Archivi categoria: Filosofia

Nietzsche, la verità e le donne

 

 

“Posto che la verità sia una donna – e perché no? Non è forse fondato il sospetto che tutti i filosofi, in quanto furono dogmatici, s’intendevano poco di donne? Che la terribile serietà, la sgraziata invadenza con cui essi, fino a oggi, erano soliti accostarsi alla verità, costituivano dei mezzi maldestri e inopportuni per guadagnarsi appunto i favori di una donna? – certo è che essa non si è lasciata sedurre e oggi ogni specie di dogmatica se ne sta lì in attitudine mesta e scoraggiata” (Al di là del bene e del male, Prefazione).

 

nietzsche

 

 

 

Palingenesi

 
 

Lo squallore politico attuale potrà essere combattuto soltanto da rappresentanti del popolo (gli eletti), convinti assertori e realizzatori non dell’idea della nazione che diventa Stato per evoluzione del Volksgeist hegeliano, quanto piuttosto della costruzione della nazione attraverso lo Stato. Ri-fondare. Certo, ri-fondare, ma non con i materiali disponibili oggi, seppure investiti dalla democratica volontà popolare, garantita dal sistema costituzionale vigente. Ri-fondare, innanzi tutto, l’idea di Stato come luogo d’azione dell’individuo cosmico-storico. Ri-fondare e Ri-formare lo spirito della nazione. Come? Serve un’ecpirosi e la conseguente palingenesi. I tempi, ormai, sono maturi!

 

 
 
 

Cristianesimo pagano o paganesimo cristiano?

 
 

Eppure, mi chiedo quale differenza sostanziale possa esservi tra le Ecatombeone, le Gamelione, le Falloforie, le Panatenee, le Dionisie e le processioni della settimana santa, o anche le processioni dei santi patroni. Beh, credo, nessuna, in quanto tutte hanno origine in quella sfera pagana (nel senso di “pagus”, non in contrapposizione alle religioni rivelate) e superstiziosa, figlie, come la religione, della paura e dell’ignoranza, anche se meno sofisticate e più immediate.

 
 

 

 
 
 

Richard Wagner, Hegel e Nietzsche

 
 

La musica di Richard Wagner è una porta drammaticamente aperta sulla filosofia dello spirito di Hegel e quella dell’eterno ritorno all’uguale di Nietzsche. Allo stesso modo, Hegel e Nietzsche ne sono i librettisti, i pilastri su cui poggiano le architetture, mistiche e immaginifiche, del castello di Neuschwanstein, in Baviera, che già si intravedono quando si ascolta Wagner raccontare le vicende dello spirito del popolo tedesco!

 

 

 

Lo storico Polibio, le Costituzioni romane e un angoletto napoletano, “morto della storia”

 
 

Polibio di Megalopoli (206-124 a.C.), insigne storico greco antico, dedicò gran parte dei suoi scritti alla storia di Roma, alla nascita della Repubblica romana e alla sua potenza. Secondo lo studioso, il sistema politico romano repubblicano si basava su una costituzione mista, risultato della sintesi delle tre forme di governo fondamentali, dell’armonia e dell’equilibrio tra i tre organi depositari del potere: la monarchia (rappresentata, a Roma, dai consoli), l’aristocrazia (rappresentata dal senato) e la democrazia (rappresentata dai comizi). Già altri storici greci avevano teorizzato che questi tre ordinamenti degenerassero, inevitabilmente, rispettivamente, in tirannide, oligarchia e oclocrazia. Giunta l’oclocrazia il ciclo si sarebbe poi ripetuto, con il ritorno alla monarchia. Secondo Polibio, nel caso della costituzione mista, anche Roma non sarebbe potuta sfuggire al regresso. Nel VI libro delle “Storie”, il greco descrive proprio l’anaciclosi (in greco, anakyklosis), il processo di ritorno ciclico secondo il quale, le principali forme di governo e le relative degenerazioni si sarebbero succedute l’una all’altra, in un fatale trapasso involutivo: dalla monarchia alla tirannide, dall’aristocrazia all’oligarchia, dalla democrazia all’oclocrazia. Roma, tuttavia, avrebbe potuto ritardare questo processo storico di decadenza grazie alla sua costituzione e alla straordinaria preparazione militare, ma non vi si sarebbe potuta sottrarre. Una fortissima eco di questa teoria è presente nelle dottrine di uno dei pensatori napoletani più eminenti di tutta la storia del pensiero occidentale: Giambattista Vico (1668-1744). Questi, infatti, tra le tante dottrine, formulò quella dei corsi e ricorsi storici, ovvero il continuo e incessante ripetersi di tre cicli temporali distinti: l’età primitiva e divina, l’età poetica ed eroica, l’età civile e veramente umana. Il tutto, secondo un preciso disegno, stilato dalla divina provvidenza. L’intero sistema filosofico di Vico, impossibile da esaurire in queste poche righe, potente e meraviglioso, secondo le parole di Antonio Gramsci, fu elaborato da un “angoletto morto della storia”. Compitino per le vacanze di Natale: approfondite la filosofia di Giambattista Vico, cominciando con la lettura della “Scienza Nuova” (1725).

 

Pubblicato l’1 gennaio 2017 su La Lumaca
 
 
 
 


La religione della ragione e i suoi santi

 

 

Nella Basilica di San Pietro, a Roma, non percepisco la presenza di Dio, ma venero il genio e la potenza dell’uomo” (R. P.)

Secondo la dottrina cattolica, contenuta nel Catechismo della Chiesa Cattolica, ecco la definizione di santo: “Canonizzando alcuni fedeli, ossia proclamando solennemente che tali fedeli hanno praticato in modo eroico le virtù e sono vissuti nella fedeltà alla grazia di Dio, la Chiesa riconosce la potenza dello Spirito di santità, che è in lei, e sostiene la speranza dei fedeli offrendo loro i santi quali modelli e intercessori”. I santi sono stati oggetto di devozione e di culto sin dai primissimi secoli della storia del Cristianesimo Un riadattamento di fondo degli eroi pagani? Forse, nonostante le molte differenze intercorrenti. La nuova religione popolare (Cristiana) ebbe certamente necessità di essere alimentata nella continuità con la precedente (pagana) e i primi ministri del culto secondarono questa persistenza. Cosa abbiano rappresentato e rappresentino, ancora oggi, i santi, nell’immaginario e nel quotidiano dell’Occidente cristiano, e di quali pratiche cultuali siano oggetto da parte dei fedeli, è più che noto e rientra in quel contenitore, sia semantico che pragmatico, denominato, tuttora, religione. Esiste, però, un altro tipo di religione, in questo modo impropriamente denominata, se non per renderne comprensibile la definizione: la religione laica o la religione della ragione. Due ossimori! (La ragione è tutto ciò che si contrappone alla religione!). Ebbene, anche nella religione della ragione è contemplato il culto dei santi. Esiste, altresì, un Catechismo della Ragione, che ne definisce la natura: “I santi hanno praticato in modo eroico la ragione e sono vissuti nella fedeltà all’intelletto umano, divenendo modello per lo sviluppo morale e materiale dell’umanità”. Capitoli del libro di questi santi e, in troppi casi, di martiri, sono le storie della Filosofia, della Scienza e della Tecnica!

 

Pubblicato l’1 novembre 2016 su La Lumaca

 

 

 

La concreta filosofia inglese e la forza della sterlina

 

 

Gli inglesi, per quel che concerne la storia del pensiero, si sono distinti dagli altri popoli europei, antichi e moderni, a causa di quella impronta, ad essi del tutto peculiare, tendenzialmente antimetafisica ed essenzialmente pragmatica. A scorrere rapidamente quella storia, infatti, ciò può essere facilmente notato:1 quando il Medioevo volgeva ormai al termine, mentre nelle scuole del resto d’Europa i dotti erano ancora impelagati nelle dispute scolastiche sulle prove dell’esistenza di Dio, sugli universali, sulla Trinità e sui quodlibeta, Roger Bacon (immagine a sinistra), filosofo, scienziato e mago, il Doctor mirabilis (Dottore dei miracoli), fondava la gnoseologia empirica, secondo la quale l’esperienza sia il vero e unico mezzo per acquisire conoscenza del mondo. Tre erano, secondo il filosofo, i modi con cui l’uomo potesse comprendere la verità: con la conoscenza interna, data da Dio tramite l’illuminazione; con la ragione, la quale, però, non è bastevole, e, infine, con l’esperienza sensibile, ovvero tramite i cinque sensi, il non pus ultra di cui esso possa disporre e che gli consente di avvicinarsi alla reale conoscenza delle cose. 1Il frate francescano William of Ockham, il Doctor invincibilis (Dottore invincibile), con il suo famosissimo rasoio, semplificò al massimo la spiegazione dei fenomeni, mostrando l’inutilità di moltiplicare le cause e di introdurre enti al di là della fisica: “Frustra fit per plura, quod fieri potest per pauciora” (è inutile fare con più, ciò che si può fare con meno). Francis Bacon (immagine a destra), il filosofo dell’adagio “Sapere è potere”, padre della rivoluzione scientifica e del metodo scientifico nell’osservazione e nello studio dei fenomeni attraverso l’induzione, meglio definita e rinnovata rispetto a quella aristotelica, fu avversatore dei pregiudizi, da lui chiamati idola (idoli o immagini), che impedivano la reale conoscenza e intelligenza della natura, e fu ispiratore di un’altra grande mente inglese, Isaac Newton, lo scienziato-osservatore empirico per eccellenza. Thomas Hobbes diede spiegazione a tutti gli aspetti della realtà col suo materialismo meccanicistico, annullando la res cogitans (sostanza pensante) di Cartesio e il suo ambiguo rapporto con la res extensa (sostanza materiale), retroterra sul quale basò la sua concezione della natura umana, della condizione di guerra di tutti contro tutti (l’homo homini lupus),1 del patto di unione e del patto di società, dai quali sarebbero poi nati, rispettivamente, la civiltà e, attraverso la rinuncia da parte di ogni uomo al suo diritto su tutto e la cessione di questo al sovrano, lo Stato, il Leviatano. John Locke (immagine a sinistra), l’empirista, l’autore di An essay concerning human understanding (Saggio sull’intelletto umano), sosteneva che tutta la conoscenza umana derivasse dai sensi. Indagò le idee e i processi conoscitivi della mente, criticando l’innatismo cartesiano e leibniziano, e, tra l’altro, fu strenuo propugnatore del liberalismo politico e della tolleranza religiosa. David Hume, l’estremo dell’empirismo inglese, asseriva, come Locke, che la conoscenza non fosse innata, ma scaturisse dall’esperienza. Egli negò sia la sostanza materiale che quella spirituale, tutto riducendo a sensazione e stato di coscienza. 1Demolì il concetto di causa, ritenendolo mero costume della mente, suscitato dall’abitudine, e postulò, quali conoscenze universali e necessarie, soltanto quelle della geometria, dell’algebra e dell’aritmetica. Adam Smith (immagine a destra), filosofo ed economista, teorizzò l’idea che la concorrenza tra vari produttori e consumatori avrebbe generato la migliore distribuzione possibile di beni e servizi, poiché avrebbe incoraggiato gli individui a specializzarsi e migliorare il loro capitale, in modo da produrre più valore con lo stesso lavoro. 1E, infine, l’Utilitarismo di Jeremy Bentham e John Stuart Mill prima, con tutte le implicazioni morali (o moralmente inglesi), legate ai concetti di “utile” e di “felicità“, e quello di Henry Sidgwick (immagine a sinistra), poi, col suo edonismo etico, mediante il quale aggiunse importanti precisazioni ai concetti dell’utilitarismo classico. Queste riflessioni filosofiche hanno certo corrispettivo pratico allorquando si osservano attentamente tutte le sfaccettature dell’English way of life e dei princìpi che, ancora oggi, lo animano. Il motivo per cui gli inglesi, fino a circa settant’anni fa, hanno realmente dominato il mondo (basti pensare al British Empire e al Commonwealth), ha le proprie basi nel pragmatismo che, dal 1200 in poi, ha caratterizzato le sue classi intellettuali e, di riflesso, quelle deputate all’azione. Un popolo non condizionato dalla religione, come lo sono stati, dal Medioevo alle soglie dell’età contemporanea, la maggior parte dei Paesi cattolici europei, libero di sottomettere altre genti, che non ha combattuto in nome di Dio ma degli uomini, era destinato ad avere il ruolo che ha avuto e che ancora ha. Del resto, negli stessi anni in cui un bardo venuto dalle Midlands incantava gli spettatori del Globe Theatre a Londra, mettendo in scena l’amore tra Romeo e Giulietta, la filosofia dell’essere e del non essere e la gelosia di Otello, la regina Elisabetta I nominava baronetto il più astuto e lesto pirata della storia: sir Francis Drake!

 

Pubblicato il 28 luglio 2011 su www.caravella.eu

 

 

Lectura Dantis: INFERNO. I Personaggi

 

 

LA LIBRERIA INDIPENDENTE DI SORRENTO OMAGGIA DANTE ALIGHIERI, NEL 695° ANNIVERSARIO DELLA MORTE, CON LA “LECTURA DANTIS: INFERNO. I PERSONAGGI”, REALIZZATA DA RICCARDO PIRODDI  

In occasione del 695° anniversario della morte di Dante Alighieri (14 settembre 1321 – 14 settembre 2016), la Libreria Indipendente di Sorrento rende omaggio al sommo poeta con la videoproiezione della “Lectura Dantis: INFERNO. I Personaggi”, realizzata da Riccardo Piroddi, pubblicista, blogger e autore, nel 2011, del saggio dal titolo, “Storia (non troppo seria) della Letteratura Italiana”, Edizioni Albatros. L’evento culturale si terrà sabato 17 settembre 2016, alle ore 20.00, presso i locali della libreria, in Corso Italia, 258/c, a Sorrento. “Sin dai decenni immediatamente successivi alla morte di Dante – ha dichiarato Piroddi – cominciarono a tenersi pubbliche letture dei suoi versi, sovente accompagnate da interventi analitici di commentatori. Tra i primi, Giovanni Boccaccio, nel 1373, a Firenze. La grandezza e l’immutato fascino dell’opera di Dante si aprono, oggi, alla tecnologia, pur nella secolare tradizione della lectura espressiva e della lectura esegetica. Questo è lo spirito che anima la mia realizzazione. Immagini, musiche, effetti sonori e gli stessi versi danteschi, magistralmente interpretati dalla potente voce recitante di Giulio Iaccarino, danno vita ad alcuni tra i più celebri personaggi dell’Inferno, prima cantica del Divino Poema (Paolo e Francesca, Farinata degli Uberti, Pier delle Vigne, Ugolino della Gherardesca e altri), le cui vicende storiche e poetiche saranno oggetto di mie riflessioni nel corso della serata”.

 

Lectura Dantis: INFERNO. I Personaggi”

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Il Futurismo e Filippo Tommaso Marinetti

 

 

Una decina di anni fa, mi trovavo a casa di alcuni amici dei miei genitori per festeggiare il Capodanno. Dopo aver generosamente dato fondo, insieme con uno dei loro figli, ad una bottiglia di Martini Bianco, mi aggiravo, brillo, nel salotto, aspettando che il padrone di casa ci invitasse a tavola, per dare inizio al banchetto, quando notai una stampa multicolore, sistemata sul muro, dietro un tavolo finemente intarsiato. “Quelli sono i futuristi a Parigi!”, esclamai, ricordandomi di una loro fotografia, vista qualche tempo prima in un libro sul Fascismo Futuristi-a-Parigi-nel-1912e che, molto probabilmente, l’autore della stampa aveva copiata. Chi erano, dunque, questi futuristi fotografati a Parigi, nel 1912? Da sinistra: Luigi Russolo, Carlo Carrà, Filippo Tommaso Marinetti, Umberto Boccioni e Gino Severini. Cosa fu il Futurismo? Il caposcuola fu, senza dubbio, Marinetti, il quale riuscì a contagiare altri artisti, non solo poeti o scrittori, ma anche pittori, architetti e musicisti e artisti. Il Futurismo quindi, non fu soltanto un movimento letterario, bensì interessò tutti i campi dell’arte e della cultura. Marinetti stesso, in un articolo apparso sul quotidiano francese Le Figaro, il 20 Febbraio 1909, intitolato Manifesto del Futurismo, ne aveva dato le linee generali: in primo luogo, affermò il ribrezzo per le idee del passato, spostando l’indagine artistica agli elementi della recente modernità, dalla tecnologia alla velocità, fino alla guerra, perché tutti questi elementi, a suo parere, costituivano la prova della definitiva vittoria dell’uomo sulla natura. Inoltre, quello per la modernità e la distruzione di tutto ciò che il passato rappresentava, fu un vero e proprio culto, tributato dai futuristi attraverso le loro opere. È interessante leggere alcuni punti del Manifesto di Marinetti, perché sono illuminanti per capire aspetti importanti di questo movimento:

Noi vogliamo cantare l’amor del pericolo, l’abitudine all’energia e alla temerità.
Il coraggio, l’audacia, la ribellione, saranno elementi essenziali della nostra poesia.
La letteratura esaltò fino ad oggi l’immobilità penosa, l’estasi ed il sonno. Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l’insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo ed il pugno.
Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova; la bellezza della velocità. […]
Non v’è più bellezza se non nella lotta. Nessuna opera che non abbia un carattere aggressivo può essere un capolavoro.
La poesia deve essere concepita come un violento assalto contro le forze ignote, per ridurle a prostrarsi davanti all’uomo. […]
Noi vogliamo glorificare la guerra – sola igiene del mondo – il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei liberatori, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna.
Noi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche, le accademie d’ogni specie, e combattere contro il moralismo, il femminismo e contro ogni viltà opportunistica e utilitaria.
E’ dall’Italia che noi lanciamo pel mondo questo nostro manifesto di violenza travolgente e incendiaria col quale fondiamo oggi il Futurismo perché vogliamo liberare questo paese dalla sua fetida cancrena di professori, d’archeologi, di ciceroni e d’antiquari. Già per troppo tempo l’Italia è stata un mercato di rigattieri. Noi vogliamo liberarla dagli innumerevoli musei che la coprono tutta di cimiteri.

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Marinetti redasse anche altri manifesti, tutti volti ad affermare, con forza, le nuove linee della poesia e dell’arte, del rapporto dei poeti e degli artisti con la realtà. Tra questi, il più interessante è il Manifesto tecnico della Letteratura Futurista, dell’11 maggio 1912, di cui riporto alcune parti:

Bisogna distruggere la sintassi, disponendo i sostantivi a caso, come nascono.
Si deve usare il verbo all’infinito, perché si adatti elasticamente al sostantivo e non lo sottoponga all’io dello scrittore che osserva o immagina. Il verbo all’infinito può, solo, dare il senso della continuità della vita e l’elasticità dell’intuizione che la percepisce.
Si deve abolire l’aggettivo perché il sostantivo nudo conservi il suo colore essenziale. L’aggettivo avendo in sé un carattere di sfumatura, è incompatibile con la nostra visione dinamica, poiché suppone una sosta, una meditazione.
Si deve abolire l’avverbio, vecchia fibbia che tiene unite l’una all’altra le parole. L’avverbio conserva alla frase una fastidiosa unità di tono.
Ogni sostantivo deve avere il suo doppio, cioè il sostantivo deve essere seguìto, senza congiunzione, dal sostantivo a cui è legato per analogia. Esempio: uomo-torpediniera, donna – golfo, folla – risacca, piazza – imbuto, porta – rubinetto. […]
Abolire anche la punteggiatura. Essendo soppressi gli aggettivi, gli avverbi e le congiunzioni, la punteggiatura è naturalmente annullata, nella continuità varia di uno stile vivo, che si crea da sé, senza le soste assurde delle virgole e dei punti. Per accentuare certi movimenti e indicare le loro direzioni, s’impiegheranno i segni della matematica: + – – x: = > <, e i segni musicali.

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In accordo con i contenuti di quest’ultimo manifesto è la composizione che segue, tratta da Zang Tumb Tuuum, poemetto ispirato all’assedio di Adrianopoli, durante la prima guerra dei Balcani, nel 1913:

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Incredibile a dirsi, questa è una poesia, anche se sembra un quadro. Le parole e i versi, disposti sulla pagina, in libertà, paiono descrivere un’immagine, come se il foglio fosse una tela e le parole i colori. Marinetti tuttavia, insieme con gli altri futuristi, scrisse anche poesie “normali”, secondo lo stile consolidato dall’inizio della storia dell’uomo, ovvero versi lineari di parole, con senso compiuto, senza errori di grammatica e, soprattutto, senza costringere il lettore ad acrobazie fisiche per poter leggere il tutto. Eccone una:

Veemente dio d’una razza d’acciaio,
Automobile ebbra di spazio,
che scalpiti e fremi d’angoscia
rodendo il morso con striduli denti…
Formidabile mostro giapponese,
dagli occhi di fucina,
nutrito di fiamma
e d’olî minerali,
avido d’orizzonti, di prede siderali…

(Filippo Tommaso Marinetti, All’automobile da corsa, 1908, vv. 1-9)

 

Boccioni_LaCittaCheSaleUmberto Boccioni, “La città che sale”, 1910, New York, Museo Guggenheim

 

 

 

Intervento integrale di Riccardo Piroddi alla presentazione del romanzo di Raffaele Lauro, “Dance The Love – Una stella a Vico Equense” (Sant’Agata sui Due Golfi, 28 agosto 2016)

 

Friedrich Nietzsche e Violetta Elvin: la poesia della gaia scienza e l’amore della gaia vita

 

Potrei credere solo a un dio che sapesse danzare. E quando ho visto il mio demonio, l’ho sempre trovato serio, radicale, profondo, solenne: era lo spirito di gravità, grazie a lui tutte le cose cadono. Non con la collera, col riso si uccide. Orsù, uccidiamo lo spirito di gravità. Ho imparato ad andare: da quel momento mi lascio correre. Ho imparato a volare: da quel momento non voglio più essere urtato per smuovermi. Adesso sono lieve, adesso io volo, adesso vedo al di sotto di me, adesso è un dio a danzare, se io danzo”.

Buona sera, buona sera a tutti. Le parole che ho appena recitato non sono mie. Lo fossero, ora sarei nell’olimpo dei pensatori di tutti i tempi. Sono di un personaggio della storia del pensiero universale di cui vi parlerò tra poco. Non ho bisogno di presentarmi, mi conoscete tutti. Mi considero ancora un giovane virgulto, figlio di questa terra meravigliosa, la terra massese. Non è un mistero che, da anni, collabori con il professor Lauro, per cui, di quest’opera, che presentiamo stasera, conosco anche l’esatta posizione delle virgole. Lo scorso anno quando, a pochi metri da qui, in piazza, presentammo il romanzo precedente del professor Lauro, “Caruso The Song – Lucio Dalla e Sorrento”, dedicai il mio intervento a donna Violetta. Stasera ella è qui, davanti a me e tra voi, e con il cuore tra le mani, voglio dire a lei che sto per offrirle, non soltanto questa mia relazione, ma la mia anima. Avrei voluto tenere, in questa occasione, un discorso nel quale raccontarvi l’incredibile storia che mi ha visto protagonista, in tutte le fasi che hanno portato alla pubblicazione di questo romanzo, dalle interviste a donna Violetta, alle quali ho avuto la gratificante possibilità di partecipare, in qualità di novizio di frate Guglielmo da Baskerville – Lauro, per citare il mio amato Umberto Eco, alla nostra amicizia, la quale è una medaglia d’onore che avrò appuntata sul petto fino alla fine dei miei giorni, alle nostre telefonate notturne, sovente in inglese, durante le quali parliamo di William Turner, di Dante Alighieri, di letteratura e delle ultime vicende politiche internazionali. Vorrei, ma come mi ha insegnato il filosofo ginevrino Jean Jacques Rousseau, a parlare di sé non si guadagna mai nulla! Ed ecco, allora, che per onorare secondo il massimo delle mie poche possibilità, questa donna straordinaria, ho deciso di indossare i miei abiti migliori, quelli dell’educazione sentimentale e culturale, e di riferirvi talune impressioni suscitatemi da questo bel romanzo, facendomi condurre per mano da uno dei più elevati spiriti dell’umanità, che io sommamente amo e al quale sono enormemente debitore, l’autore delle parole che ho pocanzi recitato: Friedrich Wilhelm Nietzsche.
Perché mai, proprio Nietzsche? Perché, credetemi, Violetta Elvin e Friedrich Wilhelm Nietzsche hanno molte caratteristiche in comune, non soltanto il medesimo amore per la danza. In Nietzsche, la danza è attività libera e liberatrice. E’ espressione, insieme con la musica, di quell’elemento dionisiaco oscuro, contrapposto all’apollineo luminoso. Per mostrarvi, dunque, queste caratteristiche comuni vorrei partire dall’occasione che, nel romanzo, mi ha suggerito questo percorso. Monte Comune, Vico Equense: in un afflato di incanto naturalistico, la giovane Violetta, immersa nell’estasi visiva del golfo di Napoli, ripercorre, in pochi attimi, cito: “Il grande cratere di fuoco, il prevalere delle acque, il consolidarsi di quell’armonia, un’opera d’arte, che anche il più convinto agnostico avrebbe faticato a non definire divina. Da quel punto di osservazione del mondo l’epopea della vita, la nascita di Venere pagana, che emerge dalla spuma delle onde, e il destino dell’umanità, tutto diventava più chiaro, intuitivamente, senza avere più bisogno di spiegazioni”.
La giovane Violetta, in quel momento, decide di riprendere in mano la propria vita, di darle una nuova forma e una nuova direzione. Un nuovo inizio, quindi, Una palingenesi.
Sils Maria, Engadina svizzera: in una notte estiva di luna, Nietzsche, mentre passeggia tra i laghetti che bagnano la località alpestre, ha l’intuizione di una teoria destinata a diventare uno dei capisaldi della sua dottrina filosofica: l’eterno ritorno all’uguale.
Non essendoci un Dio creatore che ha dato inizio a un mondo composto di esseri finiti, allora il mondo non ha né inizio né fine, è eterno ed è composto di esseri infiniti”. “L’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta e tu con essa, granello della polvere! Non ti rovesceresti a terra, digrignando i denti e maledicendo il demone che così ha parlato? Oppure hai forse vissuto una volta un attimo immenso, in cui questa sarebbe stata la tua risposta: Tu sei un dio e mai intesi cosa più divina”.
Queste ultime sono parole di Nietzsche da “La gaia scienza”, opera del 1882, che scrisse quando aveva circa la mia età e nella quale annunziò proprio questa teoria. Ecco, soffermiamoci un attimo su questa parola: gaia. E’ la chiave che mi ha consentito di rintracciare parallelismi tra le esistenze e la poietica di Violetta Elvin e Friedrich Wilhelm Nietzsche. Mi figuro la vita di donna Violetta come una vita gaia, proprio in senso nietzschiano. Nietzsche scrive “La gaia scienza”, opera che rappresenta il passaggio dalla fase cosiddetta dello spirito libero, verso le sommità mature del suo pensiero, influenzato da un luogo fisico, dall’ebbrezza della contemplazione di un paesaggio naturale. Allo stesso modo, Violetta opera, in un medesimo contesto spirituale, quella scelta di vita che le permetterà di chiudere un periodo, quello della danza, e di aprirne un altro, quello dell’amore: Dance The Love, appunto.
C’è dell’altro, però, su cui ho costruito la comparazione tra donna Violetta e Nietzsche e riguarda il mio approccio intimo e personale alle vicende dei due: il mio debito di gratitudine nei confronti di entrambi. Nietzsche è stato uno dei massimi formatori del mio pensiero. Io amo Nietzsche perché la sua filosofia è una filosofia gioiosa, una filosofia dello spiritus construens, una filosofia del futuro. Sono solito rispondere in questo modo alla domanda, che mi viene spesso posta, riguardo cosa ami parlare quando sono con una donna (i dialoghi con una donna sono, per un uomo, il più meraviglioso esercizio di dialettica della passione!). Io amo parlare del futuro. Con le donne io amo parlare del futuro! Questo me lo ha insegnato Nietzsche. Nietzsche ha liberato l’umanità dalle incrostazioni esiziali che la metafisica, da Platone a Hegel, aveva sedimentato nella storia del pensiero occidentale. Il suo celebre adagio, “Dio è morto”, riferibile non soltanto all’ambito religioso, ma, appunto, più in generale, a quello metafisico, è divenuto il suono delle campane che ha destato l’umanità, aprendole gli occhi ad una nuova era. Ne “Il crepuscolo degli idoli”, del 1888, il filosofo spiega, in sei punti, come “il mondo vero finì per diventare una favola”, posando, sulla metafisica occidentale, la più ironica, distruttiva e definitiva pietra tombale. Vi consiglio di leggerla, se siete preparati alla deflagrazione di tutte le vostre credenze. C’è un termine, ricorrente in molti punti dell’opera nietzschiana: antivitale. Egli lo riferisce, particolarmente, alle religioni e ai vecchi sistemi di credenze. Il mio amore per Nietzsche è germogliato grazie a questa parola perché lui, poi, ha saputo palesare cosa fosse e cosa significasse il contrario. Vitale, ciò che abbandona il vecchio e si proietta verso il futuro. L’uomo, infatti, ripudiati i sistemi mentali pregressi, che lo hanno costretto alla schiavitù morale, all’antivitale, adoperata e accettata la trasvalutazione dei valori, per usare la sua terminologia, diviene un essere vitale, proiettato verso il futuro, verso la libertà. Nietzsche ha mostrato a cosa dovesse tendere l’uomo e l’umanità. Nietzsche è stato certamente un uomo pieno d’amore. Un sistema filosofico come il suo ha necessariamente alla base una massiccia quantità di amore. Nella vita, però, da quel punto di vista, fu sfortunato. Amò una sua discepola, Lou Salomé, la quale rifiutò di sposarlo, precipitandolo in una crisi depressiva che, tuttavia, gli fu provvidenziale, in quanto gli ispirò la prima parte di “Così parlò Zarathustra”. E, ancora, nonostante non vi siano prove certe, l’innamoramento, sempre infelice, per Cosima Wagner, seconda moglie del famoso compositore Richard, con i quali, tra l’altro, fu qui, a visitare il monastero del Deserto, negli anni ’80 dell’Ottocento. Un grande uomo, un grande spirito, un’anima libera, un benefattore dell’umanità! Un pensatore cui oggi le giovani generazioni, come la mia, dovrebbero guardare. In un’epoca in cui quanti ci hanno preceduto non hanno lasciato a noi neppure le macerie con le quali poter costruire il nostro futuro, un filosofo il quale, dal punto di vista dottrinario, ha tracciato la via maestra per l’avvenire, deve essere venerato come una divinità! Altro che i falsi miti propinati oggi dai media!
Donna Violetta, adesso questo mio discorso entra nella parte più sentimentale, quella più difficile, per me, da enunciare, perché temo che lacrime di gioia possano rigare il mio viso e occludermi la gola, impedendomi finanche di parlare. Mi rivolgo direttamente a voi, per cercare di chiarire i motivi di questo accostamento della vostra persona e della vostra storia a Nietzsche: Nietzsche filosofo vitale, danzatore dello spirito, uomo d’amore, profeta della libertà, oracolo dell’avvenire. Voi, donna Violetta, artista vitale, danzatrice dello spirito, donna d’amore, profetessa della libertà, oracolo dell’avvenire. Io ho avuto il privilegio di poter ascoltare, dalla vostra viva voce, i racconti della vostra incredibile vita di bambina, di artista, di donna, di moglie e di madre. I lettori di questo bellissimo romanzo lo faranno attraverso le meravigliose pagine che il professor Lauro ha così bellamente costruito. Per cui, non vi indugio affatto. Donna Violetta, questo intervento è affiorato nella mia mente già mentre, un anno e mezzo fa, vi ascoltavo parlare di voi e della vostra storia. Immediatamente, vi ho legata al filosofo di cui ho esposto. Davanti ai miei occhi incantati di giovane avete portato in scena, come facevate al Teatro Bol’šoj  di Mosca o alla Royal Opera House di Covent Garden, nella nostra amatissima Londra, la filosofia di Nietzsche. “Potrei credere solo a un dio che sapesse danzare!” Donna Violetta, voi sapete danzare, eccome, e io credo in voi. Queste mie riflessioni siano un altare che io innalzo al vostro simulacro, al vostro esempio, alla vostra bellezza mai sfiorita. La vostra storia è la dimostrazione reale di quel vitalismo di cui parlava il Nietzsche, sostenuto dall’amore per la vita, per la danza, per l’arte, per un uomo, il vostro Fernando, per un figlio, il vostro Antonio, e per una terra, questa nostra Penisola Sorrentina e Vico Equense, in particolare, nella quale siete sbocciata come il fiore più prezioso, l’orchidea “Scarpetta di Venere”, la stessa scarpetta che indossavate in teatro, e come la Venere cantata da Foscolo nel sonetto “A Zacinto”, avete fatto feconda, o nella quale, come la Beatrice di Dante, siete venuta a miracol mostrare. Il miracolo della vostra stessa vita, che avete donato a questa terra e a noi, suoi abitanti. Donna Violetta, filosoficamente parlando, avete operato quella rivoluzione, non copernicana, come direbbe Immanuel Kant, ma nietzschiana. Avete superato l’oppressione di un regime dittatoriale, che per Nietzsche era la metafisica, aprendo le vostre ali verso la libertà, verso la vita. Avete fatto diventare quel mondo vero, che Lenin, Stalin e il comunismo avevano costruito, una favola. Anche voi avete operato e accettato la trasvalutazione dei valori, avendo la forza di rinunciare, non come Nietzsche, a qualcosa che vi rendeva schiava, ma ancor più difficilmente, a qualcosa che amavate, la danza, per abbracciare qualcuno che avreste amato ancora di più. Avete conquistato la vera libertà: quella di amare! Siete voi stessa diventata il simbolo della libertà. Donna Violetta, ai miei occhi incantati di giovane, spesso velati dalla malinconia dei poeti, voi siete sole splendente, trasfigurata, nietzschianamente trasvalorata, nel sole. “Vergine bella che di sol vestita”, cantava Francesco Petrarca. Come nelle muse dei poeti, io vedo in voi tutte le donne del mondo, tutte le madri del mondo. Nel vostro cuore c’è la storia del mondo. “Potrei credere solo a un dio che sapesse danzare!”. Donna Violetta, guardano a voi, così regale, così bella, così meravigliosa, io penso alla donna che, spero, un giorno possa accompagnarmi nella vita e allora, quando l’avrò davanti, regale, bella e meravigliosa come voi, con il cuore e le gambe tremanti, come in questo momento, le dirò, pensando a voi, pensando al vostro esempio, pensando alla delicatezza e all’affetto che avete sempre mostrato nei miei confronti, che nel teatro del tempo io danzerò la mia vita: tu, sole, come luce di scena e l’eternità come sfondo! Grazie donna Violetta! Grazie a tutti!

 

Violetta Elvin

 

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