propria vita, di darle una nuova forma e una nuova direzione. Un nuovo inizio, quindi. Una palingenesi.
Sils Maria, Engadina svizzera: in una notte estiva di luna, Nietzsche, mentre passeggia tra i laghetti che bagnano la località alpestre, ha l’intuizione di una teoria destinata a diventare uno dei capisaldi della sua dottrina filosofica: l’eterno ritorno all’uguale.
Non essendoci un Dio creatore che ha dato inizio a un mondo composto di esseri finiti, allora il mondo non ha né inizio né fine, è eterno ed è composto di esseri infiniti”. “L’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta e tu con essa, granello della polvere! Non ti rovesceresti a terra, digrignando i denti e maledicendo il demone che così ha parlato? Oppure hai forse vissuto una volta un attimo immenso, in cui questa sarebbe stata la tua risposta: Tu sei un dio e mai intesi cosa più divina”.
Queste ultime sono parole di Nietzsche da “La gaia scienza”, opera del 1882, che scrisse quando aveva pressappoco la mia età e nella quale annunziò proprio questa teoria. Ecco, soffermiamoci un attimo su questa parola: gaia. E’ la chiave che mi ha consentito di rintracciare parallelismi tra le esistenze e la poietica di Violetta Elvin e Friedrich Wilhelm Nietzsche. Mi figuro la vita di donna Violetta come una vita gaia, proprio in senso nietzschiano. Nietzsche scrive “La gaia scienza”, opera che rappresenta il passaggio dalla fase cosiddetta dello spirito libero alle sommità mature del suo pensiero, influenzato da un luogo fisico, dall’ebbrezza della contemplazione di un paesaggio naturale. Allo stesso modo, Violetta opera, in un medesimo contesto spirituale, quella scelta di vita che le permetterà di chiudere un periodo, quello della danza, e di aprirne un altro, quello dell’amore: Dance The Love, appunto.
C’è dell’altro, però, su cui ho costruito la comparazione tra donna Violetta e Nietzsche e riguarda il mio approccio intimo e personale alle vicende dei due: il mio debito di gratitudine nei confronti di entrambi. Nietzsche è stato uno dei massimi formatori del mio pensiero. Io amo Nietzsche perché la sua filosofia è una filosofia gioiosa, una filosofia dello spiritus construens, una filosofia del futuro. Sono solito rispondere in questo modo alla domanda che mi viene spesso posta, riguardo cosa ami parlare quando sono con una donna (i dialoghi con una donna sono, per un uomo, il più meraviglioso esercizio di dialettica della passione!): io amo parlare del futuro. Con le donne io amo parlare del futuro! Questo me lo ha insegnato Nietzsche. Nietzsche ha liberato l’umanità dalle incrostazioni esiziali che la metafisica, da Platone a Hegel, aveva sedimentato nella storia del pensiero occidentale. Il suo celebre adagio, “Dio è morto”, riferibile non soltanto all’ambito religioso, ma, appunto, più in generale, a quello filosofico-metafisico, è divenuto il suono delle campane che hanno destato l’umanità, aprendole gli occhi a una nuova era. Ne “Il crepuscolo degli idoli”, del 1888, il filosofo spiega, in sei punti, come “il mondo vero finì per diventare una favola”, posando, sulla metafisica occidentale, la più ironica e insieme distruttiva, oserei dire definitiva, pietra tombale. Vi consiglio di leggere quest’opera, se siete preparati alla deflagrazione di tutte le vostre credenze. C’è un termine, ricorrente in molti punti dell’opera nietzschiana: antivitale. Egli lo riferisce, particolarmente, alle religioni e ai vecchi sistemi di credenze. Il mio amore per Nietzsche è germogliato grazie a questa parola perché ha saputo palesare cosa fosse e cosa significasse il contrario. Vitale, ciò che abbandona il vecchio e si proietta verso il futuro. L’uomo, infatti, ripudiati i sistemi mentali pregressi, che lo hanno costretto alla schiavitù morale, all’antivitale, adoperata e accettata la trasvalutazione dei valori, per usare la sua terminologia, diviene un essere vitale, proiettato verso il futuro, verso la libertà. Nietzsche ha mostrato a cosa dovessero tendere l’uomo e l’umanità. Nietzsche è stato certamente un uomo pieno d’amore. Un sistema filosofico come il suo ha necessariamente alla base una massiccia quantità di amore. Nella vita, però, da quel punto di vista, fu sfortunato. Amò una sua discepola, Lou Salomé, la quale rifiutò di sposarlo, precipitandolo in una crisi depressiva che, tuttavia, gli fu provvidenziale, in quanto gli ispirò la prima parte di “Così parlò Zarathustra”. E, ancora, nonostante non vi siano prove certe, l’innamoramento, sempre infelice, per Cosima Wagner, seconda moglie del famoso compositore Richard, con i quali, tra l’altro, fu qui, a visitare il monastero del Deserto, negli anni ’80 dell’Ottocento. Un grande uomo, un grande spirito, un’anima libera, un benefattore dell’umanità! Un pensatore cui oggi le giovani generazioni, come la mia, dovrebbero guardare. In un’epoca in cui quanti ci hanno preceduto non hanno lasciato a noi neppure le macerie con le quali poter costruire il nostro futuro, un filosofo il quale, dal punto di vista dottrinario, ha tracciato la via maestra per l’avvenire, deve essere venerato come una divinità! Altro che i falsi miti propinati oggi dai media!
Donna Violetta, adesso questo mio discorso entra nella parte più sentimentale, quella più difficile, per me, da enunciare, perché temo che lacrime di gioia possano rigare il mio viso e occludermi la gola, impedendomi finanche di parlare. Mi rivolgo direttamente a voi, per cercare di chiarire i motivi di questo accostamento della vostra persona e della vostra storia a Nietzsche: Nietzsche filosofo vitale, danzatore dello spirito, uomo d’amore, profeta della libertà, oracolo dell’avvenire. Voi, donna Violetta, artista vitale, danzatrice dello spirito, donna d’amore, profetessa della libertà, oracolo dell’avvenire. Io ho avuto il privilegio di poter ascoltare, dalla vostra viva voce, i racconti della vostra incredibile vita di bambina, di donna, di artista, di moglie e di madre. I lettori di questo bellissimo romanzo lo faranno attraverso le pagine che il professor Lauro ha così bellamente costruito. Per cui, non vi indugio affatto. Donna Violetta, questo intervento è affiorato nella mia mente già mentre, un anno e mezzo fa, vi ascoltavo parlare di voi e della vostra storia. Immediatamente, vi ho legata al filosofo di cui ho esposto. Davanti ai miei occhi incantati di giovane avete portato in scena, come facevate al Teatro Bol’šoj  di Mosca o alla Royal Opera House di Covent Garden, nella nostra amatissima Londra, la filosofia di Nietzsche. “Potrei credere solo a un dio che sapesse danzare!” Donna Violetta, voi sapete danzare, eccome, e io credo in voi. Queste mie riflessioni siano un altare che io innalzo al vostro simulacro, alla vostra vicenda esistenziale, alla vostra bellezza mai sfiorita. La vostra storia è la dimostrazione reale di quel vitalismo di cui parlava il Nietzsche, sostenuto dall’amore per la vita, per la danza, per l’arte, per un uomo, il vostro Fernando, per un figlio, il vostro Antonio, e per una terra, questa nostra Penisola Sorrentina e Vico Equense in particolare, nella quale siete sbocciata come il fiore più prezioso, l’orchidea “Scarpetta di Venere”, la stessa scarpetta che indossavate in teatro, e come la Venere cantata da Foscolo nel sonetto “A Zacinto”, avete fatto feconda, o nella quale, come la Beatrice di Dante, siete venuta a miracol mostrare. Il miracolo della vostra stessa vita, che avete donato a questa terra e a noi, suoi abitanti. Donna Violetta, filosoficamente parlando, avete operato quella rivoluzione, non copernicana, come direbbe Immanuel Kant, ma nietzschiana. Avete superato l’oppressione di un regime dittatoriale, che per Nietzsche era la metafisica, aprendo le vostre ali verso la libertà, verso la vita. Avete fatto diventare quel mondo vero, che Lenin, Stalin e il comunismo avevano costruito, una favola. Anche voi avete operato e accettato la trasvalutazione dei valori, avendo la forza di rinunciare, non come Nietzsche, a qualcosa che vi rendeva schiava, ma ancor più difficilmente, a qualcosa che amavate, la danza, per abbracciare qualcuno che avreste amato ancora di più. Avete conquistato la vera libertà: quella di amare! Siete voi stessa diventata il simbolo della libertà. Donna Violetta, ai miei occhi incantati di giovane, spesso velati dalla malinconia dei poeti, voi siete sole splendente, trasfigurata, nietzschianamente trasvalorata, nel sole. “Vergine bella che di sol vestita”, cantava Francesco Petrarca. Come nelle muse dei poeti, io vedo in voi tutte le donne del mondo, tutte le madri del mondo. Nel vostro cuore c’è la storia del mondo. “Potrei credere solo a un dio che sapesse danzare!”. Donna Violetta, guardano a voi, così regale, così bella, così meravigliosa, io penso alla donna che, spero, un giorno possa accompagnarmi nella vita e allora, quando l’avrò davanti, regale, bella e meravigliosa come voi, con il cuore e le gambe tremanti, come in questo momento, le dirò, pensando a voi, pensando al vostro esempio, pensando alla delicatezza e all’affetto che avete sempre mostrato nei miei confronti, che nel teatro del tempo io danzerò la mia vita: tu, sole, come luce di scena e l’eternità come sfondo! Grazie donna Violetta! Grazie a tutti!

 

Friedrich Wilhelm Nietzsche (1844-1900)

 

Violetta Elvin negli anni ’50

 

Violetta Elvin e Riccardo Piroddi, a Vico Equense, a casa della danzatrice (2016)

 

* Intervento integrale tenuto alla presentazione del romanzo di Raffaele Lauro, “Dance The Love – Una stella a Vico Equense”, GoldenGate Edizioni, 2016, dedicato alla danzatrice russa Violetta Elvin.
Sant’Agata sui Due Golfi (Napoli), 28 agosto 2016.