Nelle sue Lezioni sulla Filosofia della Storia, che io, da studente universitario, ho amato e che, tuttora, amo ancora tantissimo, il filosofo tedesco George Wilhelm Hegel argomentò, con ragioni troppo lunghe da poter esaudire in poche righe, la superiorità, sugli altri, del popolo tedesco o, meglio, dello spirito del popolo tedesco, per usare la sua terminologia, almeno sin dai tempi della Riforma Protestante. Il sommo Hegel, però, omise un particolare rilevantissimo: fossero anche il miglior popolo del mondo, hanno poco chiara la teoria dei ricorsi storici di Giambattista Vico (un napoletano!), dottrina elaborata circa cinquant’anni prima delle Lezioni hegeliane. Due guerre mondiali, evidentemente, hanno insegnato alcunché ai teutonici. Oggi, infatti, stanno invadendo economicamente l’Europa! Non passerà troppo tempo che, con molta probabilità, si troveranno nuovamente con le pezze al culo, come nel 1945, alla faccia di Hegel!!!
“Potrei credere solo a un dio che sapesse danzare. E quando ho visto il mio demonio, l’ho sempre trovato serio, radicale, profondo, solenne: era lo spirito di gravità, grazie a lui tutte le cose cadono. Non con la collera, col riso si uccide. Orsù, uccidiamo lo spirito di gravità. Ho imparato ad andare: da quel momento mi lascio correre. Ho imparato a volare: da quel momento non voglio più essere urtato per smuovermi. Adesso sono lieve, adesso io volo, adesso vedo al di sotto di me, adesso è un dio a danzare, se io danzo”.
Questa rivista, uscita in settantaquattro numeri, uno ogni dieci giorni, tra il giugno 1764 e il maggio 1766, raccolse intorno a sé i maggiori intellettuali dell’Illuminismo milanese. Fondata da Pietro Verri, ad essa facevano capo i membri dell’Accademia dei Pugni, società culturale tra i cui soci sarebbero stati annoverati anche Primo Carnera, Nino Benvenuti, Patrizio Oliva e Agostino Cardamone (scherzo!), e così chiamata a causa dell’epilogo molto animato delle riunioni: scazzottate degne di Bud Spencer e Terence Hill. Gli articoli, tutti molto interessanti e riguardanti gli argomenti più vari e di interesse pubblico, ebbero le firme prestigiose di Pietro e Alessandro Verri, Cesare Beccaria, Pietro Secchi, Paolo Frisi, per citare i più autorevoli. Il comitato di redazione decise di rivolgersi ad un pubblico nuovo di lettori, non solo sapientoni e letterati, ma anche gente comune, piccoli professionisti, artigiani e donne. Questa fu una grande novità perché permise al sapere di uscire dalla torre d’avorio, dove, per secoli, era stato confinato, e di mettersi al servizio di tutti, secondo quel precetto tipicamente illuminista dell’uso intelligente della conoscenza per migliorare la società. Nei quattro fogli del Caffè, infatti, si poteva leggere tutto quello che era di interesse pubblico, dal commercio all’economia, dalla medicina all’agricoltura, dalla sanità alla politica.
Pietro Verri
Figlio del conte Gabriele e di Barbara Dati, nacque a Milano il 12 dicembre 1728. Il padre, col quale non ebbe mai un buon rapporto, fu molto severo, tanto da farlo studiare presso i collegi più terribili di Milano e provincia, esperienze che segnarono profondamente l’animo del giovane Pietro. Al ritorno in famiglia, i litigi col babbo ripresero più forti di prima, fino alla rottura definitiva, quando divenne l’amante di Maria Vittoria Ottoboni Boncompagni, moglie del duca Gabrio Serbelloni, gente molto in vista a Milano. Fu scandalo e il conte Gabriele, un alto funzionario del governo milanese, per lo scorno quasi non usciva più di casa. La relazione con la duchessa, donna molto colta e chic, instillò nel giovanotto la passione per il teatro e per la cultura francese, oltre che la voluttà nell’alcova. Il ménage con l’aristocratica amante, però, dopo qualche anno finì, lasciandolo così male da decidere di darsi alla vita militare, andando a combattere come ufficiale dell’esercito austriaco contro i prussiani. Al rientro a Milano fondò, col fratello Alessandro e i “pugili” della citata Accademia, Il Caffé e, allo stesso tempo, prese lavoro nell’amministrazione pubblica austriaca del capoluogo lombardo. A questi anni risale la composizione delle sue opere principali: le Meditazioni sull’economia politica, il Discorso sull’indole del piacere e del dolore, le Osservazioni sulla tortura, e i Ricordi a mia figlia, scritto per la figlioletta Teresa, nata proprio poche settimane prima. Posso dire con (quasi) certezza che, senza Pietro Verri e i suoi instancabili sforzi per la cultura e la sua diffusione, l’Illuminismo milanese sarebbe stato molto meno luminoso.
Alessandro Verri
Fratello minore di Pietro, nacque nel 1741 e fu più furbo del maggiore perché, per non farsi ammorbare oltremodo dal padre, molto presto, fece i bagagli e, dopo aver collaborato al Caffè, se ne andò a Parigi e Londra e, poi, a Roma, dove visse fino alla morte, nel 1816. Appassionato di teatro e lui stesso attore per diletto, fu uno dei primi a tradurre le opere di Shakespeare in italiano. Scrisse anche due romanzi, le Avventure di Saffo poetessa di Mitilene e la Vita di Erostrato. Avendo vissuto così tanto tempo lontano da Milano, pian piano, abbandonò lo spirito illuminista che aveva caratterizzato la prima fase della sua vita e ripiegò su visioni un po’ più cupe dell’esistenza, che saranno, poi, determinanti nel Romanticismo. Ne è prova una sua opera, le Notti romane al sepolcro degli Scipioni, scritto che compose in occasione del ritrovamento archeologico delle sepolture di quest’importante famiglia della Roma antica, in cui figura, che dalle tombe escano le ombre di romani illustri per discutere della grandezza e della rovina dell’impero più potente della Terra.
Cesare Beccaria
Il marchese Beccaria nacque a Milano nel 1738. Come Pietro Verri ebbe grosse e dure litigate con i genitori, a causa di una donna che, però, non era moglie di un nobile conosciutissimo, quanto una ragazza di famiglia povera, Teresa Blasco, che lui amò tantissimo e che, grazie anche all’aiuto proprio del Verri, il quale mediò con i suoi parenti, riuscì a sposare. Oltre ai contributi giornalistici al Caffè, Beccaria fece due cose importanti nella vita: la prima, diede i natali alla figlia Giulia, la futura madre di Alessandro Manzoni, e la seconda, scrisse Dei delitti e delle pene, un saggio che ebbe un successo esagerato in tutta Europa, tanto da farlo diventare l’idolo di molti dei filosofi dell’Illuminismo francese, in particolare di Voltaire. In questo trattato, colmo di spirito illuminista, Beccaria sostiene l’abolizione della pena di morte perché, a suo avviso, questa non fa né diminuire i crimini, né è buona come deterrente. “È più utile prevenire i delitti mostrando la certezza della pena – scrive l’autore – perché, per un criminale, è meglio morire che passare la vita in galera. Ma quando un ergastolano scappa dal carcere e mette in pericolo la vita dei cittadini, allora può essere messo a morte.” Questo libro dovrebbe rappresentare un articolo fondamentale della Costituzione di molti paesi del mondo, i quali, ahimè, evidentemente, ancora non hanno ancora visto o sentito parlare di Illuminismo.
Diciamo che non mi va più di occuparmi di futilità, diciamo anche che non vale la pena spendere le proprie energie quando nessuno ti ascolta o quando, alle spalle ti parlottano dietro e allora, coltivo i miei amori di sempre: filosofia, letteratura, arte, mi danno molto di più e mi aiutano a volermi un po’ più bene che non è cosa da poco.
Giovanni Cuter, “Furore e Redenzione”
Dunque: “Come ci insegna Adorno, anche la filosofia contemporanea può invecchiare. Le opere filosofiche più significative, dopo la morte degli autori, attraversano uno stadio intermedio in cui non sono né attuali, né canoniche e fluttuano in una dissoluzione spettrale. I temi che una volta si raccoglievano sotto un nome proprio, ora si svincolano da questo rappresentante, si decompongono e attraversano uno stadio che è simile a quello del compostaggio. Cominciano così a moltiplicarsi radicalizzazioni arbitrarie di singoli temi e nuove diverse combinazioni dei singoli elementi scomposti, e il resto sprofonda in un passato irrecuperabile. Soltanto nell’attimo della sua dissoluzione sembra mostrarsi veramente il modo in cui è costruita una sintesi filosofica. Questa analisi, che procede attraverso lo smontaggio, funziona anche se l’autore, come ad esempio Adorno, tenta di sottrarre il proprio testo a un tale destino, professandosi antisistematico (come oggi fanno un poco tutti n.d.r.). La decomposizione difatti non riguarda soltanto i sistemi propriamente detti, ma anche il pensiero informale, che riflette la sua struttura allentata, nel costituirsi non come sistema, ma come un’écriture”. Questo passo di Peter Sloterdijk è tratto dal suo testo “Non siamo stati ancora salvati. Saggi dopo Heidegger”, pubblicato per Bompiani nel 2004, tradotto da Anna Calligaris e Stefano Crosare, citato a pag. 185, con una bella prefazione di Pier Aldo Rovatti, il titolo originale è “Nicht gerettet. Versuche nach Heidegger”. Dunque, la filosofia invecchia ed è caduca come tutto, Sloterdijk, però, ci dice pure come essa continua la sua missione, attraverso la trasformazione dei suoi elementi costitutivi, fino ad una “redenzione informale”. “Così accadde dopo Hegel, dopo Husserl […], dopo Heidegger”, lo stesso Theodor Adorno, e con lui parte della Scuola di Francoforte, che voleva ritenersi immune da questa decomposizione, è stato forse il primo ad essere stato dimenticato con gli altri appartenenti della famosa scuola che tanto peso ebbe per le generazioni di studenti negli anni ‘60 e ’70. Per Adorno però, proprio perché fortemente contestualizzato, la dissoluzione della sintesi non avviene per il contrasto con i suoi successori, ma per “perdita di pressione” storica. Se l’aver coniugato Heidegger, Freud e Marx insieme con Hegel e Nietzsche era già molto bizzaro e improbabile, ora, dopo un quarto di secolo dalla morte di Adorno tutta quella riflessione appare addirittura improponibile. Cosa reste allora di quel pensiero decomposto? Cosa resta della grande rappresentazione della caduta della metafisica raccontata nella Dialettica negativa e poi insieme a Max Horchkeimer nella Teoria critica? Rimangono i resti trasformati di una teoria dell’arte, rimane solo l’opera d’arte e le sue possibili interpretazioni filosofiche come unico rifugio contro gli eccessi della metafisica, ma rimane anche – adattata alla odierna reificazione dei corpi e delle coscienze contemporanei – la lettura decostruita del suo capolavoro assoluto che, abbandonando il rigore della filosofia abbraccia l’ambigua doppiezza della letteratura: I “Minima Moralia“.
L’analitica del sublime in Kant, al di là di una critica del gusto, tenta una ridefinizione dei luoghi dell’apparizione. Così in questa foto:
La Piazza del Plebiscito 1953. Una giovane donna accovacciata accanto ad un bambino che piange. La giovane donna è elegante in un tailleur scuro (la foto è in bianco e nero, seppia ad essere precisi), sicuramente blu, ha capelli nerissimi raccolti, un sorriso con rossetto e una spilla d’argento sul bavero della giacca, sandaletti nabuck. Il bambino ha un completino – nella foggia di allora – calzoncini corti bianchi, scarpe di camoscio bianche e calzini, giacchino corto azzurro: guarda da qualche parte o sta per piangere spaventato, mentre un coppo di mangime per colombi si è rovesciato attirando attorno a sé i famelici volatili: il bambino ha due anni. Capelli biondissimi e occhi azzurri. Alle spalle la chiesa di S. Francesco di Paola che non appare ripresa e pochi passanti sullo sfondo ignari, mentre forse spaventato si tiene alla mamma nonostante la mamma gli stringa la mano. Ecco, il giudizio estetico attiene alla descrizione e la descrizione è una critica che va al di là della critica stessa, elaborando le condizioni della critica del giudizio. Questo è il giudizio estetico, il giudizio estetico sembra essere per Kant (immagine a destra) il giudizio per eccellenza. Questo giudizio è tale perché esso va al di là dell’oggetto stesso che descrive. Il pensiero è suscettibile di affettività e il giudizio estetico si pronuncia sullo stato del pensiero nel piacere o nel dispiacere entrambi gli stati fanno si che il pensiero elabori il giudizio di gusto. L’immaginazione è la potenza di una rappresentazione, qualunque essa sia. L’estetica kantiana si mantiene più distante dall’estetica di Baumgarten. E’ in questa distanza che il sublime arriva in una euforia che ci presenta un altro sentimento estetico di natura eterogenea rispetto a quello del bello. Può essere allora che il sublime sia un esempio perfetto del differente e la differenza è tutta nella capacità di pensare, di rappresentare e di andare oltre ciò che si rappresenta. Nel sublime accade che la ragione presenti un assoluto, l’immaginazione si sforza di trascendere l’oggetto rappresentato, ma non riesce a descriverlo, perché la ragione che determina l’immaginazione è – per Kant – limitata. Essa non è l’immaginazione romantica, non è la fantasia: l’immaginazione può comprendere, abbracciare, descrivere, ma rimane muta davanti al sublime.
Nella storia della letteratura mondiale vi è un capolavoro assoluto, scritto in tedesco, nel 1797, da Johann Christian Friedrich Hölderlin (immagine a sinistra), un testo in cui la tensione poetica non è inferiore a quella di autori considerati insuperabili, come Dante Alighieri e William Shakespeare. Quest’opera è Hyperion oder der Eremit in Griechenland (Iperione o l’eremita in Grecia). In essa, è narrata la storia del giovane eponimo greco il quale, tornato nella sua terra e trovatavi una situazione politica catastrofica, scrive all’amico Bellarmino, rimasto in Germania, raccontandogli le sue esperienze. Iperione vive nella metà del XVIII secolo nella Grecia Meridionale, immerso nella natura, dove, introdotto dal saggio pedagogo Adamas al mondo eroico di Plutarco e a quello incantato delle divinità greche, si appassiona alle antichità del suo Paese. Più tardi, conosce Alabanda, unico a condividere i suoi ideali riguardo un progetto di liberazione della sua patria, pur non condividendone la visione sul ruolo dello Stato. Poi, l’incontro con Diotima, a Kalaurea, della quale finisce per innamorarsi e che durante un viaggio, di fronte alle rovine di Atene, gli infonde la forza per tramutare i suoi ideali in azione. Il giovane, così, partecipa alla guerra di liberazione della Grecia dai turchi. La lotta, però, lo cambia profondamente: viene ferito gravemente, Alabanda deve fuggire perché ricercato e una lettera gli annuncia la morte di Diotima, consunta dal dolore perché lo crede morto. Iperione comincia a vagare senza meta e senza scopo. In Sicilia, alle pendici dell’Etna e, poi, in Germania. Decide, infine, di tornare in Grecia, dove inizia una vita di eremitaggio, scoprendo, ancora una volta, la bellezza della natura, nella quale risuona la voce della sua amata Diotima. Riesce, così, a superare la tragicità della sua solitudine. La poesia di quest’opera insegna ad amare la Grecia, terra dal cui spirito e da quello del cui popolo, parafrasando un altro grande connazionale di Hölderlin, Georg Wilhelm Friedrich Hegel, è nata tutta la nostra civiltà occidentale.