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John William Waterhouse, Giacomo Leopardi e la Primavera

 

 

Perchè i celesti danni
ristori il sole, e perchè l’aure inferme
Zefiro avvivi, onde fugata e sparta
delle nubi la grave ombra s’avvalla;
credano il petto inerme
gli augelli al vento, e la diurna luce
novo d’amor desio, nova speranza
ne’ penetrati boschi e fra le sciolte
Ppuine induca alle commosse belve;
forse alle stanche e nel dolor sepolte
umane menti riede
la bella età, cui la sciagura e l’atra
face del ver consunse
innanzi tempo? Ottenebrati e spenti
di febo i raggi al misero non sono
in sempiterno? Ed anco,
Primavera odorata, inspiri e tenti
questo gelido cor, questo ch’amara
nel fior degli anni suoi vecchiezza impara?

vivi tu, vivi, o santa
Natura? vivi e il dissueto orecchio
della materna voce il suono accoglie?
Già di candide ninfe i rivi albergo,
placido albergo e specchio
furo i liquidi fonti. Arcane danze
d’immortal piede i ruinosi gioghi
scossero e l’ardue selve (oggi romito
nido de’ venti): e il pastorel ch’all’ombre
meridiane incerte ed al fiorito
margo adducea de’ fiumi
le sitibonde agnelle, arguto carme
sonar d’agresti Pani
udì lungo le ripe; e tremar l’onda
vide, e stupì, che non palese al guardo
la faretrata Diva
scendea ne’ caldi flutti, e dall’immonda
polve tergea della sanguigna caccia
il niveo lato e le verginee braccia.

Vissero i fiori e l’erbe,
vissero i boschi un dì. Conscie le molli
aure, le nubi e la titania lampa
fur dell’umana gente, allor che ignuda
te per le piagge e i colli,
ciprigna luce, alla deserta notte
con gli occhi intenti il viator seguendo,
te compagna alla via, te de’ mortali
pensosa immaginò. Che se gl’impuri
cittadini consorzi e le fatali
ire fuggendo e l’onte,
gl’ispidi tronchi al petto altri nell’ime
selve remoto accolse,
viva fiamma agitar l’esangui vene,
spirar le foglie, e palpitar segreta
nel doloroso amplesso
dafne o la mesta Filli, o di Climene
pianger credè la sconsolata prole
quel che sommerse in Eridano il sole.

Né dell’umano affanno,
igide balze, i luttuosi accenti
voi negletti ferìr mentre le vostre
paurose latebre Eco solinga,
non vano error de’ venti,
ma di ninfa abitò misero spirto,
cui grave amor, cui duro fato escluse
delle tenere membra. Ella per grotte,
per nudi scogli e desolati alberghi,
le non ignote ambasce e l’alte e rotte
nostre querele al curvo
etra insegnava. E te d’umani eventi
disse la fama esperto,
musico augel che tra chiomato bosco
or vieni il rinascente anno cantando,
e lamentar nell’alto
ozio de’ campi, all’aer muto e fosco,
antichi danni e scellerato scorno,
e d’ira e di pietà pallido il giorno.

Ma non cognato al nostro
il gener tuo; quelle tue varie note
dolor non forma, e te di colpa ignudo,
men caro assai la bruna valle asconde.
Ahi ahi, poscia che vote
son le stanze d’Olimpo, e cieco il tuono
per l’atre nubi e le montagne errando,
gl’iniqui petti e gl’innocenti a paro
in freddo orror dissolve; e poi ch’estrano
il suol nativo, e di sua prole ignaro
le meste anime educa;
tu le cure infelici e i fati indegni
tu de’ mortali ascolta,
vaga natura, e la favilla antica
rendi allo spirto mio; se tu pur vivi,
e se de’ nostri affanni
cosa veruna in ciel, se nell’aprica
terra s’alberga o nell’equoreo seno,
pietosa no, ma spettatrice almeno. 

(Giacomo Leopardi, “Alla Primavera o delle favole antiche“, gennaio 1822)

 

 

John William Waterhouse, “Flora and the Zephyrus” (1898), olio su tela (video da www.restaurars.altervista.org)

 

 

 

 

Qualche breve considerazione sulla lingua italiana e quella napoletana, suscitatami da alcune domande di un amico

 

 

Perché l’italiano è diventato la lingua ufficiale dell’Italia dopo l’Unità? C’entra qualcosa Alessandro Manzoni?

L’italiano che noi parliamo oggi non è una derivazione del “volgare” usato da Manzoni (lui già scriveva in italiano), ma, piuttosto, della lingua di Dante, Petrarca e Boccaccio, raffinatasi, però, nei secoli. Sono state alcune delle opere letterarie, scritte nella lingua che si parlava a downloadFirenze nel ‘300 (lingua che non era dissimile da quelle parlate in tutte le zone d’Italia in quel periodo, proprio perché, anche i dialetti italici, derivavano comunque dal latino), a far diffondere quella lingua attraverso la lettura delle opere con cui erano state scritte. La lingua italiana si è diffusa grazie alla lettura di opere come la Divina Commedia, Il Canzoniere o il Decameron. Non solo i contenuti, quindi, ma anche la stessa forma! Ecco un esempio per mostrare come una lingua acquisti dignità e si diffonda attraverso le opere scritte con essa: Dante Alighieri, da uomo di cultura appassionato di poesia, nel De Vulgari Eloquentia, un’opera tutta sulle lingue, scrisse questo della lingua siciliana: “Indagheremo per primo la natura del siciliano, poiché vediamo che il volgare siciliano si attribuisce fama superiore a tutti gli altri: ché tutto quanto gli Italici producono in fatto di poesia si chiama siciliano”. Il Sommo Poeta scrisse questo perché, all’epoca sua, i sonetti dei poeti della cosiddetta scuola siciliana (quelli raccolti intorno alla corte di Federico II, a Palermo) erano famosi e letti in tutta Italia. Anzi, sulla scorta delle poesie dei siciliani, proprio in Toscana, fiorirono, prima, i cosiddetti poeti siculo-toscani, e, poi, gli stilnovisti, cui Dante stesso, in gioventù. Se non ci fossero stati i poeti siciliani, probabilmente Dante non avrebbe sentito parlare nemmeno della lingua siciliana. È come se dicessi: conosco William Wallace solo perché ho visto il film Braveheart, famoso e diffuso in tutto il mondo, non perché io sia stato in Scozia o abbia studiato la sua storia! Ecco, pertanto, cosa è successo: grandi opere sono state scritte in una variante geografica dell’italiano (il fiorentino del ‘300); queste si sono diffuse perché belle e interessanti; a partire dal ‘500 molti letterati, tra cui Pietro Bembo, grazie a queste opere cominciarono a occuparsi di questioni di lingua, indicando quella di Petrarca specialmente, come la lingua (italiana) più pura e da adottarsi, prima nella comunità dei dotti, e, poi, come lingua di tutta la Penisola (i tentativi di unire l’Italia, almeno dal punto di vista linguistico, sono cominciati molto prima dei Savoia); da un lato i dotti, dall’altro il popolo, pian piano fecero sì che la comunicazione, scritta e orale, si uniformasse ad un unico registro linguistico, comprensibile da tutti, dalle Alpi alla Sicilia.

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E Alessandro Manzoni?

Manzoni compì soltanto un’operazione volta a purificare, dal suo punto di vista, l’italiano che si parlava nella prima metà dell’Ottocento. Lo scrittore milanese non elevò alcunché manzoni-01a lingua nazionale, raffinò soltanto quella parlata correntemente. Poi, si inventò la storiella di essere andato a sciacquare i panni in Arno, cioè, metaforicamente, di aver purificato la lingua italiana, facendola tornare alle origini, quelle fiorentine, per i motivi legati alle opere famose prodotte in fiorentino, di cui ho scritto sopra (anche la lingua, come i territori che, poi, sarebbero diventati Regno d’Italia, è stata sottoposta alle numerosissime dominazioni straniere, che hanno inevitabilmente lasciato tracce della loro lingua nell’italiano. Per questo Manzoni volle purificarla).

A proposito della nostra lingua napoletana?

Per quanto riguarda il napoletano, esso è una vera e propria lingua, oggi riconosciuta anche dall’UNESCO, che ha la stessa origine dell’italiano (dal latino) e che, come l’italiano, viene definito “idioma romanzo” (le mie pagine ti saranno d’aiuto a comprendere. Quando le leggerai, puoi riferire al napoletano tutte le caratteristiche e gli sconvolgimenti di cui io parlo a proposito dell’italiano). Quindi, tra italiano e napoletano, nessuna lingua è precedente all’altra. Sono, in definitiva, due varianti del latino che si parlavano in zone geograficamente contigue e, dunque, simili tra loro. Per quanto riguarda il glorioso Regno delle Due Sicilie, la lingua ufficiale, o, meglio, le lingue ufficiali, erano il napoletano, parlato a nord dello stretto di Messina, e il siciliano, che si parlava al di là dello stretto (il siciliano ha caratteristiche “storiche” simili al napoletano ed è anch’esso una lingua).

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Edward Hopper, Pier Paolo Pasolini e la Solitudine

 

 

Senza di te tornavo, come ebbro,
non più capace d’esser solo, a sera
quando le stanche nuvole dileguano
nel buio incerto.
Mille volte son stato così solo
dacché son vivo, e mille uguali sere
m’hanno oscurato agli occhi l’erba, i monti
le campagne, le nuvole.
Solo nel giorno, e poi dentro il silenzio
della fatale sera. Ed ora, ebbro,
torno senza di te, e al mio fianco
c’è solo l’ombra.
E mi sarai lontano mille volte, 
e poi, per sempre. Io non so frenare
quest’angoscia che monta dentro al seno;
essere solo.

(Pier Paolo Pasolini, “Senza di te tornavo“, da “Tutte le poesie”, Volume 2, “I Meridiani” Mondadori, 2003)

 

 

 

Edward Hopper (1882-1967), Opere (video da www.restaurars.altervista.org)

 

 

 

 

“Dance The Love – Una stella Vico Equense. Le interviste – Le testimonianze”. Il nuovo libro di Raffaele Lauro e Riccardo Piroddi

 

 

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Questa pubblicazione, firmata da Raffaele Lauro e Riccardo Piroddi, in uscita a dicembre 2016, in solo formato eBook, raccoglie, in ordine cronologico, nella versione italiana e, di seguito, in quella inglese, le interviste rilasciate da Lauro, autore del romanzo “Dance The Love – Una stella a Vico Equense”, terzo e ultimo capitolo de “La Trilogia Sorrentina”, e le testimonianze dei relatori, raccolte ed editate da Piroddi, alle manifestazioni culturali di presentazione dell’opera, dal luglio al novembre 2016, da Vico Equense (27 luglio) a Presenzano (19 novembre). Un omaggio collettivo alla protagonista del romanzo, la grande danzatrice russa Violetta Elvin, nata Prokhorova. Un ringraziamento doveroso agli organizzatori delle manifestazioni e ai relatori, per il loro prezioso contributo di riflessione sull’opera.

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La seconda versione del celebre dipinto di Henri Matisse, “La Danse” (1910, olio su tela, 260×391 cm), conservato presso il Museo dell’Hermitage di San Pietroburgo, ispira la copertina del libro. Il capolavoro fu commissionato da Sergej Ščukin, grande collezionista d’arte russo, il quale acquistava, con regolarità, i lavori del pittore francese. Sulla cover, realizzata da Teresa Biagioli per la GoldenGate Edizioni, viene riportato anche un commento di Matisse sul quadro, nel quale predominano tre colori (il blu, il rosso e il verde): “Il mio obiettivo è rappresentare un’arte equilibrata e pura, un’arte che non inquieti né turbi. Desidero che l’uomo stanco, oberato e sfinito, ritrovi, davanti ai miei quadri, la pace e la tranquillità”.

 

11700781_10206607167772129_1840801441274742818_oRaffaele Lauro e Riccardo Piroddi nel luglio 2015

 

 

 

Pietro Bembo e l’evoluzione della lingua italiana

 

 

Presumibilmente, nemmeno Francesco Petrarca amò se stesso così tanto, quanto quest’uomo. Se il poeta aretino avesse potuto conoscerlo, certamente avrebbe trovato, come desiderò per tutta la vita, un giustissimo estimatore del suo talento e della sua opera. Pietro Bembo nacque a Venezia il 20 maggio del 1470, figlio di Bernardo, patrizio e senatore 31071della Serenissima, ed Elena Morosini. Trascorse l’infanzia seguendo un po’ dovunque il padre, soggiornando a Firenze, dove si innamorò del fiorentino e di quel modo strano di mangiarsi o non pronunciare alcune consonanti (fenomeno fonetico detto “gorgia”) e a Messina, in cui ebbe modo di imparare il greco da un maestro d’eccezione, Costantino Lascaris. Il genitore avrebbe voluto avviarlo alla carriera politica, ma Pietro preferì quella ecclesiastica, che lo portò fino alla berretta cardinalizia. Sebbene ad un uomo di chiesa dovrebbe essere precluso finanche il concetto di amore, se non rivolto a Dio, il futuro porporato non si fece mancare nulla. Pare, addirittura, che durante un lungo soggiorno a Ferrara, avesse avuto una storia al pepe con Lucrezia Borgia, sorella di Cesare e figlia di papa Alessandro VI, all’epoca sposa di Alfonso d’Este. Certo, invece, fu l’amore per Ambrogina Faustina Della Torre, detta la Morosina, dalla quale ebbe tre figli e con la quale visse sfacciatamente, in barba alla condizione di religioso. Si è sempre detto che il buongiorno si veda dal mattino e, infatti, la prima opera letteraria del Bembo fu proprio un dialogo d’amore, intitolato Gli Asolani, tre libri in prosa con qualche canzone. L’operetta è ambientata ad Asolo, cittadina in provincia di Treviso dove, nella villa della regina di Cipro, tre giovani veneziani ragionano d’amore in occasione delle nozze di una damigella della padrona di casa. Apre il tema Perottino: “L’amore è una parola. L’amore non esiste. E’ soltanto un sogno, causa di tutti i malesseri e di tutti i dolori”. Seguita il tema Gismondo: “Non è vero! L’amore è la cosa più bella che possa dare la felicità, la gioia e il piacere”. Conclude Enrico Maria Papes – no, scusate, quelli erano I Giganti (dalla canzone “Tema”, I Giganti, 1966) – conclude Lavinello: “Cari amici, voi non avete capito proprio un bel niente! L’amore è il desiderio della vera bellezza e più si è bello, tanto più si è degni d’amore”. Io aggiungerei: “Allora chi è brutto va a fare l’eremita!” Bembo certamente non lo fece, nonostante, a vedere un suo ritratto, non è che fosse proprio un adone, anzi.

Le Prose della volgar lingua e le Rime

Prose di Messer Pietro Bembo nelle quali si ragiona della volgar lingua scritte al Cardinale de’ Medici che poi è stato creato a Sommo Pontefice et detto Papa Clemente Settimo divise in tre libri. Questo è prose-di-bemboil titolo completo del dialogo, che l’Autore immagina abbia avuto luogo a Venezia, nel salotto di suo fratello Carlo, tra lo stesso Carlo, Ercole Strozzi, Federico Fregoso e Giuliano de’ Medici. Gli schieramenti: a favore del volgare, Carlo Bembo, Giuliano de’ Medici e Federico Fregoso; per il latino, Ercole Strozzi. L’oggetto principale della dotta discussione verte sulle caratteristiche della lingua da usarsi quando si vuole scrivere in volgare. Bembo, il quale parla per bocca di suo fratello, sostiene che la lingua perfetta sia il fiorentino dei grandi scrittori del Trecento. Quindi, è da impiegarsi quello di Petrarca, quando si vogliono comporre poesie, e quello di Boccaccio, quando si vuole scrivere in prosa. Ma non si ferma qui, perché tenta anche di stabilirne una grammatica, con esempi e dimostrazioni. Le Prose della volgar lingua sono state un’opera fondamentale per lo sviluppo della lingua italiana. Conclusero, in parte, quel dibattito, che andava avanti da un secolo e mezzo, sul volgare, sul latino e sui loro usi. Furono parte della base teorica di quel movimento culturale cinquecentesco, detto Classicismo, che influenzò le esperienze letterarie di quel secolo.

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L’allegro cardinale, inoltre, durante tutta la sua vita, compose sonetti e canzoni, ispirandosi interamente allo stile del Petrarca (immagine in alto). Esse rappresentano il compendio “pratico” alle Prose della volgar lingua. “Vi ho spiegato come si fa. A adesso ve ne do l’esempio”, è come se avesse voluto dire.

Crin d’oro crespo e d’ambra tersa e pura,
Ch’all’aura su la neve ondeggi e vole,
Occhi soavi e più chiari che ‘l sole,
Da far giorno seren la notte oscura.

(Crin d’oro crespo e d’ambra tersa e pura, vv. 1 – 4)

Io ardo, dissi, e la risposta invano,
Come ‘l gioco chiedea, lasso, cercai;
Onde tutto quel giorno e l’altro andai
Qual uom, ch’è fatto per gran doglia insano.

(Io ardo, dissi, e la risposta invano, vv. 1 – 4)

Amor, mia voglia e l’vostro altero sguardo,
Ch’ancor non volse a me vista serena,
mi danno, lasso, ognor sì grave pena,
ch’io temo no l’soccorso giunga tardo.

(Amor, mia voglia e l’vostro altero sguardo, vv. 1 – 4)

Se delle mie ricchezze care e tante,
E sì guardate, ond’io buon tempo vissi
Di mia sorte contento, e meco dissi:
– Nessun vive di me più lieto amante;

(Se delle mie ricchezze care e tante, vv. 1 – 4)

 

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Lectura Dantis: INFERNO. I Personaggi

 

 

LA LIBRERIA INDIPENDENTE DI SORRENTO OMAGGIA DANTE ALIGHIERI, NEL 695° ANNIVERSARIO DELLA MORTE, CON LA “LECTURA DANTIS: INFERNO. I PERSONAGGI”, REALIZZATA DA RICCARDO PIRODDI  

In occasione del 695° anniversario della morte di Dante Alighieri (14 settembre 1321 – 14 settembre 2016), la Libreria Indipendente di Sorrento rende omaggio al sommo poeta con la videoproiezione della “Lectura Dantis: INFERNO. I Personaggi”, realizzata da Riccardo Piroddi, pubblicista, blogger e autore, nel 2011, del saggio dal titolo, “Storia (non troppo seria) della Letteratura Italiana”, Edizioni Albatros. L’evento culturale si terrà sabato 17 settembre 2016, alle ore 20.00, presso i locali della libreria, in Corso Italia, 258/c, a Sorrento. “Sin dai decenni immediatamente successivi alla morte di Dante – ha dichiarato Piroddi – cominciarono a tenersi pubbliche letture dei suoi versi, sovente accompagnate da interventi analitici di commentatori. Tra i primi, Giovanni Boccaccio, nel 1373, a Firenze. La grandezza e l’immutato fascino dell’opera di Dante si aprono, oggi, alla tecnologia, pur nella secolare tradizione della lectura espressiva e della lectura esegetica. Questo è lo spirito che anima la mia realizzazione. Immagini, musiche, effetti sonori e gli stessi versi danteschi, magistralmente interpretati dalla potente voce recitante di Giulio Iaccarino, danno vita ad alcuni tra i più celebri personaggi dell’Inferno, prima cantica del Divino Poema (Paolo e Francesca, Farinata degli Uberti, Pier delle Vigne, Ugolino della Gherardesca e altri), le cui vicende storiche e poetiche saranno oggetto di mie riflessioni nel corso della serata”.

 

Lectura Dantis: INFERNO. I Personaggi”

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Il Futurismo e Filippo Tommaso Marinetti

 

 

Una decina di anni fa, mi trovavo a casa di alcuni amici dei miei genitori per festeggiare il Capodanno. Dopo aver generosamente dato fondo, insieme con uno dei loro figli, ad una bottiglia di Martini Bianco, mi aggiravo, brillo, nel salotto, aspettando che il padrone di casa ci invitasse a tavola, per dare inizio al banchetto, quando notai una stampa multicolore, sistemata sul muro, dietro un tavolo finemente intarsiato. “Quelli sono i futuristi a Parigi!”, esclamai, ricordandomi di una loro fotografia, vista qualche tempo prima in un libro sul Fascismo Futuristi-a-Parigi-nel-1912e che, molto probabilmente, l’autore della stampa aveva copiata. Chi erano, dunque, questi futuristi fotografati a Parigi, nel 1912? Da sinistra: Luigi Russolo, Carlo Carrà, Filippo Tommaso Marinetti, Umberto Boccioni e Gino Severini. Cosa fu il Futurismo? Il caposcuola fu, senza dubbio, Marinetti, il quale riuscì a contagiare altri artisti, non solo poeti o scrittori, ma anche pittori, architetti e musicisti e artisti. Il Futurismo quindi, non fu soltanto un movimento letterario, bensì interessò tutti i campi dell’arte e della cultura. Marinetti stesso, in un articolo apparso sul quotidiano francese Le Figaro, il 20 Febbraio 1909, intitolato Manifesto del Futurismo, ne aveva dato le linee generali: in primo luogo, affermò il ribrezzo per le idee del passato, spostando l’indagine artistica agli elementi della recente modernità, dalla tecnologia alla velocità, fino alla guerra, perché tutti questi elementi, a suo parere, costituivano la prova della definitiva vittoria dell’uomo sulla natura. Inoltre, quello per la modernità e la distruzione di tutto ciò che il passato rappresentava, fu un vero e proprio culto, tributato dai futuristi attraverso le loro opere. È interessante leggere alcuni punti del Manifesto di Marinetti, perché sono illuminanti per capire aspetti importanti di questo movimento:

Noi vogliamo cantare l’amor del pericolo, l’abitudine all’energia e alla temerità.
Il coraggio, l’audacia, la ribellione, saranno elementi essenziali della nostra poesia.
La letteratura esaltò fino ad oggi l’immobilità penosa, l’estasi ed il sonno. Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l’insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo ed il pugno.
Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova; la bellezza della velocità. […]
Non v’è più bellezza se non nella lotta. Nessuna opera che non abbia un carattere aggressivo può essere un capolavoro.
La poesia deve essere concepita come un violento assalto contro le forze ignote, per ridurle a prostrarsi davanti all’uomo. […]
Noi vogliamo glorificare la guerra – sola igiene del mondo – il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei liberatori, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna.
Noi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche, le accademie d’ogni specie, e combattere contro il moralismo, il femminismo e contro ogni viltà opportunistica e utilitaria.
E’ dall’Italia che noi lanciamo pel mondo questo nostro manifesto di violenza travolgente e incendiaria col quale fondiamo oggi il Futurismo perché vogliamo liberare questo paese dalla sua fetida cancrena di professori, d’archeologi, di ciceroni e d’antiquari. Già per troppo tempo l’Italia è stata un mercato di rigattieri. Noi vogliamo liberarla dagli innumerevoli musei che la coprono tutta di cimiteri.

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Marinetti redasse anche altri manifesti, tutti volti ad affermare, con forza, le nuove linee della poesia e dell’arte, del rapporto dei poeti e degli artisti con la realtà. Tra questi, il più interessante è il Manifesto tecnico della Letteratura Futurista, dell’11 maggio 1912, di cui riporto alcune parti:

Bisogna distruggere la sintassi, disponendo i sostantivi a caso, come nascono.
Si deve usare il verbo all’infinito, perché si adatti elasticamente al sostantivo e non lo sottoponga all’io dello scrittore che osserva o immagina. Il verbo all’infinito può, solo, dare il senso della continuità della vita e l’elasticità dell’intuizione che la percepisce.
Si deve abolire l’aggettivo perché il sostantivo nudo conservi il suo colore essenziale. L’aggettivo avendo in sé un carattere di sfumatura, è incompatibile con la nostra visione dinamica, poiché suppone una sosta, una meditazione.
Si deve abolire l’avverbio, vecchia fibbia che tiene unite l’una all’altra le parole. L’avverbio conserva alla frase una fastidiosa unità di tono.
Ogni sostantivo deve avere il suo doppio, cioè il sostantivo deve essere seguìto, senza congiunzione, dal sostantivo a cui è legato per analogia. Esempio: uomo-torpediniera, donna – golfo, folla – risacca, piazza – imbuto, porta – rubinetto. […]
Abolire anche la punteggiatura. Essendo soppressi gli aggettivi, gli avverbi e le congiunzioni, la punteggiatura è naturalmente annullata, nella continuità varia di uno stile vivo, che si crea da sé, senza le soste assurde delle virgole e dei punti. Per accentuare certi movimenti e indicare le loro direzioni, s’impiegheranno i segni della matematica: + – – x: = > <, e i segni musicali.

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In accordo con i contenuti di quest’ultimo manifesto è la composizione che segue, tratta da Zang Tumb Tuuum, poemetto ispirato all’assedio di Adrianopoli, durante la prima guerra dei Balcani, nel 1913:

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Incredibile a dirsi, questa è una poesia, anche se sembra un quadro. Le parole e i versi, disposti sulla pagina, in libertà, paiono descrivere un’immagine, come se il foglio fosse una tela e le parole i colori. Marinetti tuttavia, insieme con gli altri futuristi, scrisse anche poesie “normali”, secondo lo stile consolidato dall’inizio della storia dell’uomo, ovvero versi lineari di parole, con senso compiuto, senza errori di grammatica e, soprattutto, senza costringere il lettore ad acrobazie fisiche per poter leggere il tutto. Eccone una:

Veemente dio d’una razza d’acciaio,
Automobile ebbra di spazio,
che scalpiti e fremi d’angoscia
rodendo il morso con striduli denti…
Formidabile mostro giapponese,
dagli occhi di fucina,
nutrito di fiamma
e d’olî minerali,
avido d’orizzonti, di prede siderali…

(Filippo Tommaso Marinetti, All’automobile da corsa, 1908, vv. 1-9)

 

Boccioni_LaCittaCheSaleUmberto Boccioni, “La città che sale”, 1910, New York, Museo Guggenheim

 

 

 

Cecco Angiolieri e la poesia giocosa

 

 

Un uomo così sfaccendato, bighellone, perdigiorno e sfaticato, credo di non averlo mai incontrato nella storia della Letteratura Italiana. Chissà, può darsi si infastidì pure di nascere, a Cecco-AngiolieriSiena, nel 1260. Il padre Angioliero, della nobile e ricchissima schiatta degli Angiolieri, banchiere solerte e intraprendente, anche se un po’ avaro, a sua volta figlio di un finanziatore di papa Gregorio IX e dei principi di mezza Europa, Angioliero detto Solàfica, si crucciò ogni giorno della sua vita per quel rampollo così diverso da lui, anzi, proprio il suo opposto, tanto da dubitare della sua stessa paternità: “Mater semper certa est, pater numquam! Che cosa hai combinato, moglie?”, soleva ripetere alla consorte, Lisa dei Salimbeni. Nulla poté col suo erede, comunque. Anzi, dovette pure sentirsi augurare, più volte, dal figlio ingrato, la morte. Cecco frequentò le scuole dell’obbligo senza voglia, quel tanto che bastava per prendere il diploma, e si interessò giusto un pochino di politica, combattendo, con i guelfi, contro alcune città ghibelline della Toscana. Spesso fu multato perché, senza chiederne il permesso, si allontanava dal campo di battaglia, andava a imboscarsi, si sdraiava dietro qualche cespuglio e schiacciava un pisolino. Come lui stesso ci ha raccontato, ebbe tre grandi passioni: le donne, la taverna e ‘l dado. Alla sua morte, i cinque figli rifiutarono addirittura il lascito paterno perché c’erano più debiti da pagare di ciò che avrebbero ereditato. “Alla faccia vostra!”, borbottò Cecco quando, fino all’altro mondo, gli giunsero le 20-alimenti_vino_rossotaccuino_sanitatis_casanatense_4182maledizioni della prole. Fu un tipo che, in fin dei conti, volle e seppe godersi la vita: lavorò (si fa per dire!) il minimo indispensabile, spendendo tutto il suo tempo e tutte le sue fortune tra sottane, bottiglie e tavoli da gioco. Cecco era sempre allegro e prendeva in giro tutti. Di sera, all’osteria, quando alzava il gomito, avventori e puttane gli si raccoglievano intorno, non aspettando altro che lui cominciasse le sue tiritere contro le donne e contro chi lo aveva alleggerito al tavolo verde. Anche la sua poesia risentiva delle sbronze della notte prima e del suo modo spensierato e divertente di guardare in faccia alla vita. E infatti, si fece beffe, parodiandolo, dell’amore “sacro” del Dolce Stil Novo. Nei suoi versi, tra dispetti, ripicche, piatti e bicchieri rotti, morti tirati appresso, bisogno continuo di danaro e tradimenti, le donne che lo seguivano nelle bettole malfamate che frequentava, erano spesso popolane volgari, senza alcuna grazia e gentilezza, sessualmente affamate e prive di qualsiasi retta virtù. La sua poesia, per la prima volta nella storia della nostra Letteratura, raggiunse anche i ceti meno abbienti delle città, liberandosi di quell’elitismo, a volte un po’ snob, che gli stilnovisti le avevano conferito, affinché si rivolgesse soltanto a ristrette cerchie di “superiori” amanti del sapere. Sentiamoci questo vivace scambio, da morire dal ridere, tra il poeta e una certa Becchina, la figlia di un cuoiaio:

Becchin’amor! – Che vuo’, falso tradito?
Che mi perdoni. – Tu non ne se’ degno.
Merzè, per Deo! – Tu vien molto gecchito.
E verro sempre. – Che sarammi pegno?
 
La buona fé. – Tu ne se’ mal fornito.
No inver’ di te. – Non calmar, ch’i’ ne vegno.
In che fallai? – Tu sa’ ch’i’ l’abbo udito.
Dimmel’, amor. – Va’, che ti vegn’ un segno!
 
Vuo’ pur ch’i’ muoia? – Anzi mi par mill’anni.
Tu non di’ ben. – Tu m’insegnerai.
Ed i’ morrò. – Omè che tu m’inganni!
 
Die tel perdoni. – E che, non te ne vai?
Or potess’ io! – Tégnoti per li panni?
Tu tieni il cuore. – E terrò co’ tuoi’ guai.
 
(Cecco Angiolieri, Becchin’amor! – Che vuo’, falso tradito?)

Il suo componimento più famoso è una grande e insofferente presa in giro della sua famiglia, dei poeti della sua età e del suo tempo:
 
S’i’ fosse foco, arderéi l’mondo;
s’i’ fosse vento, lo tempesterei;
s’i’ fosse acqua, i’ l’annegherei;
s’i’ fosse Dio, mandereil en’ profondo;
 
s’i’ fosse papa, sare’ allor giocondo;
ché tutti crïstiani imbrigherei;
s’i’ fosse ‘mperator, sa’ che farei?
A tutti mozzarei lo capo a tondo.
 
S’i’ fosse morte, andarei da mio padre;
s’i’ fosse vita, fuggirei da lui;
similmente faria da mì madre.
 
S’ i’ fosse Cecco, com’ i’ sono e fui,
torrei le donne giovani e leggiadre:
e vecchie e laide lasserei altrui.

(Id., S’i’ fosse foco, arderéi l’mondo)

 

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Una esposizione alquanto insolita, e molto partenopea, dell’Inferno di Dante Alighieri

 

 

 

Cominciamo con fornire qualche breve ragguaglio di ordine generale sulla Divina Commedia. Dante, innanzi tutto, non la titolò mai in questo modo, ma semplicemente Comedía. Fu Giovanni Boccaccio ad aggiungere, qualche tempo dopo la morte dell’Autore, l’aggettivo Divina, perché era Dio il padrone dei luoghi visitati dal poeta. Nella Divina Commedia è raccontato il viaggio che il sommo poeta immagina di compiere nei tre regni dell’Aldilà, tra anime dannate, spiriti penitenti e beati nella gloria del Signore. Il poema è diviso in tre cantiche, l’Inferno, il Purgatorio e il Paradiso, 2composte, ciascuna, di trentatré canti di terzine, tranne l’Inferno, che ne ha uno in più, fungente da prologo generale. Il cammino, cominciato il 7 aprile 1300, giovedì santo, e finito il successivo mercoledì 13, ha come intento principale quello di mostrare agli uomini come stessero le cose dal lato dei morti, a cosa si andasse incontro se si fosse disobbedito a Dio e quali fossero, invece, i premi, se si fosse fatta la sua volontà. Il pellegrino non è solo, perché nell’Inferno e nel Purgatorio  è il grande letterato latino Virgilio ad accompagnarlo, mentre, dall’ingresso del Paradiso Terrestre, è Beatrice, la sua Beatrice, a guidarlo sino a Dio. L’Autore, sostituendo la sua giustizia a quella divina, riempie il mondo ultraterreno dei personaggi più diversi: dai re ai grandi condottieri, dagli scrittori antichi ai filosofi, dai protagonisti delle storie della Bibbia e della mitologia classica a quelli dei romanzi cortesi, fino ai concittadini, morti qualche anno prima che cominciasse a scrivere. Questo perché, i lettori, conoscendo di chi si trattava, rimanessero maggiormente impressionati in negativo o in positivo. Bene, ora possiamo andare all’inferno!

Dante si è perso in una selva oscura ed è già impaurito di suo, quando gli si parano davanti tre bestiacce: un leone, una lonza (lince) e una lupa. Il poveretto non sa più che pesci prendere, ma, per fortuna, arriva a salvarlo Virgilio e, insieme, cominciano a scendere verso il baratro. L’Inferno ha la forma di un cono, che arriva fino al centro della Terra, formatosi quando Dio buttò giù dal suo regno Lucifero, rimasto conficcato nel fondo alla botticelli-infernovoragine. Il luogo della dannazione infinita, tra burroni, precipizi, ripe, dirupi e fossi, è diviso in nove cerchi, nei quali i dannati pagano per le loro colpe: quanto più grossa l’hanno combinata durante la vita, tanto più giù scendono. Si comincia dall’antinferno, in cui sono quelli che vissero tanto per vivere, forse solo perché erano nati (gli ignavi). Oltrepassata la porta dalla scritta terribile della Città Dolente e il fiume Acheronte, dove il nocchiero Caronte prende a remate sulla schiena le animacce che non si muovono a salire sulla sua barca, si trova il Limbo, nel quale bambini e persone perbene nate prima di Cristo sospirano e si struggono. Da lì, passando davanti a Minosse, il giudice infernale, il quale attorciglia la coda tante volte quante il numero del cerchio dove lo spiritaccio deve andare a scontare la sua pena, si trovano i veri maledetti da Dio. Nei primi sei cerchi ci sono i cosiddetti incontinenti: quelli che pensavano sempre alla stessa cosa (i lussuriosi); quelli che stavano sempre a masticare qualcosa e ad ingozzarsi (i golosi); quelli che avevano la mano corta, i genovesi e gli scozzesi (gli avari) e quelli che ce l’avevano bucata (i prodighi); quelli che si incazzavano per un nonnulla e quelli che se ne fregavano di ogni cosa per tutta la vita (gli iracondi e gli accidiosi). Nel settimo cerchio Dante trova i violenti contro il prossimo, i violenti contro se stessi e i violenti contro Dio, l’arte e la natura: quelli che dicevano la verità contro le bugie della Chiesa (gli eretici); quelli che avevano il grilletto facile e quelli che ti scamazzavano per rubarti pure le mutande e i calzini (gli assassini e i briganti); quelli che l’avevano fatta finita prima del tempo e quelli che guadagnavano duemila euro al mese e ne spendevano cinquemila (i suicidi e gli scialacquatori); quelli che nominavano Dio, la Madonna e i santi senza motivo, specialmente all’interno di volgari e colorite espressioni (i bestemmiatori); quelli che ti prestavano ventimila euro e dopo un mese ne volevano cinquantamila, sennò ti facevano incendiare il negozio (gli usurai); quegli uomini col vizio di andare con gli altri uomini (i sodomiti). Nell’ottavo cerchio, invece, ci sono i fraudolenti contro chi non si fida: pierdellevignequelli che cercavano di fregarti con il loro bell’aspetto (i seduttori); quelli che volevano imbrogliarti con le belle parole (i lusingatori); quelli che vendevano o compravano cose sacre fuori dalle sagrestie (i simoniaci); quelli che predicevano il futuro, pure se ci azzeccavano (gli indovini); quelli che vivevano facendo imbrogli e pacchi vari (i barattieri); quelli che davanti ti dicevano che eri bravo e dietro che non eri buon a niente (gli ipocriti); quelli che avevano le mani lunghe (i ladri); quelli che con i loro consigli ti sgarrupavano (i cattivi consiglieri); quelli che ti facevano fare a mazzate con tutti (i seminatori di discordia); quelli che stampavano e spacciavano soldi e monete false (i  falsari). Infine, il nono cerchio, l’ultima zona, divisa in quattro parti, proprio la peggiore, patibolo eterno dei fraudolenti contro chi si fida: la Caina, con i traditori dei parenti, da Caino, che aveva ucciso il fratello Abele; l’Antenora, con i traditori della patria, da Antenore, che aveva venduto la città di Troia ai greci; la Tolomea, con i traditori degli ospiti, da Tolomeo, un sacerdote biblico che aveva fatto uccidere il suocero e i cognati dopo averli invitati a pranzo a casa sua; la Giudecca, con i traditori dei benefattori, da Giuda, il traditore di Cristo, sommo benefattore dell’umanità. Tutti questi disgraziati sono affogati nel fiume ghiacciato Cocito. E, nell’ultimo posto possibile, il buco del c..o del mondo, inficcatovi come un pecorone, Lucifero, un mostro con le ali di pipistrello e tre teste, nelle cui bocche maciulla i tre più schifosi peccatori di tutta la storia dell’umanità: Giuda, Bruto e Cassio, responsabili della morte dei due veri rappresentanti di quei poteri che, all’epoca di Dante, si dividevano il mondo: il religioso (Gesù) e il civile (Giulio Cesare).

Per comminare le pene alle anime infami, il poeta ricorre al sistema del contrappasso: in base a quello che di male avevano commesso nella vita, così pagheranno per l’eternità. I lussuriosi, ad esempio, lasciatisi trascinare dall’impeto delle passioni, sono sbattuti di qua e di là da venti fortissimi; i suicidi, che avevano voluto privarsi con violenza del loro corpo, sono imprigionati in alberelli secchi e brutti; i lusingatori, dopo aver coperto tutti di belle parole, false come loro, sono immersi nella merda, anche oltre il collo. Dante non si preoccupa affatto di usare un linguaggio adatto a questo luogo: bestemmie, male parole e mandate affanculo, lungo i canti, sono all’ordine del giorno, anzi, della notte, visto il posto. L’intera cantica, con i suoi dannati, è pervasa da una negatività, da un buio, da un rumore assordante e da una puzza così forte da apparire reale e da sembrare vera, soprattutto a quanti ne leggevano allora. Nonostante ciò, da questo vallone di pianti, di strilli e di tormenti vengono fuori, sublimate, figure memorabili, rimaste nella storia della letteratura mondiale: Paolo e Francesca, amanti anche nella dannazione, Farinata degli Uberti, valoroso nemico ghibellino dei guelfi di Dante, Pier delle Vigne, il consigliere dell’imperatore Federico II di Svevia, Brunetto Latini, il maestro di gioventù del poeta, Ulisse, che invitò i compagni a seguir virtute e canoscenza, e il conte Ugolino della Gherardesca, di cui colpisce, ancora oggi, la fine orrenda, insieme con i figli, nella Torre della Muda.

 

 

Violetta Elvin, étoile della danza di fama mondiale, firma l’autorizzazione alla pubblicazione di “Dance The Love – Una Stella a Vico Equense”, terzo e ultimo romanzo de “La Trilogia Sorrentina” di Raffaele Lauro

 

 

Violetta Elvin, nata Prokhorova e vedova di Fernando Savarese, ha firmato, a Vico Equense, Palazzo Savarese, insieme con il figlio Antonio Vasilij Savarese, nelle mani di Riccardo Piroddi, l’autorizzazione alla pubblicazione del romanzo “Dance The Love – Una stella a Vico Equense”, il terzo e ultimo romanzo de “La Trilogia Sorrentina” di Raffaele Lauro, edito dalla GoldenGate Edizioni. L’Autore, per questo lavoro, si è avvalso della consulenza di Antonio Vasilij Savarese, Salvatore Ferraro, Antonio Cioffi e Riccardo Piroddi. La nuova e attesissima opera dello scrittore sorrentino sarà presentata a Vico Equense, in anteprima nazionale, a fine luglio 2016, nell’ambito del Social World Film Festival 2016, la Mostra Internazionale del Cinema Sociale, diretta dal regista Giuseppe Alessio Nuzzo, con una serata di gala, in onore della grande danzatrice russa. Dopo Vico Equense, il libro sarà presentato a Meta, a Piano di Sorrento, a Sorrento, a Massa Lubrense, a Positano, a Capri e a Roma, nella storica location cinquecentesca del Casale di San Pio V, nuova e prestigiosa sede della Link Campus University di Roma, in attesa delle programmate tappe di Londra e di Mosca.

 

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