Thomas Hobbes, ritenendo la politica non mera gestione degli affari pubblici, la reputa, invece, quale fondamentale risposta alla natura intrinsecamente violenta e caotica dell’essere umano. A differenza delle teorie politiche a lui precedenti, che sovente consideravano la società come un riflesso dell’ordine naturale o divino, rompe con questa tradizione, proponendo una visione radicalmente nuova: l’uomo, nello stato di natura, è in perenne conflitto, una “guerra di tutti contro tutti”. Per uscire da questo stato di anarchia, gli individui scelgono di stipulare un patto sociale, un accordo collettivo in cui rinunciano a parte della loro libertà in cambio di protezione e ordine. In tale contesto, pertanto, la politica diventa l’arte di costruire e mantenere uno Stato forte e centrale, un Leviatano, capace di esercitare un potere assoluto. Questo potere, concentrato nelle mani di un sovrano, è l’unico baluardo in grado di garantire ordine, stabilità e sicurezza, prevenendo il ritorno al caos primordiale e alla violenza.
Niccolò Machiavelli, teorizzando la necessità per il principe di essere “golpe” oltre che “lione”, ovvero affermando l’indispensabilità (e, per questo, la legittimità) del ricorso alla menzogna e all’inganno finalizzati al superiore interesse della costruzione dello Stato, spezzò il legame etico-razionale della Verità con il Diritto e assestò alla “scientia juris” un colpo mortale. Ecco perché, al di là di tutte le implicazioni, anche morali, il fiorentino può e deve essere considerato il padre della moderna scienza politica.
Nell’impetuosità delle pagine di De gli eroici furori di Giordano Bruno si avvertono echi del tempo passato e di idee eterne, risonanti ancora oggi nella vastità del pensiero umano. Quest’opera, redatta tra il 1583 e il 1585, durante il soggiorno in Inghilterra, rappresenta uno dei massimi vertici creativi del filosofo nolano. Bruno, “eretico” e rivoluzionario, sfidava il dogmatismo chiuso della sua epoca con una visione cosmologica audace, che poneva l’infinito al centro dell’universo tanto che le sue idee, espresse con ardore poetico in queste pagine, sfioravano l’eresia agli occhi della Chiesa. De gli eroici furori si configura, così, non solo come testo filosofico ma anche come atto di coraggio intellettuale, in un’epoca di grandi tensioni tra il potere temporale della religione e la nascente curiosità scientifica. Attraverso il dialogo tra il protagonista, Tansillo, e il suo interlocutore, il Nolano, alter ego dello stesso Bruno, questi percorre la tensione tra l’intelletto e l’amore, tra la conoscenza umana e quella divina. Il furoreroico è quel fuoco interiore che spinge l’individuo a superare i limiti terreni e aspirare all’unione con l’Infinito, con l’Assoluto. Bruno, con un linguaggio che sfiora il divino, eleva l’amore da semplice passione a strumento di conoscenza suprema, tramite il quale l’anima può ascendere alle verità più alte. Nell’opera, articolata in due libri, il dialogo fluisce giungendo fino alle profondità della filosofia e dell’esperienza umana. Primo Libro: l’ascesa verso la conoscenza Dialoghi I-II: il primo introduce il concetto di furor, ispirazione o estasi che trascende la razionalità ordinaria. Bruno discute la natura del furor divino, legandolo all’idea platonica dell’amore che eleva l’uomo oltre il materiale. Il secondo dialogo esamina i differenti tipi di furori: il profetico, il poetico, il divinatorio e l’eroico, con un focus particolare su quest’ultimo, considerato il più alto grado di estasi e di conoscenza. Dialoghi III-V: sono dedicati all’amore e al suo ruolo nel condurre l’anima alla verità. L’amore è mostrato come una forza che muove l’intelletto e purifica l’anima, rendendola capace di ricevere e interpretare il furoreroico. Bruno adopera esempi mitologici e storici per illustrare come l’amore elevi la persona, permettendole di superare le limitazioni umane e raggiungere una comprensione più profonda dell’esistenza.
Secondo Libro: la natura dell’intelletto e l’amore eroico Dialoghi I-II: nel secondo libro, Bruno approfondisce il rapporto tra l’intelletto e il furor eroico. L’intelletto, secondo il filosofo, ha il potere di vedere oltre le apparenze e di percepire la verità universale, ma solo quando è guidato dall’amore eroico. Il primo dialogo si concentra sulla potenzialità dell’intelletto umano, il secondo tratta come l’amore possa essere utilizzato per guidare quest’intelletto verso realizzazioni superiori. Dialoghi III-V: l’ultima parte dell’opera approfondisce il processo attraverso il quale l’uomo può trasformarsi e ascendere a uno stato di conoscenza e comprensione superiore. Bruno descrive l’itinerarium animae, il suo distacco dalle cose terrene e il suo innalzamento verso l’infinito, mediato dall’amore eroico. L’ultimo dialogo culmina in una esaltazione della capacità dell’individuo di unirsi al divino, attraverso l’intelletto e l’amore, raggiungendo una forma di immortalità spirituale. Il furioso in De gli eroici furori è colui il quale, posseduto da una passione trascendente che lo porta a superare i limiti della ragione umana ordinaria, tocca il divino. Questi è il vero filosofo, l’amante della sapienza nel senso più platonico del termine, che usa l’amore come veicolo per l’ascesa spirituale e intellettuale. Il furioso è altresì un eroe nel vero senso della parola, poiché lotta contro le convenzioni e le limitazioni del suo tempo e della società in cui vive per perseguire la verità ultima. L’opera è intrisa di una poesia intensa e visionaria, un tessuto linguistico che avvolge il lettore e lo trasporta oltre i confini del razionale. Bruno utilizza il dialogo come forma espressiva che permette una polifonia di voci, di pensieri, di intuizioni, rendendo il testo un vivace crogiolo di idee filosofiche esposte con un vigoroso impasto lirico. La sua stessa struttura, con i suoi dialoghi e le sue poesie, riflette la complessità del cammino umano verso la conoscenza, un percorso denso di ostacoli ma anche di sublime bellezza. De gli eroici furori è un canto dell’anima che si eleva audace oltre i limiti imposti, una celebrazione del potere dell’intelletto e dell’amore eroico. Bruno traccia una mappa del cosmo dell’anima umana e consegna una visione profetica di un universo in cui ogni stella e ogni pensiero brilla di luce propria. In queste pagine, il lettore è invitato a un viaggio che è insieme esplorazione del cosmo e introspezione, un viaggio che non conosce confini né tempo.
These my brand-new reflections on geopolitics present it as a philosophical field, emphasizing the influence of geography on political strategies and the impact of geopolitical actions on collective identities and human conditions. It integrates classical philosophical thoughts on power and State acts, aiming to deepen the understanding of nations’ strategic behaviours and ethical considerations. This reflective approach seeks to enhance insights into global interactions and the shaping of geopolitical landscapes.
The Geo-Philosophy
Part IV
Geophilosophy, in itself and in relation to what produces it, is therefore, first of all, a thought of the outside. This is because it has in the “outside” the only philosophical ground from which to draw its start; such a “start” is “unique” because any other ground would be, and is in fact, precluded to it, from the exclusion from which it comes: the almost nothing of heterogeneous existence and provincial thoughtfulness. In trying to reach a certain understanding of its theoretical consistency and its cultural role, geophilosophy thus comes to think of the place of its Herkunft, which means both belonging and provenance, as the fruit of a meiotic activity within a space of immanence. The mechanisms of exclusion and removal proper to meiotic activity destine a part of being to rejection: it is meiosis that produces that secluded region that constitutes, within the totality of things seen, organized, transmissible, and sensible, a Mërtvogo doma, a dead house, a closed region of the heterogeneous that resembles nothing, with its own laws, its own customs, with a life that does not exist anywhere else, where one can suppose that there is no crime that does not have its representative there, where the existing forces, there cohabiting under duress, are put to work under the threat of the stick, but without such employment having any purpose, its only purpose being instead to deceive the wait. A house where one can therefore learn patience in anticipation of being either enabled to join the bright world beyond, or at least pointed out by it as a mere moral reminder. A dwelling in every way similar to that prison of which Dostoevsky not only sculpted the figures, but also the dynamics, the chemical reactions, the vital functions, and the global dysfunction—the Other, for geophilosophy, is not high (Evola), but low (Nietzsche). The zero degree of exclusion corresponds, however, to the groundlessness of the world and the sense and organization of collective life are directly in function of the degree of exclusion. In this way, the crisis of desynthesis of the West comes to express, in addition to what has already been said, the weakening of the mechanisms of self-recognition on the part of the homogeneous world, which indeed used the inside/outside relationship to determine the sense of the positive, of the good, and of the superior in relation to the negative, the bad, and the inferior. The positive and the homogeneous are the ‘inside,’ the heterogeneous, the negative, and the transcendent are the ‘outside’; the ‘inside’ is a free, evasive region, the ‘outside’ is a closed and secluded region; the inside is the part of sense, of reason, of man and of being, the outside is the part of insignificance, of being, of god, and of the beast; the inside is the organized, serviced, and productive urban space, the outside is “the consistency of a vague ensemble that opposes the law (or Polis) as a hinterland, a mountainside, or the vague expanse around the city.” The desynthesis of the West therefore corresponds to an increase in the disorganization of the world, and thus also to an increase in its insignificance. The degree of insignificance to which the world bends corresponds, however, to the degree of liberation of flows of uncoded thought. In the face of theology as the perfection of philosophical thinking, geophilosophy, one might say, unfolds—in the sense that it hoists, as sails are hoisted—the imperfection of an absolute anthropology. This, unlike subjective anthropology, which assumed the earth as that sector of being that constitutes the subordinate complement of the sphere of transcendence, assumes the earth as the conclusive, extreme horizon, as an “absolute,” within which the terrestrial and the transcendent, being and being, the human and the divine, the ἱδιότηϛ and the πoλίτης exchange incessantly, in a regime of unlimited reversibility.
In the second place, geophilosophy is a “minor” thought. Being excluded from thought does not mean not being able to learn its features, but rather: not being able to utter a philosophically legitimate sentence unless overcoming within oneself the stammering of the ἱδιότηϛ. “Minor,” in the sense of professional and homogeneous philosophy, is that use of the mind that stammers in thought, that use of the mind that is without past and without future, where, precisely, only what has a past, and therefore a future, and therefore a History, is philosophically relevant. Stammering in thought, without past or future, is indeed the almost nothing of provincial thoughtfulness. Taken in the “geo-” sense, this “minority” is therefore, to use a Deleuzian image, the autonomy of the stammerer insofar as he has conquered the right to stammer. Finally, geophilosophy is a provincial thought, in the sense that it operates starting from the almost nothing of provincial thoughtfulness and unfolds like a path through the fields. It is not easy to say whether Heidegger’s famous Feldweg also has this sense, but it is certain that if a path through the fields is mentioned here, it is meant to allude to a path that winds far from the road network of professional philosophy, to a path whose destination is not known with precision nor whether it leads anywhere, and thus to a path that must be attempted before it can be mapped. The path through the fields is therefore first of all a “trial path” (Holzweg), then a relationship of orientation with space, with the landscape and places (Wegmarken)—and not with the history of homogeneous thought, at least not primarily—, then a journey delivered to the horizontal development of the earth’s surface; the spirit does not invert, is not something that rises and falls, but rather, as is clear in the preludes of the dream, it rather spreads “over the broad surfaces of the earth, itself mountain and field and earth…”. Why the sky makes sense writes Cesare Pavese, who is perhaps the greatest poet of the landscape and earthliness of our twentieth century you must sink well black roots into the dark and if light flows right into the earth, like a shock, then even the peasants have a sense and cover the hills, immobile as if they were centuries, with green, with fruit and with houses and every plant at dawn would be a life. The spirit spreads and covers the surfaces, the timeless hills, within a “closed” that we might say, delimits the absolute terrestrial; not therefore “celestial earth,” as has also been said, but rather, on the contrary, terrestrial sky, in the sense that it is the earth that has a sky, and not vice versa. Finally, this image of the path, refers to a dialectic between ‘locality’ and ‘dislocation’, between rooting and deterritorialization. In the very near future, every thought begins. The landscape determines our first meditations. Our thoughtfulness is initially perhaps nourished by nothing but landscape. In the landscape and in the mother tongue, our ancestral sensibility is preserved and transmitted. The earth, not as a unifying symbol, but as this concrete relationship with a particular place-territory, gathers and preserves what, eluding manipulability, is free from technique: the faces of the ancestors inscribed in the folds of the landscape, the small cemetery up on the coast, where the ancestors insist and things that last forever. But without a dialectic between rooting and deterritorialization, between remembrance and flight, between the Langhe and Turin or the southern seas (to remain with Pavese), the call to the earth is useless rhetoric. Provincial thought unfolds this dialectic. But this dialectic does not reconstruct the universal, does not restore the eternal, does not provide global solutions, does not console, does not expand knowledge, and does not legitimize political choices. It might be said that it, very imperfectly, articulates local truths and transient facts within a concrete morality, also constantly in transit, aimed at clearing the path for the journey of a restricted community, in search of autonomy and “property” in the drift of the West, in search of a possibility of coexistence in the continuum of conflict, in search of a right and a victimizing responsibility in the deflecting system of laws and universalistic ties, and, finally, perhaps, in search of a terrestrial religion in the decline of Transcendence. Geophilosophy is thus not, strictly speaking, either a new theoretical proposal or political, even if it has its own theoretical consistency and politics to be carried out, but rather a way of giving itself to thought “from the lucid fury that smolders in the somber thoughtfulness of peripheral recesses.” As such, it is but a transitory and lateral phenomenon, exactly as brigandage was caught between the decline of the ancien régime and the advent of the new political organ, the liberal State.
These my brand-new reflections on geopolitics present it as a philosophical field, emphasizing the influence of geography on political strategies and the impact of geopolitical actions on collective identities and human conditions. It integrates classical philosophical thoughts on power and State acts, aiming to deepen the understanding of nations’ strategic behaviours and ethical considerations. This reflective approach seeks to enhance insights into global interactions and the shaping of geopolitical landscapes.
The Geo-Philosophy
Part III
Geophilosophy means first and foremost what its name suggests: geo-philosophy, philosophy of the earth. However, the sense of the genitive, which, as is well known, can be understood in a dual sense, remains unprejudiced. In a subjective sense, the expression “philosophy of the earth” is philosophically banal, as it refers to cosmology if by “earth” we mean the orb, or to natural philosophy or Physics if by “earth” we mean the phýsei onta, the beings that come from Phýsis and that are therefore determined by kínesis, or “motility,” or even to anthropology if by “earth” we mean that sector of being that constitutes the subordinate complement of the sphere of transcendence: ethics as the determination of the good, aesthetics as the determination of the beautiful, law as the determination of the just, and politics as the determination of the good life. In an objective sense, “philosophy of the earth” can still mean two things: the earth of philosophy, in an emphatic sense, that is, the homeland, or, as is said today under the influence of a great and controversial master like Heidegger, the Heimat, the native place or womb from which thought is placed or re-placed in the world; or the being delivered (of thought) to the earth, the absolute terrestriality of thought, its prison, to put it with Nietzsche—if we rightly understand his appeal to fidelity to the earth—, and thus again anthropology, but in a very different sense from the one previously mentioned. Taken in the objective sense, the expression “philosophy of the earth” can thus mean either a reference to the transcendence of being, which would be the true homeland-motherland of thought (thought is of being, it belongs to it, it is it that places it in the world), or a reference to a plane of “absolute immanence,” on which the human and the historical find consistency but where there is no longer any trace of Man or of History, in which the celestial is contemplated, but only as a possible dimension of an absolute terrestrial, the theological problem is admitted but only as a problem internal to the horizon of an absolute anthropological. Such a thought more than ascertains the fall of man into a closed system; it expresses it, is, so to speak, the symptomatic manifestation of it. Taken in the objective sense, the expression “philosophy of the earth” thus refers to two irreconcilable things, of which only one is geophilosophy in the sense mentioned above, that is, a thought of local instances, a “Lutheran” use of the mind, and a thought of immanence. Every other meaning of the term refers instead, always anew, to the philosophical primacy of theology.
In general, philosophy is precisely the attempt to assume the earth in the cone of light of an “elevated” and “eternal” gaze capable of embracing everything with a single glance (Plato: synoptikós), or of thinking the whole or the conditions of possibility of the whole (Kant) and thus reflecting its elements and articulations in relation to God or its secularized substitute, the subject, who of God, as Deleuze wrote, conserves precisely the essential: the place. The metric of philosophizing therefore admits, as its only dimension, the verticality; its presupposition is that the whole is transparent in all senses; its perfection is theology; its movement a movement of seesawing between up and down: 1. elevatory perspective, aimed at comprehending all differences and their relationships; 2. descensio ordinatoria, tending to organize and distribute as much meaning as possible. To make this step, to discover this path between the cracks and in the dysfunction of the Western project, is not, however, professional philosophy, but rather the instances that were traditionally excluded: feminine domestic thoughtfulness, the somber provincial disposition to obsessive fantasies. These instances, emancipated by the expansive movement of the West (urbanized, technologized, acculturated, deprovincialized), suddenly restored as much to the freedom of thought as to the truth of their origins, suffer here an essential shock: faced with the discovery of being nothing other than the silent reserve of the homogeneous world, of the legal and thought community, seized at the edges of historical existence, the primary gesture with which they make their entrance onto the undifferentiated plane of the human is a gesture of refusal or, to be more precise, of withdrawal, of flight toward the thicket. Such “withdrawal” is akin to what Jünger called “passing into the woods,” but it is also an ascent toward the dawn of civilization, toward the prehistoric point at which separation and exclusion have not yet occurred, toward that zero degree of the West in which thought, springing forth, can be founded only on the absence of authority and is therefore, to put it with Bataille, a sovereign gesture, toward the point at which events, occurring, show their radical gratuitousness and in which the state is present rather as pure and simple par-oikía, a system of neighborhood, a form of condominium: neither peace nor war it might be said, mere coexistence—after all, it must be considered that peace is a pure fiction, as it can occur only as the nullification of conflict, brutal subjugation, or annihilation of the enemy as enemy. Such “withdrawal” expresses the refusal to assimilate to the productive homogeneity of the philosophy of the State and the estrangement with respect to its system of legitimation, the derision of its pedagogical function, and the horror for its professionalism. It is for this reason that geophilosophy, at the exact point where it flows, presents itself with the features of a wild thought, not conforming to the educational standards of public philosophy and thus as an uneducated, non-orthopedicized, implausible thought, to which, by definition, the consent of the scientific community cannot go—and therefore also a thought “false” or a false thought and, finally, as an illegal thought, disrespectful of the protocols and legality of scientific practices. Its methodological approach will appear rather as brigandage—this is the meaning to be attributed to the expression “Lutheranism of the mind,” at least from the perspective of homogeneous philosophy: it involves the exercise of something like a “free examination” conducted on texts that the philosophical church transmits, in a sacralizing manner, within a consolidated magisterium; free examination that, in the most extreme situations, may also appear as wild textualism or a sort of methodological vampirism. Geophilosophy as such arises from a withdrawal of thought, from a wilding, from an attempt to gain not an elevated point of view, but a point of departure as external, lateral, and foreign to the procedures of homogeneous thought as possible. This at least is its public image, its cultural image. From the “geo-” perspective, what here appears as an ensemble of implausible forms presents itself instead now as a fight against culture, now as a revolt against politics, now as a movement of secretion, disappearance, and impulse to autonomy, now as a victimizing philosophy (the assumption of the viewpoint of the victim and the criminal instead of that of the community and the state—the geophilosophy indicates, moreover, an absolute victim, a paradigm of victim: the ἱδιότηϛ, the excluded from common thought, but also the being that stands alone, the private, the domestic, the paysan, the woman, the excluded from the political community and finally the excluded from the historical community, that is, the being without past and future).
L’etica protestante e lo spirito del capitalismo di Max Weber, pubblicata nel 1905, è un’opera fondamentale che sonda l’influenza della religione sullo sviluppo economico e culturale dell’Occidente. Attraverso un’analisi meticolosa e interdisciplinare, l’Autore intreccia filosofia, storia, letteratura e religione, per rivelare come l’etica protestante abbia contribuito a modellare il moderno capitalismo. Il filosofo-sociologo principia con un’indagine filosofica sul senso del lavoro nella società capitalista, postulando che la “professione” o “vocazione” (Beruf, che nel suo significato di “compito assegnato da Dio” trae origine della traduzione luterana della Bibbia) sia diventata un elemento cardinale per comprendere l’individualismo occidentale. Esamina il concetto di predestinazione calvinista e la sua influenza sullo sviluppo di un’etica del lavoro, argomentando come il successo materiale venisse spesso visto quale segno dell’elezione divina. Questa fusione tra il dovere religioso e l’attività economica offre una lente filosofica unica per vagliare la natura del capitalismo, dove il lavoro non è solo una necessità economica ma anche un imperativo morale. Storicamente, Weber collega lo sviluppo del capitalismo moderno a specifici periodi e regioni, in cui il protestantesimo era prevalente, in particolare il nord Europa e le parti degli Stati Uniti colonizzate dai puritani, mostrando come queste aree abbiano adottato il capitalismo come sistema economico ed ethos culturale, influenzandone profondamente le strutture politiche e sociali. Weber utilizza una vasta gamma di dati storici per tracciare le correlazioni tra pratiche religiose e sviluppi economici, provando che il protestantesimo abbia fornito lo “spirito” necessario per la nascita del capitalismo. Dal punto di vista letterario, l’opera è un capolavoro di narrazione analitica. Con un linguaggio chiaro e accurato, Weber trasforma argomenti complessi in un racconto affascinante, che si legge quasi come un romanzo storico. L’uso di fonti primarie, sermoni e diari arricchisce il testo, presentando uno sguardo autentico sulle convinzioni e sulle pratiche dei protestanti dell’epoca. La sua capacità di tessere insieme aneddoti e analisi è un esempio eccellente di come la scrittura accademica possa essere rigorosa ma anche coinvolgente. L’aspetto religioso è il più centrale nel lavoro di Weber. Egli dettaglia minuziosamente le dottrine del calvinismo, del luteranesimo e di altre sètte protestanti, sottolineando come queste abbiano prediletto la disciplina, l’ascetismo e l’etica del lavoro. Non solo descrive le pratiche, ma le interpreta in relazione allo sviluppo economico, proponendo una tesi provocatoria: la religione ha plasmato le sfere personali della vita, avendo anche avuto un impatto profondo e diretto sul corso economico e sociale del mondo occidentale. L’analisi si concentra significativamente sulle divergenze tra le visioni luterano-calviniste e quelle cattoliche, in particolare riguardo al lavoro e al profitto. Queste differenze teologiche ed etiche non solo hanno influenzato la vita dei fedeli ma hanno anche avuto un impatto profondo sullo sviluppo economico nei vari contesti geografici e storici.
Il cuore dello studio di Weber è nel modo in cui il calvinismo ha interpretato la predestinazione e il lavoro. Secondo la dottrina calvinista, il destino eterno dell’uomo è predestinato da Dio e non può essere cambiato; tuttavia, segni di una vita favorita da Dio possono manifestarsi attraverso il successo e la prosperità nel mondo terreno. Il lavoro, quindi, assume una dimensione quasi sacra – non solo è un dovere verso Dio ma diventa anche un segno del favore divino. Questa interpretazione è meno accentuata nel luteranesimo, per cui comunque il lavoro è ritenuto una vocazione divina, un mezzo attraverso cui il fedele serve Dio nella vita quotidiana. La prosperità risultante dal lavoro diligente ed etico non è però considerata come un fine in sé ma come una conferma che si sta vivendo una vita in linea con i comandamenti divini. In questo modo, il profitto e il successo economico sono accettabili e addirittura potenzialmente indicativi di salvezza. Al contrario, la dottrina cattolica tradizionale non pone un’enfasi simile sulla predestinazione o sul successo economico come segno di salvezza. Il cattolicesimo, con la sua struttura ecclesiastica più centralizzata e la dottrina della libera volontà, permette ai fedeli di influenzare il proprio destino spirituale attraverso le opere, inclusi i sacramenti e la carità. Il lavoro ha sì un valore etico e spirituale, ma è disgiunto dalla nozione di predestinazione. Di conseguenza, il profitto e il successo materiale sono visti in una luce più neutra o persino problematica, se perseguiti a scapito di valori più elevati. Weber ritiene che la visione calvinista del profitto come segno di grazia divina abbia giocato un ruolo chiave nella formazione dell’etica del capitalismo. L’accumulo di ricchezza, purché ottenuto attraverso il duro lavoro e l’adempimento etico, era percepito come moralmente accettabile e anche desiderabile, un’indicazione della propria elezione. Ciò contrasta nettamente con la visione più scettica o critica del profitto che si può trovare in molte interpretazioni cattoliche, dove l’accumulo eccessivo di ricchezza è considerato un ostacolo alla vera pietà e un rischio di corruzione spirituale. La visione protestante, pertanto, con la sua interpretazione del lavoro e del profitto, ha favorito un ambiente in cui il capitalismo non solo è nato ma è anche fiorito, mentre la tradizione cattolica ha promosso un approccio più cauto ed equilibrato verso il successo materiale. L’etica protestante e lo spirito del capitalismo è un’opera straordinariamente ricca e complessa, che spinge i lettori a considerare il ruolo della religione e dell’etica nell’economia moderna. Weber fornisce la base per ulteriori studi interdisciplinari e invita altresì a una riflessione critica su come i valori culturali e religiosi continuino a influenzare le pratiche economiche contemporanee.
These my brand-new reflections on geopolitics present it as a philosophical field, emphasizing the influence of geography on political strategies and the impact of geopolitical actions on collective identities and human conditions. It integrates classical philosophical thoughts on power and State acts, aiming to deepen the understanding of nations’ strategic behaviours and ethical considerations. This reflective approach seeks to enhance insights into global interactions and the shaping of geopolitical landscapes.
The Geo-Philosophy
Part II
The phase of the maintenance of our form of civilization unfolds between two apparently opposite and incompatible moments: synthesis and desynthesis. However, the “expansion” of the system has ultimately led to an irreversible crisis. The “crisis” of the West is not due to the incursion of an allotropic element, but to the simple fact that, through expansion, the political grinds down all that is non-political, the metropolis relentlessly grinds down the provincial and the peripheral, urbanism swallows the countryside, the forest, the mountain…, the philosophical absorbs all that is non-philosophical (literature, art, cinema, television, the dream, madness…)—philosophy even amuses itself by producing its own deconstruction; while History grinds down all that is extra-historical, from peoples without history to the history of that which, not unfolding “in public,” would strictly be without history. Now, this expansion has resulted in what Baudrillard calls “implosion,” that is, the “chemical” suspension of all classic opposition in a solution of reversibility or random aggregation, or anyway, according to laws not reducible to any known reference. Such a suspended state is what I call “desynthesis.” Desynthesis should be understood not as a sort of reflux, but as a movement of drift, like the expression “galactic drift” in the Big Bang theory. The mutual distancing of nebulae here corresponds to the mutual distancing of State, History, and Philosophy and their internal parts from each other; it involves the disarray of the Western system or, more specifically, the breakdown of the system of legitimation of the Western use of the mind, and thus also the dysfunction of the project that refers to that use.
That there is desynthesis can be inferred indirectly from what we might call the Doppler effect of Western civilization, a sort of “redshift” of the “light” emanating from various formations of the objective spirit in which State, History, and Philosophy are variously intertwined. The Doppler effect we are discussing consists, for example, of the recording of the decline of the universalistic model of the European nation-state and, more specifically, in the shift of political and legal investments to the local and territorial, such that statehood seems to produce more as a multiplicity of subversive pushes than as a totalization of collective existence in the ethno-political universality of the nation. To biopolitics as the perfection of Western statehood (the subsumption of life as a biological fact under a power that acts with aesthetic nonchalance) is substituted a sort of geopolitics of territorial instances (the dissemination of the political in the folds of the concrete territoriality and domesticity of existence). Thus, philosophy no longer produces itself as a national educational project, but as a sort of concrete morality that articulates local truths and transient facts for the use of restricted communities. To the university philosophy, which untangled universal teachings for a community without particularistic divisions within it, and thus an ethnically, legally, and politically homogeneous community—which guaranteed the universality of education through a system of public degrees and certificates—is juxtaposed something like a thought that speaks without legitimation, without authority, without certifications, and therefore a thought ‘gone wild,’ or better said, ‘uncivilized,’ which moves from a retreat to territorial belonging rather than from an imperial investiture. To hermeneutics as the perfection of the public philosophy of the late twentieth century is substituted a thought of local instances, a geo-philosophy; to the image of the state professor, the meticulous philologist, the pedagogue, the jealous guardian of orthodoxy, and the accumulator of glosses is juxtaposed, precisely in the sense that it slips to the side, to the right, that of the corsair thinker or, better yet, pirate, vampyr, one who sucks the soul (the juice, the sap of a thought) introducing into bodies (his public image) a spirit that does not correspond (Wild textualism)—to the productivity and commensurability of philosophical work, typical moreover of every homogeneous formation, is substituted a sort of heterogeneous dissemination of the thinking function, a shift in the register of thought from accumulation to expenditure, from education to conspiracy, from capital to treasure, from universal power to transitory munificence. On this basis is forming another economy of thought that alongside the global governance of the mind affixes something like a liberalism or an anarchism of its use, to the catholicism of thought (revelation + tradition + magisterium) juxtaposes a mind unaware of the revelativity of philosophy, disacknowledging the magisterium of clerics and exercising a sort of free examination of tradition: Lutheranism of the mind. (Finally, the same can be said for historicity. This no longer produces itself as the unisignificance of the world and facts. To the homogeneous and transferable spiritual heritage of nations is substituted the experience of discontinuity and rupture, to universal history the incommensurability of the historical experiences of concrete local communities.)
Nel cuore del Rinascimento italiano pulsano le parole di Giovanni Pico della Mirandola, incarnando l’essenza dell’Umanesimo nella Oratio de hominis dignitate. L’orazione fu concepita da Pico come preparazione a una disputa internazionale, ove riunire i più eminenti intellettuali del tempo, a Roma, nel 1487, per discutere di “pax philosophica”. Per l’appuntamento, Pico compilò 900 tesi, pubblicate per la prima volta nel dicembre del 1486. Tuttavia, l’evento fu immediatamente annullato per decisione di papa Innocenzo VIII, che volle formare un comitato di esperti incaricati di valutare l’ortodossia delle tesi. Tre di queste furono dichiarate eretiche dalla commissione, mettendo in cattiva luce l’intera iniziativa e causando la sospensione del progetto. Pico fu addirittura costretto a rifugiarsi in Francia, dove fu comunque arrestato e detenuto nella fortezza di Vincennes, a Parigi, su richiesta del pontefice. L’orazione, che non fu mai pronunciata ma che trovò vita nelle menti e nei cuori di molti, è un canto all’infinito potenziale umano, un inno alla libertà dell’essere di ascendere alla divinità o di cadere nella bestialità, a seconda della propria scelta. Alla fine del Quattrocento, l’Europa si trovava in un crocevia di cambiamenti. L’invenzione della stampa, la caduta di Costantinopoli, le scoperte geografiche di nuovi mondi e le riforme in ambito religioso e artistico ponevano le basi per una riflessione profonda sulla posizione dell’uomo nell’Universo. È in questo contesto che Pico, giovane e ardito letterato, propose una visione dell’uomo come creatore del proprio destino, dotato di una libertà quasi divina. Centrale, nell’orazione, è l’idea del libero arbitrio. L’uomo, secondo Pico, è un essere unico, privo di una forma fissa e predefinita, capace di modellarsi a immagine delle realtà celesti o terrene, secondo la propria volontà. Questa concezione lo pone al di sopra di tutte le altre creature, dotato com’è della capacità di auto-trascendenza. L’opera di Pico si colloca, così, come un ponte tra la teologia cristiana e il pensiero classico, un dialogo tra filosofi di diverse epoche, che culmina nella possibilità di una sintesi universale del sapere umano, offrendo, altresì, una riflessione profonda e innovativa sull’origine e la posizione dell’uomo nella gerarchia dell’Essere, distaccandosi dai canoni tradizionali medievali e abbracciando la visione rinascimentale carica di possibilità umane. Tradizionalmente, la gerarchia dell’Essere era vista come una scala rigidamente strutturata, un ordine cosmico stabilito da Dio, in cui ogni creatura aveva un posto definito e immutabile. Angeli, demoni, uomini, animali, piante e minerali erano disposti in un ordine decrescente di santità e perfezione, ciascuno con un ruolo preciso e senza possibilità di cambiamento. Pico rompe questo schema, introducendo una concezione rivoluzionaria dell’uomo come “miracolo” dell’Universo. Secondo la sua visione, l’uomo è stato creato da Dio senza una forma specifica e definita, il che lo pone al centro della creazione come un essere unico, collocato, nella visione pichiana, in una posizione ontologicamente centrale. Non essendo vincolato a una natura specifica, l’uomo ha la libertà e la capacità di modellare se stesso rispecchiando la divinità oppure di degradarsi al livello delle bestie o, perfino, inferiormente. Tale posizione dell’uomo implica una grande responsabilità: quella di scegliere attivamente il proprio cammino. Egli, così, diventa l’artefice del proprio destino. Questa capacità di auto-determinazione lo distingue radicalmente da tutte le altre creature confinate nei limiti delle proprie nature predefinite.
Anche l’idea di auto-trascendenza è fondamentale nella filosofia di Pico. L’uomo può elevarsi al di sopra della sua condizione mortale attraverso l’educazione, la riflessione filosofica e l’adesione ai principi etici e spirituali. Questo processo di elevazione non è soltanto un miglioramento personale, ma una vera e propria imitazione delle caratteristiche divine, come la conoscenza e la bontà. Attraverso la pratica delle virtù e lo studio delle arti e delle scienze, l’uomo può ascendere nella gerarchia dell’Essere, avvicinandosi all’angelico e al divino. In questo senso, Pico vede la filosofia e la teologia non solo come discipline accademiche, ma come vie di perfezionamento dell’anima e di realizzazione del proprio potenziale. Il filosofo, pertanto, ridefinisce la posizione dell’uomo nella cosmologia ed eleva l’umanità a protagonista della propria storia spirituale e intellettuale. La sua visione anticipa i concetti moderni di auto-determinazione e di potenziale umano, auspicando una nuova era di pensiero, in cui l’essere umano sia visto come co-creatore del proprio mondo e del proprio destino. Questa visione ottimistica dell’umanità è una delle eredità più durature di Pico e del Rinascimento e continua a influenzare il pensiero filosofico e culturale contemporaneo. L’Oratio de hominis dignitate, in definitiva, risuona come un poema epico sulla natura umana. Le parole di Pico, cariche di elevata retorica e di sublime ottimismo, riflettono la quintessenza dell’ideale umanistico: l’uomo come misura di tutte le cose, capace di elevare sé stesso attraverso il culto della bellezza, della verità e della bontà. La sua visione celebra l’armonia possibile tra ragione e fede, tra cielo e terra. L’orazione non rappresenta soltanto un documento storico, ma un manifesto eterno della potenzialità umana. Pico della Mirandola invita i lettori di ogni epoca a vedere in se stessi non una creazione finita, ma un’opera aperta, un progetto in continuo divenire, sfidandoli a raggiungere la grandezza che è in loro potere conseguire. Così, attraverso i secoli, le sue parole continuano ad accompagnare tutti coloro i quali cercano di comprendere la vastità e la profondità della “dignità” umana.
Guido Guinizzelli è stato il teorico del Dolce Stil Novo, l’altro Guido, come lo chiamò Dante (Purg. XI, v. 97) ne ha rappresentato il maggiore esponente. Fiorentino, nacque più o meno nel 1260, dalla nobile famiglia Cavalcanti, mercanti molto ricchi. Notissime erano, a Firenze, quasi fossero un punto cardinale, le terre e le case dei Cavalcanti, situate non lontane dalla Chiesa di Santa Maria in Campidoglio, nei pressi del Mercato Vecchio. Da giovane, era stato mandato dal padre a studiare la filosofia da Brunetto Latini e proprio lì aveva conosciuto il futuro sommo poeta, divenendone amico fraterno. Guelfo bianco convinto, per dare il buon esempio, cercando, in tal modo, di calmare un po’ le tormentatissime acque in città, aveva sposato Bice degli Uberti, figlia del famoso Farinata, il segretario comunale del PGF, Partito Ghibellino Fiorentino. Tutto questo, comunque, era servito a poco o niente. La tensione, a Firenze, era sempre altissima, tanto che quando non si riuscivano ad eliminare gli avversati in casa, si mandavano i sicari a raggiungerli in trasferta. Durante un pellegrinaggio al santuario di Santiago di Compostela, infatti, nei pressi di Tolosa, Guido prese una coltellata alla schiena, inflittagli da un assassino mandato da Corso Donati, il capo dei guelfi neri. Si salvò per miracolo! Incurante dei numerosi pericoli e della sua incolumità fisica, si fece eleggere al Consiglio Generale. Solo pochi anni dopo, però, ne fu escluso, quando Giano della Bella, un aristocratico passato a sinistra, fece approvare la riforma degli “Ordinamenti di Giustizia”, vietando, ai nobili non iscritti ai sindacati, l’accesso alle cariche pubbliche. Il 24 giugno del 1300, dopo aver preso parte ad una mega rissa in cui guelfi bianchi e neri se le erano suonate di santissima ragione, fino a quando non erano rimaste in piedi che due-tre persone, essendo lui un capo fazione, fu punito con l’esilio a Sarzana, oggi ridente centro in provincia di La Spezia, ma, nel XIII secolo, zona paludosa e insalubre. Fu proprio l’amico Dante, divenuto, nel frattempo, Priore, a firmare, con le lacrime agli occhi, la sua condanna. In poche settimane, a causa dei miasmi mortiferi esalati dagli acquitrini sarzanesi, Guido contrasse la malaria. Tornò a Firenze giusto in tempo per morire, nelle case dei Cavalcanti, il 29 agosto. Fiero nel carattere e altero nell’aspetto, è il più “tragico” dei poeti stilnovisti. L’amore, spesso, gli provocava sbigottimento, lasciandolo dubbioso, destrutto e desfatto:
L’anima mia vilment’è sbigotita de la battaglia ch’ell’ave dal core che s’ella sente pur un poco Amore: più presso a lui che non sòle, ella more.
(L’anima mia vilment’è sbigotita, vv. 1-4)
Forte e nova mia disaventura m’ha desfatto nel core ogni dolce penser, ch’i’ avea, d’amore.
(Forte e nova mia disavventura, vv. 1-3)
Allo steso modo, la sua donna pare non essere così celeste e luminosa come quelle esaltate dagli altri poeti, tanto che il suo valore è difficilmente conoscibile dall’uomo. Se Guido fosse stato un trovatore avrebbe accompagnato le sue canzoni con una musica malinconica e angosciosa:
Se Mercé fosse amica a’ miei desiri, e l’movimento suo fosse dal core di questa bella donna e’l su’ valore mostrasse la vertute a’ mie’ martiri.
(Se Mercé fosse amica a’ miei disiri, vv. 1-4)
La canzone Donna me prega, per ch’eo voglio dire, i cui versi sono di difficile comprensione perché volutamente astrusi, è lo specimen della sua poesia. In essa, filosofia, metafisica, psicologia, tristezza, guai, lamenti e spiriti, introdotti nella sua lirica per spiegare il funzionamento dei sensi e dei sentimenti dell’uomo, mostrano la donna non come una guida che renda l’anima perfetta, quanto come creatura la cui bellezza costringa a meditare, ad almanaccare, a scervellarsi, ad elucubrare e a rimuginarvi. Però, rimuginandovi troppo a lungo, il povero Guido correva il rischio di andare fuori di testa.
Donna me prega, – per ch’eo voglio dire
d’un accidente – che sovente – è fero
ed è sì altero – ch’è chiamato amore:
sì chi lo nega – possa ’l ver sentire!
Ed a presente – conoscente – chero,
perch’io no spero – ch’om di basso core
a tal ragione porti canoscenza:
ché senza – natural dimostramento
non ho talento – di voler provare
là dove posa, e chi lo fa creare,
e qual sia sua vertute e sua potenza,
l’essenza – poi e ciascun suo movimento,
e ’l piacimento – che ’l fa dire amare,
e s’omo per veder lo pò mostrare.
(Donna me prega, – per ch’eo voglio dire, vv. 1-14)
Tra le sue composizioni più famose, infine, è la ballata Perch’i’non spero di tornar giammai. Il poeta, fuori dalla Toscana, chiese a questa sua ballatetta di raggiungere l’amata per dirle, tra pianti, sospiri e accidenti:
Questa vostra servente viene per star con vui, partita da colui che fu servo d’Amore.
These my brand-new reflections on geopolitics present it as a philosophical field, emphasizing the influence of geography on political strategies and the impact of geopolitical actions on collective identities and human conditions. It integrates classical philosophical thoughts on power and State acts, aiming to deepen the understanding of nations’ strategic behaviours and ethical considerations. This reflective approach seeks to enhance insights into global interactions and the shaping of geopolitical landscapes.
The Geo-Philosophy
Part I
Philosophy no longer makes individuals wiser nor does it impart wisdom; it neither aids in making beneficial life decisions nor does it bring happiness. However, it certainly does not leave everything unchanged—it is not a futile endeavour. This can be demonstrated through indirect reasoning, for instance by examining how political power has repeatedly striven to seize it or control its discourse. Yet, the issue is more intricate and simultaneously more straightforward than it appears. First, because philosophy is not merely prey to the political; and second, because the relationship among philosophy, politics, and history is highly complex. It is only through the interplay of this complexity, resembling the ever-changing patterns of a kaleidoscope, that we can glean insights into the characteristics of our way of life, our culture, traditionally referred to as the “West.” It is thus possible to begin with the observation that philosophy is a fundamental and essential aspect of the “Western project.” The need to define this term (“Western project”) necessitates first clarifying what “project” implies here. If by project we mean looking forward, the foresight of what will be done, and the structured plan of a construction, then it can be defined as the plan that allows us to foresee everything that needs to be done to then tackle a specific construction. In general, the blueprint upon which our way of life was developed and built includes three constructive orders: the organization of coexistence, the continuity of events, and the certification of beliefs. The West is an ongoing construction whose unfolding is articulated as a combination of these three problem-solving constructs. On the plane of coexistence, the Western project unfolds as a state organization; on that of eventuality and its impermanence, it unfolds as History; and on that of belief and its uncertainty, it unfolds as Philosophy. The State organizes the community, History retains events, Philosophy transforms faith into truth.
One might wonder in what sense philosophy certifies belief, and the answer is that philosophy arises and establishes itself in opposition to myth. The struggle between philosophy and myth is authoritatively attested by Plato. This struggle is primarily a battle for control over the education system (Paideia) and unfolds in three ways: 1. the exclusion of poets, that is, the wise producers of myths, from the Polis; 2. the repositioning of mythical wisdom in a subordinate role to philosophical knowledge; 3. an unequivocal condemnation of the sophist, that is, the practitioner of a private and thus particularistic Paideia, and moreover in exchange for money. Philosophy firstly rejects the mere faith-based nature of myth (that which is strongly believed is true) and its inability to establish itself as an exclusive sphere, thereby preemptively invalidating the emergence of other myths, and thus of different and conflicting truths. Philosophy counters the particular knowledge of myth and sophistry with the idea of a universal and incontrovertible knowledge. Now, the philosopher’s certainty of possessing absolutely certain knowledge is based on the acquisition of two notions: 1. truth as unveiling (Alétheia); 2. Being as totality (En-pan). By invoking these two notions, philosophy asserts itself as a total, exclusive faith: philosophy is the eternal and ubiquitous knowledge of the unveiled, that is, of that which, remaining unchangeably in the philosopher’s gaze, is always and everywhere true. The extent to which this conviction is in turn a belief is something that, following the break from Hegelianism, will be categorically highlighted. Philosophy is no more a certain knowledge than myth was, with the difference that this myth, which is philosophy, has found in the coordination with the State and with History the means to suppress, disqualify, or annihilate any different use of the mind. State, History, and philosophy are not independent magnitudes. Together, they constitute the response to the problems of the incompatibility of coexistence, the impermanence of events, and the uncertainty of belief, whose kaleidoscopic interplay forms the ever-changing, yet always unified, shape of Western civilization. It could be said that each of these magnitudes presupposes and inevitably refers back to the other two, and that none of the three would have the meaning they do outside of their mutual and triadic relationship, nor could they be separated from this relationship without compromising the entire system’s structure, thereby somehow causing its breakdown. This is a system of transparent planes, each bearing a design; their overlapping, in multiple combinations, gives us the complete design of Western Kultur. What allows the reading of the three planes as a civilization project is thus their very transparency. This system of complex overlays could be termed the Western synthesis, namely the union, the joint capacity for promotion, and the mobile connection of State, History, and Philosophy, along with the transparency of each plane relative to the others. For instance, knowledge that sought certainty outside the constraints imposed by historical existence would be nothing more than the myth against which Plato fought to establish philosophy as the foundation of all public education. Moreover, if there were no centralized and singular control over the education system, if the Paideia presented itself as a multiplicity of conflicting and irreducible proposals, then there would not be a State, i.e., there would not be a single system of publicity and therefore not even a single system of meaning, there would not be that Einsinningkeit, that unisignificance of facts that is the foundation of the Western mind. In its place, we would have something like a plurality of private meanings and disparate images, and thus the possibility, always given, of their irreconcilable conflict; we would have something powerful, tyrannical, and at the same time inert, flaccid, treacherous, something both superstitious and simultaneously dazzling like a foggy lunar night, like a charming creature yet veiled in damp mists, dim, feverish, internally corrupt and contradictory like Madame Chaucaht. Thus, the West is primarily a State, that is, the opening of a public space measured by Man, whose measure is Man but only insofar as he is philosophically educated—thus: Homo philosophicus and not “man” simply. The West, following the metaphors of the Magic Mountain, is the “clear day,” the “daylight” where things appear in their incontrovertible objectivity, and “cold,” that is, rational, and finally “glassy,” that is, transparent, unambiguous. This public space, rational, objective, and unambiguous is the realm of manifestation of meaningful events. The meaning of such events, for the philosophically educated being, is univocal, that is, universally comprehensible and transmissible. Such events are thus, so to speak, “eternal facts,” which precisely means: transmissible according to a single meaning. For this reason, they are said to belong to History. History is not the space of facts that simply happen and to which “man” simply conforms, but the realm of the happening of “eternal facts,” which are “facts” only for the Homo politico-philosophicus.