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Il dilemma del solipsismo

La solitudine della coscienza e la sfida dell’intersoggettività

 

 

 

 

Il concetto di solipsismo, centrale nella riflessione filosofica, viene affrontato da diversi pensatori con sfumature e prospettive differenti, portando a sviluppi teorici che variano dal riconoscimento dell’altro fino alla negazione di una realtà condivisa.
Innanzi tutto, il solipsismo è una teoria filosofica che sostiene che l’unica realtà certa e conoscibile sia quella della propria mente. Secondo tale posizione, tutto ciò che esiste al di fuori della propria coscienza potrebbe essere illusorio o inaccessibile. In altre parole, non possiamo avere una conoscenza diretta del mondo esterno o delle menti altrui, ma solo delle nostre percezioni ed esperienze soggettive. Questa teoria pone domande profonde sulla natura della realtà, della conoscenza e della coscienza e porta a riflettere sui limiti della nostra capacità di comprendere l’esistenza oltre il nostro punto di vista individuale. Sebbene il solipsismo sia raramente adottato come una visione globale del mondo, viene spesso utilizzato come strumento filosofico per esplorare i confini della percezione e della conoscenza umana.
Cartesio si confronta con il problema del solipsismo all’interno del suo progetto di fondazione della conoscenza sulla certezza indubitabile. Il celebre Cogito ergo sum (Penso, dunque sono) costituisce il punto di partenza per Descartes, poiché l’esistenza del pensiero proprio è l’unica verità immediata e autoevidente a cui il soggetto può arrivare senza possibilità di errore. Tuttavia, Cartesio si scontra con il limite di questo principio: se l’esistenza del proprio pensiero può essere affermata con certezza, non altrettanto può dirsi dell’esistenza degli altri. Il pensiero altrui, infatti, non può essere conosciuto con la stessa immediatezza e chiarezza con cui il soggetto conosce il proprio. Questo conduce a un solipsismo problematico in Descartes: se la certezza dell’esistenza è legata alla sola auto-coscienza, l’esistenza degli altri non può essere dimostrata con lo stesso rigore. Nonostante Cartesio tenti di uscire da questo vicolo cieco attraverso l’affermazione dell’esistenza di Dio come garante della realtà del mondo esterno, il problema resta irrisolto. L’Io cartesiano rimane, in una certa misura, prigioniero della propria soggettività, poiché non può accedere all’esperienza altrui con lo stesso grado di evidenza. Di qui, la tentazione del solipsismo, che non viene completamente eliminata dal progetto cartesiano.
Friedrich Nietzsche, invece, porta il discorso sul solipsismo verso un estremo esistenzialista. Nella sua visione nichilista, il solipsismo non è solo una condizione filosofica ma diventa una realtà esistenziale. La “morte di Dio”, ossia la crisi dei valori tradizionali e la perdita di ogni fondamento metafisico, porta all’annullamento di ogni verità comune e condivisa. In questo contesto, il soggetto si ritrova solo con se stesso, senza più una rete di significati comuni che possa mediare il suo rapporto con gli altri o con il mondo. Nietzsche arriva a un solipsismo radicale, dove l’individuo è costretto a costruire la propria realtà in assenza di verità universali. La solidarietà umana e la possibilità di una comune intesa vengono distrutte, poiché l’esistenza si riduce a una lotta per l’affermazione della propria volontà e dei propri valori. Il solipsismo nietzschiano è dunque una condizione di isolamento assoluto, in cui l’unica certezza è il proprio esistere come volontà di potenza. Questo annullamento di ogni traccia di natura comune porta, secondo Nietzsche, alla rivolta contro qualsiasi idea di universalità e alla glorificazione di un individualismo estremo, in cui non esiste altro che l’autorealizzazione dell’individuo.


Edmund Husserl, fondatore della fenomenologia, ha elaborato una riflessione approfondita sul tema del solipsismo, rivedendolo in una chiave che potrei definire “solipsismo trascendentale”. Secondo Husserl, il solipsismo non va inteso come una negazione dell’esistenza degli altri, ma piuttosto come un punto di partenza necessario per comprendere l’intersoggettività. Nel suo metodo fenomenologico, il ritorno dell’Io su se stesso (la reductio fenomenologica) è un passo fondamentale per cogliere la struttura della coscienza e l’originaria relazione del soggetto con il mondo. Questo movimento di ritorno, però, non chiude l’Io in un’autoreferenzialità assoluta; al contrario, proprio nel momento in cui l’Io si riflette su di sé scopre che la sua esperienza è sempre relazionale e aperta agli altri. Husserl sostiene che l’altro è costitutivo della soggettività individuale. La consapevolezza della propria esistenza è inseparabile dal riconoscimento dell’esistenza degli altri e solo attraverso l’incontro con l’altro l’Io può completare la propria esperienza del mondo. In questo senso, l’intersoggettività non è una semplice aggiunta alla soggettività singola, ma la sua condizione di possibilità: senza la presenza di altri Io, l’individuo non potrebbe formare una coscienza autentica di sé stesso. Si supera così il solipsismo per arrivare a una forma di intersoggettività più profonda e autentica, che costituisce la base della comunità umana.
Il solipsismo, tuttavia, ha implicazioni non solo epistemologiche ma anche etiche: se non posso affermare con certezza l’esistenza degli altri, che ruolo gioca la relazione interpersonale nella mia vita? Questo problema è stato affrontato da vari filosofi, da Kant, che cerca di superare il solipsismo con il concetto di dovere morale, fino a filosofi esistenzialisti come Sartre, che cercano di risolvere la questione attraverso l’esperienza concreta del conflitto e dell’incontro con l’altro.
A breve, percorrerò, in un articolo dedicato, anche questa variante etica del solipsismo.

 

 

 

Il caos creativo

Forza primordiale del divenire nell’ascesa
dell’uomo nietzschiano tra le stelle danzanti

 

 

 

 

La celeberrima frase di Friedrich Nietzsche, tratta da Così parlò Zarathustra, “Io vi dico: bisogna avere ancora un caos dentro di sé per partorire una stella danzante”, racchiude uno dei concetti chiave della sua filosofia: l’idea del caos come fonte creativa, una condizione necessaria per la trasformazione e l’elevazione dell’individuo.
Nel pensiero comune, il caos viene spesso associato alla distruzione, al disordine e all’incapacità di produrre qualcosa di strutturato. Per Nietzsche, invece, il caos ha una connotazione completamente diversa. Esso rappresenta l’origine del divenire, il terreno fertile da cui può sorgere una nuova creazione, un nuovo ordine superiore. Il caos, quindi, non è la negazione dell’ordine, ma una sua possibile condizione preliminare. È solo abbracciando il caos che l’individuo può superare i limiti imposti dalla tradizione e dalla morale comune.
L’immagine della “stella danzante” simboleggia la creazione di qualcosa di magnifico e vitale, che può nascere solo da chi è in grado di convivere con il disordine interno. In questo senso, il caos non è solo distruttivo, ma soprattutto generativo: è il principio dinamico che muove la vita e la crescita.
Il caos è strettamente collegato all’idea di superamento dell’uomo ordinario, concetto centrale nella filosofia di Nietzsche. Il superuomo (Übermensch) è colui che non si sottomette alle regole prestabilite, alle convenzioni morali o ai dogmi religiosi, ma che osa andare oltre, reinventando sé stesso. Questa trasformazione non può avvenire senza caos, senza il disordine e la rottura con il passato. Il superuomo è colui che accetta il caos dentro di sé come parte integrante del processo creativo.
Nel contesto di Nietzsche, il caos è, quindi, essenziale per l’autosuperamento: la vecchia morale deve essere distrutta per permettere la nascita di nuovi valori. Questo processo di demolizione delle vecchie strutture è doloroso e destabilizzante, ma necessario affinché l’individuo possa realizzare pienamente il proprio potenziale.
Un altro importante riferimento al caos nella filosofia nietzschiana è il legame con la figura mitologica di Dioniso, il dio greco dell’ebbrezza e del disordine, che rappresenta per Nietzsche la forza vitale e caotica della natura, in contrasto con Apollo, simbolo dell’ordine e della razionalità. Il filosofo vede in Dioniso il principio di vita più autentico, in cui il caos non è qualcosa da temere, ma una forza creativa e vitale da abbracciare.
In La nascita della tragedia, Nietzsche approfondisce il contrasto tra gli impulsi apollinei e dionisiaci, sottolineando come la vera arte e la vera vita nascano dall’equilibrio dinamico tra ordine e caos, tra forma e forza creativa. La vera saggezza risiede nella capacità di accettare e vivere con il caos, senza cercare di dominarlo o eliminarlo completamente.


Il caos nietzschiano è anche una metafora per la libertà individuale. Solo chi è disposto a rinunciare alla sicurezza di un’esistenza ordinata e prevedibile, accettando il rischio e l’incertezza del caos, può aspirare alla vera libertà. In un certo senso, il caos è il punto di partenza per l’autonomia dell’individuo. L’ordine precostituito, le regole sociali e morali imposte dall’esterno limitano la creatività e la libertà di chi aspira a qualcosa di più grande.
Nietzsche credeva che la cultura occidentale, con le sue radici platoniche e cristiane, avesse ridotto l’individuo a uno stato di passività e sottomissione. Per poter vivere autenticamente, era necessario rompere con queste catene e accettare il caos come una parte fondamentale della vita umana. Solo così si può ottenere la libertà creativa di “partorire stelle danzanti”.
Un altro concetto chiave della filosofia nietzschiana è l’idea dell’eterno ritorno, secondo cui ogni evento nella vita si ripete all’infinito. Questo concetto è spesso interpretato come un’ulteriore manifestazione del caos: l’idea che non vi sia un ordine lineare e predeterminato nell’universo, ma piuttosto un ciclo caotico e imprevedibile di eventi. L’eterno ritorno invita l’individuo a vivere ogni momento della propria vita come se dovesse ripetersi all’infinito. Ciò richiede un’eccezionale forza interiore e la capacità di abbracciare il caos del divenire senza cercare rifugio in illusioni di stabilità o sicurezza. In questo senso, l’accettazione del caos è anche l’accettazione della vita nella sua pienezza, senza cercare di negarne la complessità e l’incertezza.
Per Nietzsche, dunque, il caos non è una condizione da temere o da evitare, ma piuttosto una forza necessaria per l’autosuperamento e la creazione. Solo abbracciando il disordine e l’incertezza, accettando la caducità dei valori prestabiliti, l’individuo può aspirare a realizzare il proprio potenziale creativo e a dare vita a nuove forme di esistenza.
La “stella danzante” è il simbolo di ciò che possiamo diventare solo se siamo disposti a vivere con il caos dentro di noi. Non è solo un’esortazione alla creatività, ma anche un invito a una vita autentica, libera dalle catene dell’ordine imposto e pronta a immergersi nel divenire continuo del mondo. Nietzsche ci chiede, in ultima analisi, di vedere il caos come il primo passo verso la libertà e la grandezza umana.

 

 

 

 

I postulati in filosofia

Fondamenti ineludibili del pensiero razionale e morale
da Aristotele a Kant

 

 

 

 

Il concetto di postulato riveste un ruolo fondamentale nel pensiero filosofico e scientifico, sebbene assuma significati diversi a seconda del contesto e dell’autore di riferimento. Nella riflessione filosofica, i postulati si configurano come assunzioni di base che, pur non essendo direttamente dimostrabili, sono necessarie per la costruzione di teorie e per la comprensione di alcune realtà che, altrimenti, rimarrebbero problematiche o inaccessibili.
Aristotele utilizza il termine postulato (in greco, aitêma) in riferimento ai princìpi che, pur non essendo dimostrabili, devono essere accettati come veri per poter spiegare determinati fenomeni o per fondare una teoria. Per Aristotele, i postulati sono premesse autoevidenti o che si accettano sulla base dell’esperienza e costituiscono il punto di partenza per l’indagine filosofica o scientifica. Nei suoi Analitici Secondi, il filosofo greco discute dei princìpi primi, ovvero quelle verità che non possono essere dimostrate a partire da altre premesse, ma che sono necessarie per poter formulare ulteriori dimostrazioni. Tra questi princìpi vi sono il principio di non contraddizione, che afferma che una proposizione non può essere vera e falsa allo stesso tempo ed è considerato uno dei postulati più basilari della logica aristotelica; il principio di identità, secondo cui ogni cosa è identica a se stessa (anche questo principio non è dimostrabile, ma viene accettato come evidente e necessario per la comprensione della realtà); il principio del terzo escluso, con il quale Aristotele afferma che, per ogni proposizione, o essa è vera, o il suo contrario è vero (questo principio è fondamentale per la logica e per il discorso scientifico, sebbene non possa essere dimostrato attraverso ulteriori ragionamenti). Per Aristotele, dunque, i postulati costituiscono le fondamenta stesse del pensiero razionale. Senza di essi, non sarebbe possibile alcuna dimostrazione scientifica o filosofica e devono essere accettati come veri, in quanto autoevidenti o comunque necessari per procedere nell’indagine della realtà.
Immanuel Kant, invece, introduce il concetto di postulato nell’ambito della sua filosofia pratica, in particolare nella Critica della ragion pratica. Secondo Kant, i postulati sono presupposti necessari, legati alle esigenze della moralità e della pratica, che permettono di ammettere ciò che la ragione teoretica non è in grado di dimostrare con certezza. In questo contesto, Kant afferma che esistono tre postulati fondamentali, che non possono essere provati dalla ragione pura, ossia dalla ragione teoretica e conoscitiva, ma devono essere accettati in quanto funzionali all’agire morale: l’immortalità dell’anima, secondo cui l’uomo deve poter presupporre l’immortalità dell’anima per giustificare la possibilità di una crescita morale infinita, un’idea che non può essere dimostrata ma che è necessaria per un sistema etico coerente; l’esistenza di Dio, postulato connesso alla necessità di una giustizia perfetta nell’universo morale (se Dio non esistesse, non vi sarebbe alcuna garanzia che la virtù e la felicità si congiungano necessariamente, il che renderebbe l’agire morale privo di una finalità ultima); la libertà, che è il presupposto dell’agire morale, senza il quale l’etica kantiana, basata sull’autonomia e sulla responsabilità dell’individuo, non avrebbe senso (anche se non è possibile dimostrare con certezza la libertà dell’uomo dal punto di vista teoretico, dobbiamo ammetterla come un presupposto pratico per giustificare la possibilità di un agire etico). Per Kant, dunque, i postulati sono strumenti attraverso cui la ragione pratica colma i limiti della ragione teoretica, permettendo di accettare l’esistenza di realtà come Dio, l’anima e la libertà. Questi non sono dimostrabili attraverso l’esperienza, ma sono indispensabili per giustificare la moralità e il senso della vita umana.
In un senso più generale, i postulati, sia in Aristotele che in Kant, svolgono una funzione epistemologica fondamentale: costituiscono le basi per giustificare altre realtà o tesi che, senza di essi, risulterebbero ingiustificabili. Che si tratti di princìpi logici e scientifici, come in Aristotele, o di presupposti morali, come in Kant, essi fungono da punti di partenza irrinunciabili per il pensiero umano. Pur non potendo essere dimostrati, non possono nemmeno essere negati senza compromettere l’intero sistema teoretico o pratico che ne dipende.
I postulati, pertanto, mettono in luce la necessità di accettare determinati princìpi non dimostrabili per poter sviluppare sistemi di pensiero coerenti e funzionali, svolgendo la funzione di presupposti ineludibili per la giustificazione di altre realtà o tesi, rappresentando, così, una componente essenziale del pensiero umano.

 

 

 

 

Giambattista Vico e l’umana perfettibilità

La trasformazione delle passioni in virtù

 

 

 

 

Il concetto di “umana perfettibilità” costituisce una delle idee più affascinanti e complesse della filosofia, in quanto tocca le corde profonde della capacità dell’essere umano di migliorarsi, di evolvere, non solo sul piano materiale, ma soprattutto su quello spirituale e morale. Giambattista Vico, filosofo napoletano del XVIII secolo, è stato uno dei pensatori che meglio ha saputo interpretare questo processo di trasformazione dell’uomo, intrecciando la sua riflessione sulla storia con un’affermazione decisa del potenziale umano.
Secondo Vico, l’uomo è intrinsecamente legato alla sua storia e alla cultura che lo circonda. La perfettibilità umana non è un semplice miglioramento lineare e progressivo, come sostenevano molti dei filosofi illuministi suoi contemporanei, ma è il risultato di un percorso ciclico e complesso. Vico, nella sua opera Principj di una scienza nuova d’intorno alla natura delle nazioni (1725), descrive lo sviluppo delle civiltà come un ciclo storico che attraversa tre stadi principali: l’età degli dèi, l’età degli eroi e l’età degli uomini. Questo ciclo non rappresenta una ripetizione meccanica della storia, ma un processo dinamico in cui l’umanità, attraverso la riflessione, l’azione e l’errore, è capace di apprendere e migliorarsi.
In questa visione, la perfettibilità umana non è quindi data una volta per tutte, ma è frutto di un processo di lotta continua tra spirito e natura, tra razionalità e passioni, tra caos e ordine. L’uomo, dice Vico, ha la capacità di trasformare le sue passioni in virtù, un’affermazione che contiene un potenziale etico straordinario. Le passioni, che spesso sono viste come forze negative o distruttive, possono invece essere canalizzate verso il bene, diventando il motore del progresso personale e collettivo.

Il concetto di “trionfo dello spirito sulle forze avverse della natura” in Vico assume una dimensione particolare. Per lui, la natura non è solo l’ambiente esterno, ma include anche le forze oscure che si agitano nell’animo umano, quelle pulsioni e passioni che possono portare alla corruzione o alla rovina. Ma proprio queste forze, se guidate dall’intelletto e dalla ragione, possono diventare fonti di virtù. L’uomo, pertanto, non è vittima passiva del mondo naturale o delle proprie passioni, ma possiede la capacità di dominare queste forze e di orientarle verso il bene.
Vico anticipa, in qualche modo, una visione che contrappone la spiritualità alla materialità, evidenziando come la vera grandezza dell’essere umano risieda nel suo spirito, nella sua capacità di riflettere, di creare, di dare significato al mondo. La “vittoria dello spirito sulla natura” rappresenta, pertanto, una forma di emancipazione non solo dal dominio delle forze naturali esterne, ma anche dal determinismo che ridurrebbe l’uomo a un semplice insieme di meccanismi biologici o economici, come avrebbero sostenuto i positivisti e i materialisti del XIX secolo.
Vico, inoltre, afferma con forza che la storia, la cultura e lo spirito umano non possono essere ridotti a semplici dati empirici o a spiegazioni puramente materiali. Egli vede nell’uomo un essere complesso, capace di creare significati, miti, lingue e leggi, che vanno oltre la semplice spiegazione scientifica. La “scienza nuova” che egli propone è una scienza della storia, una disciplina che cerca di comprendere l’evoluzione dell’umanità non solo attraverso fatti e numeri, ma attraverso le idee, le credenze e i simboli che l’uomo ha creato nel corso dei secoli.
Gli scettici tendono a mettere in dubbio la possibilità stessa di conoscere la verità. Per Vico, la verità non è qualcosa di esterno e oggettivo, ma è creata dall’uomo stesso nel suo interagire con il mondo e con gli altri. Egli coniò il famoso principio “verum ipsum factum” (il vero è il fatto), sostenendo che l’uomo può conoscere veramente solo ciò che ha fatto: la storia, la cultura, le istituzioni umane.
Il pensiero di Vico continua a essere rilevante anche nel mondo contemporaneo, in cui spesso si affronta la tensione tra il progresso tecnologico e scientifico e la dimensione umana e spirituale. La sua insistenza sulla capacità dell’uomo di trasformare il caos in ordine, di dare significato alla propria esperienza e di migliorarsi attraverso il conflitto tra passioni e ragione risuona fortemente in un’epoca in cui il rischio è quello di ridurre l’essere umano a una macchina priva di coscienza, dominata dalle leggi della produzione e del consumo.

 

 

 

 

Il paradosso del “nulla”

Come il vuoto dà forma all’universo

 

 

 

Il concetto di “nulla” è da sempre al centro di numerose riflessioni filosofiche, costituendo un tema di grande complessità concettuale. Il “nulla” non è semplicemente l’assenza di qualcosa, ma una vera e propria astrazione, difficile da definire in termini concreti. Uno dei più celebri tentativi di definizione lo dobbiamo al filosofo presocratico Parmenide, il quale lo contrappone radicalmente all’essere: “L’essere è, e non può non essere; il non-essere non è, e non può in alcun modo essere”. Questa affermazione esprime la convinzione che il nulla, inteso come totale assenza di esistenza, sia impensabile. Parmenide, infatti, nega la possibilità stessa del nulla: solo l’essere è, mentre il non-essere, ovvero il nulla, non ha alcuna possibilità di esistenza o di pensiero. Questa visione ha dominato gran parte della filosofia occidentale, stabilendo una dicotomia tra l’essere, percepibile e concreto, e il nulla, un concetto astratto e paradossale.
Nonostante l’apparente similitudine tra il nulla e il vuoto, questi due concetti non sono sinonimi. Il vuoto, infatti, ha una lunga storia di sviluppo, sia in ambito filosofico sia scientifico, e ha sempre mantenuto una certa distanza dal nulla parmenideo. In particolare, nell’immaginario occidentale moderno, si è spesso associato il vuoto al nulla, specialmente a partire dalla tradizione giudaico-cristiana, che afferma che l’universo sia stato creato “ex nihilo”, cioè dal nulla. Questa visione ha influenzato profondamente il pensiero culturale e cosmologico per secoli.
Tuttavia, nella fisica contemporanea, il vuoto non è affatto assimilabile al nulla. Al contrario, il vuoto è una realtà fisica ben definita: non si tratta di uno spazio completamente privo di materia o energia, ma piuttosto di una condizione in cui esistono fluttuazioni quantistiche e particelle virtuali che emergono e scompaiono in modo imprevedibile. La fisica quantistica, infatti, descrive il vuoto come un campo in cui le particelle possono apparire spontaneamente per brevi istanti di tempo, generando una certa quantità di energia. Quindi, il vuoto è tutt’altro che un’assenza totale: è una realtà dinamica e complessa, che rende possibile l’emergere della materia e delle forze fondamentali dell’universo.
Il concetto di vuoto, inoltre, ha profondi legami con lo zero, un’altra astrazione che ha avuto un ruolo fondamentale nello sviluppo della scienza e della matematica. Il termine “zero” deriva dal latino zephirum, che a sua volta è stato adattato dal termine arabo ṣifr, grazie ai contatti culturali tra il mondo occidentale e quello islamico. Tuttavia, furono gli indiani i primi a formulare il concetto di zero come una quantità matematica precisa, associata al vuoto.
Il primo uso documentato del concetto di zero-vuoto risale al 458 d.C., in un testo sanscrito chiamato Lokavibhaga, il cui significato letterale è “Le parti dell’universo”. È interessante notare come questo antico testo trattasse di cosmologia, suggerendo che fin dalle origini vi fosse una stretta connessione tra il concetto di vuoto e la nascita dell’universo. Questa associazione rifletteva una comprensione del vuoto non come un’assenza completa, ma come un terreno fertile dal quale poteva emergere la creazione. Nella visione indiana, lo zero non era qualcosa di negativo o di pericoloso, ma un elemento fondamentale per comprendere la struttura dell’universo, un concetto che avrebbe influenzato profondamente la scienza e la matematica nei secoli successivi.


Mentre nelle culture indiana e araba il vuoto e lo zero erano visti come concetti utili e perfino necessari, la filosofia greca antica aveva una visione molto diversa. Per i greci, l’idea di vuoto, così come quella di infinito e zero, era profondamente inquietante. Aristotele, per esempio, negava l’esistenza del vuoto, sostenendo che la natura “aborrisce il vuoto” (horror vacui). Questa paura del vuoto era legata alla convinzione che uno spazio privo di materia fosse illogico e destabilizzante per l’ordine cosmico.
Anche lo zero era visto con sospetto. Platone e Aristotele, tra gli altri, consideravano pericolosi quei concetti che sfidavano la logica lineare e razionale della filosofia greca. Per questo, lo zero e il vuoto furono relegati a un ruolo marginale nel pensiero occidentale per molti secoli. Solo con l’introduzione del pensiero scientifico moderno, a partire dal Rinascimento, queste idee furono rivalutate.
Tale diffidenza per lo zero e il vuoto ha avuto conseguenze durature nella cultura occidentale. La loro esclusione dal pensiero dominante è stata in parte responsabile di un ritardo nello sviluppo di concetti scientifici fondamentali, come l’infinito matematico e le teorie sull’origine dell’universo. Il pregiudizio culturale contro il vuoto e lo zero, in fondo, ha impedito per molto tempo una piena comprensione di come funzionano le leggi fisiche dell’universo.
Oggi, per comprendere pienamente il funzionamento dell’universo, è necessario superare questi pregiudizi culturali. La scienza moderna ha dimostrato che l’universo può emergere dal vuoto, grazie ai princìpi della fisica quantistica. Il modello cosmologico del “Big Bang”, ad esempio, suggerisce che tutto ciò che conosciamo è emerso da uno stato di densità infinita e spazio vuoto. Questa teoria rivoluzionaria sfida la visione tradizionale di un universo statico e immutabile e ci invita a ripensare il vuoto non come assenza, ma come potenziale creativo.
Il vuoto, dunque, è ben lontano dall’essere un concetto inutile o temuto. Esso rappresenta una condizione necessaria per il divenire, per la nascita e l’evoluzione dell’universo. L’idea che l’universo possa nascere dal vuoto non è solo una teoria scientifica, ma una profonda riflessione filosofica che ci porta a riconsiderare il nostro rapporto con l’esistenza e il nulla. Intendere questo concetto significa abbandonare le paure e i pregiudizi culturali che per millenni hanno limitato la nostra comprensione, aprendo nuove possibilità per sondare i misteri dell’universo e della realtà stessa.

 

 

 

Due trattati sul governo di John Locke

Vita, libertà e proprietà

 

 

 

Nel magnum opus Due trattati sul governo, pubblicata anonima nel 1690, John Locke tesse una tela intricata e raffinata di idee, che hanno plasmato i fondamenti del pensiero liberale moderno. Quest’opera non è un semplice trattato politico, ma attraversa l’essenza stessa della libertà e della legittimità politica, un inno ai diritti innati dell’individuo e alla sovranità del popolo.
Locke scrive contro il decoro di un’Inghilterra che si dibatte tra monarchia assoluta e le prime scintille di ribellione repubblicana. I suoi scritti emergono non solo come risposta alla tirannia, ma come luce guida verso un ordine basato sul consenso e sul riconoscimento dei diritti imprescindibili dell’uomo. Filosoficamente, Locke sfida l’idea del diritto divino dei re, sostenendo, invece, che il potere politico derivi dal consenso dei governati, un concetto rivoluzionario che ribaltava le strutture di potere esistenti.
Nel primo trattato, Locke intraprende una critica serrata e meticolosa delle teorie di Robert Filmer, un araldo del diritto divino dei re. Con una penna tanto incisiva quanto lo scalpello sul marmo, il filosofo decostruisce le argomentazioni di Filmer, mostrando come la sua visione sia non solo infondata, ma pericolosa per la costruzione di una società equa e giusta. Ma è nel secondo trattato che il cuore pulsante delle idee lockiane trova piena espressione. Lì, egli dipinge il ritratto di un governo ideale, radicato nel consenso e nella tutela dei diritti naturali. Quelle pagine rappresentano un manifesto per l’umanità, un chiaro promemoria che il vero scopo del governo sia il benessere dei suoi cittadini.
Locke è fermamente radicato nella tradizione del diritto naturale, che sostiene l’esistenza di diritti universali intrinseci all’essere umano, indipendenti da qualsiasi ordinamento statale. Questi diritti includono la vita, la libertà e la proprietà. Locke argomenta che ogni individuo abbia il diritto di proteggere questi aspetti fondamentali della propria esistenza e che sia compito primario del governo non solo rispettarli, ma garantirli. Se un governo fallisce nel proteggere questi diritti o, peggio, si rende autore di loro violazioni, il popolo non solo ha il diritto, ma il dovere morale di cambiare o rovesciare tale governo. Questa idea rappresenta una rottura radicale con le teorie del diritto divino e pone le basi per la moderna concezione della resistenza civile e della sovranità popolare.
Nel secondo trattato, inoltre, Locke delinea la sua visione del governo civile, ente creato dalla volontà collettiva dei cittadini, che si impegnano reciprocamente a rispettare e promuovere leggi fondate sulla ragione. Questo governo ha il dovere di essere imparziale e di agire nell’interesse del popolo, proteggendo i diritti individuali e promuovendo il bene comune.
Locke introduce anche il concetto di separazione dei poteri, una novità rispetto alla concezione più monolitica del potere tipica del suo tempo, che sarà poi sistematizzata da Montesquieu. Propone una distinzione tra il potere legislativo, il più importante per garantire leggi equanimi, e il potere esecutivo, responsabile dell’attuazione delle leggi. Questa distinzione mira a prevenire l’abuso di potere e a mantenere un equilibrio che protegga i diritti degli individui. Il governo, in questa visione, è limitato dalle leggi che esso stesso crea, un concetto rivoluzionario che anticipa le moderne democrazie costituzionali.

Uno degli aspetti più innovativi e influenti del pensiero di Locke riguarda la sua teoria della proprietà. Egli afferma che la proprietà nasca dal lavoro: utilizzando le proprie capacità e il proprio lavoro per trasformare le risorse naturali in beni utili, l’uomo acquisisce un diritto su di essi. Questa visione mette in luce il legame indissolubile tra libertà individuale e possesso, un concetto che ha profonde implicazioni politiche ed economiche, promuovendo l’idea di un mercato basato sui meriti individuali e sulla libertà.
Locke è stato spesso considerato quale strenuo sostenitore del contrattualismo, teoria che postula l’esistenza di un “contratto sociale” tra il governo e i governati. Questo contratto non è un accordo esplicito, ma un’intesa tacita secondo cui gli individui cedono una parte della loro libertà in cambio di protezione e ordine sociale. La legittimità di un governo, per Locke, dipende dalla sua capacità di salvaguardare i diritti fondamentali degli individui – come già accennato, la vita, la libertà e la proprietà – e dal consenso continuo dei governati. Al centro della filosofia di Locke, infatti, è la nozione dello stato di natura, un concetto filosofico in cui gli uomini vivono liberi e uguali, privi di un’autorità sovrana. Contrariamente a Thomas Hobbes, che descriveva lo stato di natura come una “guerra di tutti contro tutti”, Locke vede in esso una condizione di relativa pace e uguaglianza. Il passaggio dallo stato di natura al governo civile è motivato dalla necessità di proteggere i diritti individuali e di risolvere i conflitti che inevitabilmente emergono.
Locke non scrive in un vuoto teoretico, ma nel contesto della Gloriosa Rivoluzione del 1688 in Inghilterra, che vide l’abdicazione di Giacomo II e l’ascesa di Guglielmo d’Orange. Le sue teorie, quindi, non solo riflettevano le aspirazioni e le tensioni del suo tempo, ma offrivano anche una giustificazione filosofica per il cambiamento di regime, sostenendo il diritto del popolo a ribellarsi contro un sovrano tirannico che viola i diritti naturali.
La risonanza delle teorie lockiane non è relegata alle pagine di un libro o ai confini di un’epoca. Essa si estende attraverso i secoli, influenzando documenti fondamentali come la Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti del 4 luglio 1776, e le costituzioni di governi democratici in tutto il mondo. Locke non solo ha scritto di governo, ha fornito le fondamenta per una nuova alba della civiltà occidentale, un’era dove il governo esiste per servire il popolo, non per dominarlo.
Due trattati sul governo è un’opera che continua a illuminare il cammino verso la libertà e la giustizia. Locke, con la sua visione penetrante, rimane un faro di saggezza nel tumultuoso mare delle teorie politiche.

 

 

 

De l’infinito, universo et mondi di Giordano Bruno

Nel cuore dell’infinito: dialoghi sull’universo senza confini
e sull’uomo nell’abbraccio del cosmo

 

 

 

De l’infinito, universo et mondi (1584) costituisce una delle opere più affascinanti e radicali di Giordano Bruno, in cui il filosofo sviluppa le sue teorie cosmologiche, metafisiche e filosofiche. Questo testo, composto dall’autore nel suo “periodo londinese”, si articola come un dialogo suddiviso, a sua volta, in cinque dialoghi, una forma letteraria che riflette l’intento del filosofo di far convergere più voci, idee e prospettive, creando un discorso dinamico e interattivo. Bruno non si limita a esporre le sue dottrine, ma le mette in discussione attraverso le interazioni tra i vari personaggi e interlocutori, seguendo la tradizione dei dialoghi platonici.
Il primo tema cardine, che emerge già nel titolo, è quello dell’infinito. Bruno critica la concezione aristotelico-tolemaica di un universo finito e chiuso, limitato dalle sfere cristalline e governato da leggi statiche e immutabili. Propone, invece, un cosmo senza limiti, un’infinità che non solo sovverte le leggi della fisica del suo tempo, ma sfida anche le visioni religiose dominanti. Rifiuta l’idea di un mondo diviso tra la perfezione delle sfere celesti e l’imperfezione del mondo sublunare, affermando che l’infinito è ovunque e in ogni cosa. Non c’è un luogo “più elevato” rispetto a un altro; tutto è parte di una medesima realtà infinita. L’universo, quindi, non ha un centro e non ha confini, ma è un continuo, in cui ogni stella è un mondo e ogni mondo è abitato. Il primo dialogo, quindi, si snoda come una riflessione filosofica che, sebbene mascherata da questioni cosmologiche, nasconde una profonda implicazione metafisica: l’infinito non è solo spaziale, ma anche ontologico, un modo di pensare l’essere senza confini e senza gerarchie.


Il secondo grande tema di De l’infinito, universo et mondi è la teoria della pluralità dei mondi. Bruno rifiuta con forza l’idea che esista un solo mondo abitato, quello terrestre. I mondi sono infiniti, così come infiniti sono gli esseri che li abitano. Questa concezione non è soltanto una visione cosmologica rivoluzionaria, ma una sfida aperta alla teologia cristiana del tempo, che poneva la Terra e l’uomo al centro della creazione divina. Nella struttura dialogica dell’opera, l’autore non si limita a una mera esposizione scientifica; egli tratta la pluralità dei mondi come un’allegoria filosofica: la molteplicità del reale è specchio dell’infinita creatività dell’universo. Ogni mondo ha la sua propria natura, le sue leggi, i suoi abitanti, eppure tutti fanno parte dello stesso ordine universale. È come se Bruno intendesse dire che non esiste un “modello unico” di realtà, ma molteplici forme dell’essere, tutte ugualmente valide e degne di considerazione.
Altro aspetto centrale dell’opera è la critica all’antropocentrismo. Il filosofo smonta l’idea che l’uomo sia il fine ultimo della creazione o il punto focale dell’universo. Se l’universo è infinito, l’uomo non può essere il centro né il più importante tra gli esseri. Al contrario, è soltanto una parte di un cosmo immenso, in cui infiniti altri esseri vivono e si evolvono secondo leggi proprie. In questa visione, Bruno anticipa una nuova concezione dell’uomo e della sua posizione nel mondo, molto più umile e consapevole dei propri limiti. L’antropocentrismo crolla sotto il peso dell’infinità cosmica e della pluralità dei mondi, lasciando spazio a una visione più ecumenica, in cui tutte le forme di vita partecipano alla stessa grandezza dell’universo. Questo concetto è legato a una profonda riflessione etica e spirituale: l’uomo deve riconoscere la propria “piccolezza” e comprendere che la sua esistenza è parte di un ordine cosmico più vasto. La visione bruniana è quella di un cosmo vivente, in cui ogni cosa, ogni essere, è espressione di una divinità che pervade tutto, ma che non si manifesta in una forma rigida e prescrittiva, come nelle teologie tradizionali.
Un altro elemento fondamentale dell’opera è la dottrina panteistica, che Bruno sviluppa con grande forza nei vari dialoghi. Per lui, Dio è l’anima stessa dell’universo, non un’entità trascendente, ma una forza immanente che permea ogni cosa. Dio non è separato dalla creazione, ma è la sostanza stessa dell’infinito. Questa visione ribalta la tradizionale distinzione tra Creatore e creazione, tipica della teologia cristiana. Bruno non teme di propinare una visione eretica per il suo tempo: la divinità non è un re distante che governa dall’alto, ma è il principio vitale che scorre in ogni atomo, in ogni stella, in ogni essere vivente. L’infinito cosmico è, in un certo senso, la manifestazione del divino, ed è qui che si scorge il profondo spirito mistico che anima la sua filosofia.
Infine, Bruno conclude il suo percorso con una riflessione etica. Se l’universo è infinito e ogni essere fa parte di questo immenso organismo cosmico, allora ogni atto umano deve essere orientato verso l’armonia con l’universo stesso. La vera saggezza consiste nel riconoscere l’unità del tutto e nel vivere in accordo con la natura infinita dell’universo. L’uomo non deve più agire per imporre il suo dominio su una natura inferiore, ma per inserirsi in essa con rispetto e consapevolezza.
Con De l’infinito, universo et mondi, Giordano Bruno ci consegna un’opera complessa e rivoluzionaria, che non solo sfida le concezioni cosmologiche del suo tempo, ma sostiene una visione radicalmente nuova dell’essere umano, della natura e del divino. Con la sua struttura dialogica e le sue dottrine innovative, Bruno non solo anticipa molte delle teorie scientifiche moderne, ma apre la strada a una riflessione esistenziale che ci invita a ripensare il nostro posto nell’universo, non più come dominatori, ma come partecipanti di un infinito meraviglioso e misterioso.

 

 

 

 

Voltaire sferza Rousseau

L’ironia dell’Illuminismo contro i sogni del “selvaggio”

 

 

 

 

Voltaire (François-Marie Arouet) e Jean-Jacques Rousseau sono stati due dei più grandi pensatori dell’Illuminismo francese, ma le loro visioni del mondo e della società si contrapponevano in modo netto. Questo dissenso intellettuale sfociò in diverse prese in giro da parte di Voltaire nei confronti del sistema filosofico di Rousseau, con un tono spesso satirico e pungente.
Rousseau sosteneva una visione romantica della natura umana e della società. Nei suoi scritti principali, come Il contratto sociale e Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza tra gli uomini, esprimeva l’idea che l’uomo fosse naturalmente buono, ma corrotto dalla società. Egli immaginava uno “stato di natura” in cui l’uomo viveva libero, in armonia con sé stesso e con gli altri, prima di essere incatenato dalle convenzioni sociali e politiche moderne.
Voltaire, dall’altro lato, era un convinto sostenitore del progresso civile, della scienza e della ragione. Non vedeva l’uomo “naturale” come idealizzato da Rousseau e, anzi, sosteneva che il progresso della civiltà fosse essenziale per il miglioramento delle condizioni umane. Questo scontro tra la visione idealista di Rousseau e quella pragmatica di Voltaire costituiva la base delle loro divergenze.
Voltaire, maestro dell’ironia, non risparmiò Rousseau da commenti sarcastici e battute velenose. Le sue critiche più celebri si concentrano soprattutto sull’idea dello “stato di natura” e sulla visione utopistica di una società primitiva.

In una famosa lettera, scritta nel 1755, dopo aver letto il Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza, Voltaire ironizzò dicendo: “Signore, ho ricevuto il vostro nuovo libro contro il genere umano e ve ne ringrazio. Piacerete agli uomini cui dite le verità che li riguardano, senza peraltro correggerli. Vi rappresentate con colori molto persuasivi gli orrori della società umana, la cui ignoranza e debolezza si ripromettono tante delizie. Nessuno ha mai impiegato tanto ingegno per farci diventare bestie. A leggere il vostro libro viene voglia di andare a quattro zampe. Ma avendone sfortunatamente persa l’abitudine da più di sessant’ anni, mi è impossibile riprenderla ora e lascio questa andatura naturale a coloro che ne sono più degni di voi e di me”. Con queste battute, Voltaire prendeva in giro l’idealizzazione del “buon selvaggio” di Rousseau, sottolineando l’assurdità di un ritorno a uno stato primitivo. Inoltre, considerava le conquiste della civiltà – dall’arte alla scienza – come segni del progresso umano, mentre ridicolizzava l’idea di abbandonarle per vivere in uno stato di “purezza” pre-civile.
Quando Rousseau pubblicò Il contratto sociale, nel 1762, Voltaire lo trovò ingenuo e utopistico. Egli credeva che la visione di Rousseau di una società governata dalla “volontà generale” fosse una sorta di illusione pericolosa, destinata a fallire se applicata alla realtà politica. Anche se Voltaire non formulò attacchi diretti in forma pubblica come in altri casi, è noto che fece battute sarcastiche nei salotti parigini, ridicolizzando la pretesa di Rousseau di riformare la società basandosi su idee astratte e poco pratiche.
Anche se Candido (1759) di Voltaire non è un attacco diretto a Rousseau, il romanzo contiene diversi passaggi che prendono di mira le filosofie utopistiche in generale, tra cui quella di Rousseau. Nel personaggio del filosofo Pangloss, che sostiene che viviamo “nel migliore dei mondi possibili” (qui è chiara la critica alla filosofia di Leibniz), Voltaire ridicolizza l’ottimismo filosofico, mostrando le sue assurdità di fronte alla crudeltà e alle sofferenze del mondo reale. Anche Rousseau, con la sua visione utopistica di una società ideale e naturale, è implicitamente bersagliato in questo attacco.
Voltaire sostenne in vari scritti che la civiltà, pur con i suoi difetti, è ciò che ha reso possibile lo sviluppo di istituzioni giuste, la libertà di espressione e l’arte. In un certo senso, ogni suo elogio alla civiltà era una risposta ironica al disprezzo di Rousseau per la società moderna. Voltaire trovava insensato voler tornare a una presunta purezza originaria e amava scherzare sull’idea che vivere come “selvaggi” potesse essere in qualche modo preferibile alla civilizzazione.
Le prese in giro di Voltaire verso Rousseau rivelano la profondità della loro divergenza filosofica. Con la sua arguzia e il suo sarcasmo, Voltaire non solo smontava le teorie di Rousseau, ma sottolineava anche la complessità e le contraddizioni insite nelle utopie filosofiche. In un certo senso, questo scontro intellettuale rappresenta l’anima stessa dell’Illuminismo, un periodo di grandi idee e dibattiti accesi sul destino dell’umanità.

 

 

 

 

L’eterno conflitto di Nietzsche

Spirito inquieto e forma irrealizzata

 

 

 

 

Nelle sue lunghe passeggiate solitarie, particolarmente nella natura incontaminata di Sils-Maria, Nietzsche trovava non solo uno spazio di riflessione ma anche un modo per lenire le sofferenze fisiche e psicologiche che lo affliggevano. Il Nietzsche, poi, delle serate conviviali a casa di Malwida von Meysenbug, circondato da amici e intellettuali, sembra quasi ingenuo, distante dal filosofo titanico e tormentato che emerge dai suoi scritti più tardi.
Nietzsche, come uomo, è stato certamente malato, ma ciò che ha aggiunto alla storia universale e alla filosofia trascende ogni dolore fisico. Il suo pensiero, radicato nel profondo dell’esperienza umana, si eleva sopra la condizione corporea, superando le limitazioni della malattia. In questo, esemplifica una tensione centrale della sua filosofia: il conflitto tra spirito e corpo, tra ciò che è spirituale e ciò che è fisico. Per Nietzsche, lo spirito – inteso come forza creativa e vitale – non può essere contenuto dalle debolezze del corpo; esso aspira sempre a qualcosa di più alto, a una dimensione che trascende le sofferenze materiali.


Il conflitto nietzschiano è, in un certo senso, un martirio. La vita del filosofo solitario a Sils-Maria assume tratti quasi sacri, come se egli fosse un martire della propria ricerca interiore. Questo conflitto tra spirito e forma non è solo un tema filosofico astratto, ma si riflette concretamente nella vita di Nietzsche. Da un lato, vi è lo spirito, che il cristianesimo ha scoperto e definito come una realtà in continua trasformazione: uno spirito che non muta cessa di essere tale, perché la sua essenza è quella di una forza dinamica, instancabile, sempre in divenire. Dall’altro lato, vi è la forma, che rappresenta l’ordine, la quiete, la stabilità delle figure ben delineate.
Questo contrasto può essere interpretato come una lotta tra due tradizioni culturali: quella occidentale, caratterizzata dallo spirito assoluto e inquieto, e quella greca, in cui predomina il cosmo, il mondo delle figure e delle forme. Nella tradizione occidentale, e in particolare nella cultura europea, lo spirito è visto come una forza creativa, illimitata e in costante evoluzione. Nietzsche, con la sua concezione del superuomo e della volontà di potenza, incarna questo spirito irrequieto, che rifiuta ogni forma statica e cerca continuamente di superare se stesso.
Dall’altro lato, la cultura greca, da cui Nietzsche trasse molta ispirazione, era basata su un’idea di equilibrio, di bellezza e di ordine cosmico. Il mondo greco era un mondo di figure definite, di forme armoniche che riflettevano una visione del mondo stabile e comprensibile. Nietzsche, tuttavia, non riuscì mai a trovare una sintesi tra questi due poli. La sua vita stessa testimonia questa contraddizione: da una parte, la tensione infinita dello spirito, dall’altra, l’incapacità di trovare una forma adeguata per contenere e ordinare questa forza creativa.
Nella cultura latina, lo spirito è visto come una “luce intellettuale piena d’amore”, una forza che illumina e guida. Nella tradizione germanica, invece, lo spirito è qualcosa di più oscuro, demoniaco e informe, un impeto vitale che si afferma da sé ma che ha bisogno di una forma esterna per trovare una direzione. Nietzsche incarnava questa seconda visione: la sua vita fu una lotta incessante per dare una forma alla sua forza interiore, un tentativo che, in ultima analisi, fallì. Non riuscendo a trovare una forma stabile per la sua vita, finì per autodistruggersi, vittima del suo stesso slancio vitale incontrollato.
In questo contesto, il riferimento a Dioniso diventa centrale. Dioniso, il dio della vitalità caotica, della trasgressione e dell’ebbrezza, rappresenta per Nietzsche una forza primordiale e creativa, ma anche pericolosa. Il filosofo si identificò con questa figura, ma allo stesso tempo si trovò incapace di integrare la potenza dionisiaca nella struttura ordinata del mondo occidentale. Il fallimento di Nietzsche nel trovare una forma per il suo spirito dionisiaco segnò la sua fine. Dioniso, perso nel mondo occidentale, non fu in grado di offrirgli una figura chiara e definita, lasciandolo in balìa delle sue stesse contraddizioni.
Il destino oscuro di Nietzsche, segnato dalla follia negli ultimi anni della sua vita, sembra quasi inevitabile alla luce di questa tensione irrisolta. Forse è proprio in questa lotta senza esito che si trova il senso ultimo della sua esistenza: una vita dedicata a un ideale irraggiungibile, un conflitto tra forze opposte che non trovano mai una sintesi.
Lou Salomé, la figura femminile che attraversò la vita di Nietzsche, rappresenta un altro elemento chiave di questa dinamica. Passò accanto a lui come una “stella errante in una notte d’agosto”, una presenza luminosa ma distante, che non poteva mai diventare veramente parte della sua vita. Per Nietzsche, forse, Salomé rappresentava un ideale di ordine e armonia, una figura che avrebbe potuto dare una forma alla sua esistenza caotica. Ma Salomé rifiutò questo ruolo. Non accettò di penetrare nel cerchio di caos di Nietzsche, né di dare un ordine alla sua esistenza.
Questo rifiuto lasciò Nietzsche solo con il suo conflitto interiore. Salomé, che per lui poteva essere una sorta di stella fissa, una guida stabile in un mondo di disordine, rimase una figura lontana, irraggiungibile. La sua distanza permise a Nietzsche di proiettare su di lei il suo ideale, ma allo stesso tempo lo condannò a una solitudine ancora più profonda. In questo senso, l’amore non consumato e irraggiungibile per Lou Salomé può essere visto come una metafora dell’intera esistenza di Nietzsche: un desiderio impossibile da realizzare, ma che proprio per questo rimane una verità eterna, una “grande menzogna” che continua a essere impossibile per sempre.
La vita di Nietzsche testimonia la tragicità del suo pensiero: una tensione tra forze opposte un conflitto tra spirito e forma, tra caos e ordine, che rimane irrisolto fino alla fine.

 

 

 

 

La metamorfosi del rapporto tra filosofia e scienza

 Dalla metafisica seicentesca ai mondi creati dalla tecnica

 

 

di Riccardo Piroddi

 

 

 

Nel Seicento, all’interno dei grandi sistemi filosofici di Spinoza e Leibniz, la metafisica occupava una posizione centrale e privilegiata, costituendo il fondamento per ogni altra forma di conoscenza, compresa la scienza. La filosofia non si limitava a riflettere sui princìpi primi, ma forniva anche un quadro complessivo entro il quale la scienza trovava il suo posto. La metafisica, in altre parole, comprendeva ancora al suo interno lo scientifico, considerandolo come uno dei suoi rami. In questa prospettiva, la scienza era come una branca dell’albero secolare della filosofia, con la metafisica che fungeva da radice e tronco. Tuttavia, questo schema unitario iniziò a frantumarsi con la filosofia di Kant e i suoi sviluppi successivi.
Con Kant, infatti, si verificò una svolta decisiva: la filosofia perse il ruolo di fondamento ontologico della scienza e si trasformò in una riflessione sui presupposti del sapere scientifico. Kant cercò di comprendere e illuminare le basi dell’indagine scientifica, sforzandosi di trovare un’unità tra le varie manifestazioni del sapere. Tuttavia, l’approccio kantiano segnò il passaggio a una nuova epoca, in cui la filosofia non poté più pretendere di fondare la scienza in modo totalizzante. Non vi era più un unico tronco metafisico dal quale diramavano le scienze, ma piuttosto una molteplicità di rami, sempre più complessi e specializzati, che la filosofia cercava di comprendere. L’obiettivo della filosofia diventò, quindi, sempre più conoscitivo, ovvero un tentativo di trovare un senso e un ordine nelle diverse branche della scienza, senza, però, avere il potere di unificarle sotto un unico principio metafisico.
Il compito della filosofia si fece, allora, maggiormente arduo, e forse impossibile, man mano che le scienze progredivano e si frammentavano in specializzazioni più minute e indipendenti tra loro. Oggi, i rami delle scienze sembrano essersi distaccati dal tronco, rendendo difficoltoso alla filosofia riunirli e dare loro un significato complessivo. La scienza, con i suoi sviluppi tecnici e le sue molteplici applicazioni, si è emancipata dalla filosofia, creando mondi artificiali che spesso sostituiscono il mondo naturale, come dimostra il progresso tecnologico, che ha trasformato radicalmente le nostre vite. Si pensi, per esempio, a una stazione spaziale, dove ogni oggetto è il frutto di una produzione tecnica umana, lontana dalla natura originaria.


Questa emancipazione della scienza dalla filosofia si è consolidata con la Rivoluzione Industriale, nel Settecento, un periodo in cui la scienza iniziò a mostrare il suo volto tecnico e produttivo, non limitandosi più a essere un sapere teorico. La scienza non solo spiegava il mondo, ma, attraverso la tecnica, iniziava a costruire nuovi mondi. Questo cambiamento epocale portò a un’inversione di ruoli tra scienza e filosofia. Se un tempo la scienza derivava dalla filosofia, oggi è la filosofia che deve confrontarsi con le innovazioni prodotte dalla scienza. I mondi creati dalla tecnica non sono soltanto nuovi oggetti, ma trasformano profondamente le strutture sociali, economiche, politiche e ambientali, ridefinendo le condizioni di vita dell’uomo. La scienza non si limita più a esplorare il mondo, ma lo modifica profondamente, generando nuovi contesti di esistenza che la filosofia è chiamata a interpretare e comprendere.
Questa trasformazione della filosofia si riflette nel modo in cui grandi pensatori del Novecento, come Heidegger, si sono allontanati dalle vecchie forme sistematiche della metafisica per cercare il senso dell’esistenza umana attraverso il dialogo con la poesia. Il linguaggio filosofico è divenuto più agile, intuitivo e libero, meno rigido e deduttivo rispetto al passato. Filosofi come Pascal, con i suoi Pensieri, e Nietzsche, con il suo uso dell’aforisma, avevano già indicato questa strada, prediligendo un linguaggio capace di esprimere intuizioni profonde senza essere intrappolato in rigidi schemi logici. La filosofia si è aperta, così, a linguaggi più poetici e metaforici, dialogando con grandi poeti come Leopardi, Rilke e Trakl, per cercare risposte a domande esistenziali che le scienze non possono affrontare.
In questo nuovo ruolo, la filosofia accetta la sua condizione di riflessività, riconoscendo che la scienza ha ormai ereditato il linguaggio razionale e logico che un tempo apparteneva alla metafisica tradizionale. La filosofia, liberata dal compito di unificare il sapere scientifico, diventa lo spazio in cui l’essere umano può interrogarsi sul significato profondo delle trasformazioni indotte dalla scienza, esplorando nuovi modi di esistenza e cercando risposte alle domande più profonde sul senso della vita e del mondo.