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L’Editto di Milano e la falsa esclusività del Cristianesimo

 

 

Sono anni che mi chiedo il motivo per cui, su molti libri di storia, anche di una certa autorevolezza, e, soprattutto, in documentari e programmi televisivi, venga continuamente propugnato un sostanziale falso storico: quello secondo cui l’Editto di Milano del 313 d. C., emanato dall’imperatore Costantino, avesse elevato il Cristianesimo a religione ufficiale dell’impero romano. Falso! Falso! Falso! L’editto, in realtà, non decretò alcuna esclusività al Cristianesimo, in quanto consentì la pratica libera della propria religione a tutti coloro che avessero un credo. Le uniche concessioni specifiche a quella particolare confessione consistettero nell’abolizione delle persecuzioni e nella restituzione, ai cristiani, delle chiese e dei beni precedentemente confiscati. Duemila anni dopo, nell’opinione comune, specialistica o meno, si continua a sostenere, con molta leggerezza, questo falso sostanziale. Per ristabilire la verità dobbiamo attendere l’opera di un altro Lorenzo Valla, autore, nel 1517, del De falso credita et ementita Constantini donatione declamatio (Discorso sulla donazione di Costantino, contraffatta e falsamente ritenuta vera), scritto in cui il celebre umanista denunciò la falsità della cosiddetta Donazione di Costantino, documento (contraffatto, nell’VIII secolo, dalla stessa curia pontificia) sul quale, per secoli, la Chiesa Cattolica Romana aveva fondato la legittimazione del proprio potere temporale nell’Europa Occidentale?

 

 

 

 

 

 

Baldassarre Castiglione e Il Cortegiano

 

Baldassarre, o Baldesar, o Baltasar, chiamatelo come vi pare, nacque a Casatico di Marcarla, vicino Mantova,portrait-of-baldassare-castiglione-1516 il 6 dicembre 1478, in una famiglia di aristocratici che frequentavano la corte dei marchesi Gonzaga, nel piccolo principato lombardo. Lungo tutta la sua vita non riuscì mai a stare lontano dalle corti, così piene di gente raffinata e perbene. Fu ad Urbino, dai Montefeltro e dai Della Rovere, che erano succeduti ai primi, a Milano, da Ludovico il Moro, a Roma all’epoca il sacco dei lanzichenecchi del 1527, a Madrid, inviato da papa Clemente VII come nunzio apostolico. Due anni dopo, morì, a Toledo, di febbre pestilenziale. L’imperatore Carlo V in persona ne pianse la morte, dicendo di aver perso uno dei migliori cavalieri del mondo.

Il Cortegiano

La fama di Castiglione è dovuta a questo dialogo in quattro libri. L’opera è ambientata, nel 1507, nel magnifico palazzo ducale di Urbino. Io ho avuto la fortuna di trascorrere quattro anni della mia vita in questa splendida città a causa dei miei studi universitari. La porterò sempre nel mio cuore. Ancora oggi, ne ripercorro con mente le sue stradine, Piazza della Repubblica, Piazza Rinascimento, il Palazzo ducale. A proposito di quest’ultimo: tra gli studenti universitari che frequentano la città c’è una sorta di leggenda riguardo il palazzo che fu del duca Federico da Montefeltro: chi lo visita durante il corso di studi non si laurea più! Per quanto mi riguarda, proprio durante gli anni accademici, ci sono stato quattro volte, mi sono laureato in quattro anni e mezzo e pure col massimo dei voti!

andrea_mantegna_006_corte_di_mantova_1471Andrea Mantegna, “La camera degli sposi” (1465-1474), Mantova, Castello di San Giorgio

Il padrone di casa o, meglio, di castello, il duca Guidobaldo da Montefeltro, è ammalato ed è a letto nelle sue stanze. Spetta, dunque, alla moglie, la duchessa Elisabetta, e alla sua dama, la signora Emilia Pio, intrattenere i nobili e gentili ospiti: su proposta di Federico Fregoso si intavola25773 una discussione riguardo il cortigiano perfetto. Invitati dei duchi a palazzo sono Ludovico da Canossa, Ottaviano Fregoso, Giuliano de’ Medici – questo Medici, nella letteratura del Rinascimento, era come Matteo Salvini, stava dappertutto! – Pietro Bembo, Bernardo Dovizi da Bibbiena, Cesare Gonzaga ed altri. Dai discorsi dei partecipanti viene fuori una nuova idea e una fisionomia innovativa dell’uomo di corte: egli deve essere nobile di stirpe, robusto, deve saper maneggiare le armi, deve essere amante dell’arte e della musica, capace di comporre versi, arguto e sottile nella conversazione. Tutti i suoi comportamenti devono sprizzare impressioni di grazia e di eleganza, cui si devono conformare i modi di vestire e di parlare, di muoversi e di mangiare, di apparire e di essere. Come lui, la perfetta dama di palazzo. Ma, sopra ogni cosa, deve regnare la sprezzatura, ovvero la capacità di essere disinvolti, dando ad intendere che qualunque cosa si stia facendo, la si stia facendo senza sforzo, naturalmente. In una parola, la vita del cortigiano deve essere una commedia in cui recitare al meglio la propria parte!

 

 

Una particolare interpretazione dei peccati e dei peccatori nell’Inferno di Dante Alighieri

 
 

Il luogo della dannazione infinita, tra burroni, precipizi, ripe e dirupi, è diviso in nove cerchi, nei quali i dannati pagano per le loro colpe: quanto più grossa l’hanno combinata durante la vita, tanto più giù scendono. Si comincia dall’antinferno, in cui sono quelli che vissero tanto per vivere, forse solo perché erano nati (gli ignavi). Oltrepassata la porta dalla scritta terribile (“Lasciate ogni speranza, voi ch’intrate”) della Città Dolente e il fiume Acheronte, dove il nocchiero Caronte prende a remate sulla schiena le animacce che non sono svelte a salire sulla sua barca, si trova il Limbo, nel quale bambini e persone perbene nate prima di Cristo sospirano e si struggono. Da lì, passando davanti a Minosse, il giudice infernale, il quale attorciglia la coda tante volte quante il numero del cerchio dove lo spiritaccio deve andare a scontare la sua pena, si trovano i veri e propri maledetti da Dio. Nei primi sei cerchi ci sono i cosiddetti incontinenti: quelli che pensavano sempre alla stessa cosa (i lussuriosi); quelli che stavano sempre a masticare qualcosa e ad ingozzarsi (i golosi); quelli che avevano la mano corta, i genovesi e gli scozzesi (gli avari) e quelli che ce l’avevano bucata (i prodighi); quelli che si incazzavano per un nonnulla e quelli che, per tutta la vita, se ne fregavano di ogni cosa (gli iracondi e gli accidiosi). Nel settimo cerchio Dante trova i violenti contro il prossimo, i violenti contro se stessi e i violenti contro Dio, l’arte e la natura: quelli che dicevano la verità contro le bugie della Chiesa (gli eretici); quelli che avevano il grilletto facile e quelli che ti scamazzavano per rubarti pure le mutande e i calzini (gli assassini e i briganti); quelli che l’avevano fatta finita prima del tempo e quelli che guadagnavano duemila euro al mese e ne spendevano cinquemila (i suicidi e gli scialacquatori); quelli che nominavano Dio, la Madonna e i santi senza motivo, specialmente all’interno di volgari e colorite espressioni (i bestemmiatori); quelli che ti prestavano ventimila euro e dopo un mese ne volevano cinquantamila, sennò ti facevano incendiare il negozio (gli usurai); quegli uomini col vizio di andare con gli altri uomini (i sodomiti). Nell’ottavo cerchio, invece, ci sono i fraudolenti contro chi non si fida: quelli che cercavano di fregarti con il loro bell’aspetto (i seduttori); quelli che volevano imbrogliarti con le belle parole (i lusingatori); quelli che vendevano o compravano cose sacre fuori dalle sagrestie (i simoniaci); quelli che predicevano il futuro, pure se ci azzeccavano (gli indovini); quelli che vivevano facendo imbrogli e pacchi vari (i barattieri); quelli che davanti ti dicevano che eri bravo e dietro che non eri buon a niente (gli ipocriti); quelli che avevano le mani lunghe (i ladri); quelli che con i loro consigli ti sgarrupavano (i cattivi consiglieri); quelli che ti facevano fare a botte con tutti (i seminatori di discordia); quelli che stampavano e spacciavano soldi e monete false (i falsari). Infine, il nono cerchio, l’ultima zona, divisa in quattro parti, proprio la peggiore, patibolo eterno dei fraudolenti contro chi si fida: la Caina, con i traditori dei parenti, da Caino, uccisore del fratello Abele; l’Antenora, con i traditori della patria, da Antenore, che aveva venduto la città di Troia ai greci; la Tolomea, con i traditori degli ospiti, da Tolomeo, un sacerdote biblico che aveva fatto uccidere il suocero e i cognati dopo averli invitati a pranzo a casa sua; la Giudecca, con i traditori dei benefattori, da Giuda, il traditore di Cristo, sommo benefattore dell’umanità. Tutti questi disgraziati sono affogati nel fiume ghiacciato Cocito. E, nell’ultimo posto possibile, il buco del c..o del mondo, inficcatovi come un pecorone, Lucifero, mostro con le ali di pipistrello e tre teste, nelle cui bocche maciulla i tre più schifosi peccatori di tutta la storia dell’umanità: Giuda, Bruto e Cassio, responsabili della morte dei due veri rappresentanti di quei poteri che, all’epoca di Dante, si contendevano il mondo: il religioso (Gesù) e il civile (Giulio Cesare).

 
Pubblicato il 15 giugno 2017 su La Lumaca
 
 
 

Indovina indovinello

LE PRIME TESTIMONIANZE SCRITTE DELLA LINGUA DELLA LETTERATURA ITALIANA

 

Non è possibile stabilire una data precisa o un punto di partenza della Letteratura in italiano. Si può, però, cominciare con l’analizzare cosa stesse accadendo, in Italia, intorno all’anno Mille, alla lingua di quella che sarebbe poi stata la Letteratura Italiana. Il latino continuava ad essere l’unico codice linguistico scritto, adoperato da tutti coloro che “facevano” cultura. Per quanto riguarda l’orale, invece, le cose stavano in modo molto diverso. La lingua volgare (non perché maleducata, ma perché parlata dal volgo, il popolo), pian piano, si stava diffondendo in tutta la Penisola. Non in modo uniforme, tuttavia, quanto piuttosto su base locale, con caratteristiche diverse, anche estremamente diverse, a seconda delle aree geografiche e delle differenti condizioni che queste presentavano. Si generarono, così, quelle varietà linguistiche, quegli idiomi, quei vernacoli (chiamateli come volete!), che sarebbero stati definiti dialetti e che, ancora oggi, distinguono le parlate delle varie regioni italiane. Gli uomini e le donne che non conoscevano il latino, né scritto, né orale, erano tantissimi, pressoché tutti. Era necessario, pertanto, usare una lingua che questi avessero potuto capire e riprodurre facilmente, specialmente quando si trattava di scrivere. La soluzione fu semplice: abbandonare il latino dei dotti e di quelli che erano andati a scuola e scrivere come si parlava: in volgare. Tutti avrebbero capito! Per questo motivo, si cominciò a impiegare la lingua volgare per redigere tutti quegli atti, comuni e ordinari, di cui dover conservare prove e memoria (si è detto fin dall’antichità: “Verba volant, scripta manent!”) e che tutti, proprio tutti, avrebbero dovuto, per varie ragioni, comprendere adeguatamente: documenti notarili per la vendita di terreni e di proprietà; statuti e ordinamenti delle città, lettere di corrispondenza, eccetera. Le prime testimonianze che segnarono l’inizio di ciò che sarebbe, poi, diventata la lingua italiana furono elaborate soprattutto in questi ambiti.

L’indovinello veronese

Se pareba boves, alba pratalia araba, albo versorio teneba, negro semen seminaba.”

Per aiutarvi a trovare la soluzione, lo traduco: “Tirava davanti a sé un paio di buoi, arava prati bianchi, usava un aratro bianco e seminava un seme nero.” Questo famosissimo indovinello, scritto forse da un amanuense o da un maestro elementare che amava rendere le sue lezioni più giocose, fu ritrovato, nel 1924, in un manoscritto nella Biblioteca Capitolare di Verona. imagesS7Q5ESYUEsso rappresenta, nella sua forma, il lento passaggio dal latino al volgare. Certo, non è che sia troppo simile al nostro italiano, ma è meglio di niente. La soluzione? La scrittura. I buoi sono le dita, il prato bianco è il foglio, l’aratro è la penna d’oca e il seme nero è l’inchiostro.

L’iscrizione di San Clemente a Roma

Risale alla fine del IX secolo, una sorta di fumetto parietale, con tanto di vignette, ancora conservato nella Chiesa di San Clemente, a Roma. La scena è di quelle da morire da ridere: tre o quattro servi che trascinano una statua, credendo sia un uomo, mentre il loro padrone li riempie di bestemmie. Sisinnio, prefetto romano, aveva una moglie, Teodora. Era seccato che lei fosse stata convertita al Cristianesimo e incazzato perché San Clemente l’aveva convinta a rimanere casta. untitledSospettando che la bella consorte se la intendesse proprio con il santo, li fece pedinare entrambi, li acchiappò sul fatto in una catacomba e ordinò ai suoi servi di arrestarli. Questi, miracolosamente, furono accecati e portarono via una statua, invece di quel furbacchione di San Clemente, mentre Sisinnio strillava: “Falite dereto co lo palo, Carvoncelle, Albertel trai, Gosmari, traite. Fili de le pute, traite.” (Fate leva da dietro con il palo. Carvoncello, Alberto tira, Gosmari, tirate. Figli di zoccola, tirate!).  

Il Placito capuano

A testimoniare la sostituzione del latino con il volgare nella redazione di quei documenti che dovevano essere letti e capiti da tutti, c’è Placito capuano. images0DY1U84BPiù o meno nel 960, Rodelgrino d’Aquino litigò con i monaci dell’abbazia di Montecassino, a causa dei confini di proprietà tra il monastero e le sue terre. Si presentarono davanti al giudice Arechisi di Capua il quale, ascoltati tre testimoni, deponenti a favore dei Benedettini, scrisse: “Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte sancti Benedicti”. (So che quelle terre, entro quei confini di cui qui si parla, le ha possedute per trent’anni l’abbazia di San Benedetto).

La Carta di Travale

Nell’Archivio storico della Diocesi di Volterra è conservata una pergamena del XII secolo, conosciuta come Carta di Travale. Vi sono riportate poche parole, giusto due battute, ma ci interessano molto. Ancora una lite, questa volta per il possesso di un castello, tra due fratelli: il conte Ranieri Pannocchieschi e Galgano, vescovo di Volterra. Due testimoni riferirono: “Io de presi pane e vino per li maccioni a Travale”. E l’altro: “Guaita, guaita male, non mangiai ma mezzo pane.” L’importante che, alla fine, ci sia stato qualcosa da mangiare per tutti!

 

John William Waterhouse, Giacomo Leopardi e la Primavera

 

 

Perchè i celesti danni
ristori il sole, e perchè l’aure inferme
Zefiro avvivi, onde fugata e sparta
delle nubi la grave ombra s’avvalla;
credano il petto inerme
gli augelli al vento, e la diurna luce
novo d’amor desio, nova speranza
ne’ penetrati boschi e fra le sciolte
Ppuine induca alle commosse belve;
forse alle stanche e nel dolor sepolte
umane menti riede
la bella età, cui la sciagura e l’atra
face del ver consunse
innanzi tempo? Ottenebrati e spenti
di febo i raggi al misero non sono
in sempiterno? Ed anco,
Primavera odorata, inspiri e tenti
questo gelido cor, questo ch’amara
nel fior degli anni suoi vecchiezza impara?

vivi tu, vivi, o santa
Natura? vivi e il dissueto orecchio
della materna voce il suono accoglie?
Già di candide ninfe i rivi albergo,
placido albergo e specchio
furo i liquidi fonti. Arcane danze
d’immortal piede i ruinosi gioghi
scossero e l’ardue selve (oggi romito
nido de’ venti): e il pastorel ch’all’ombre
meridiane incerte ed al fiorito
margo adducea de’ fiumi
le sitibonde agnelle, arguto carme
sonar d’agresti Pani
udì lungo le ripe; e tremar l’onda
vide, e stupì, che non palese al guardo
la faretrata Diva
scendea ne’ caldi flutti, e dall’immonda
polve tergea della sanguigna caccia
il niveo lato e le verginee braccia.

Vissero i fiori e l’erbe,
vissero i boschi un dì. Conscie le molli
aure, le nubi e la titania lampa
fur dell’umana gente, allor che ignuda
te per le piagge e i colli,
ciprigna luce, alla deserta notte
con gli occhi intenti il viator seguendo,
te compagna alla via, te de’ mortali
pensosa immaginò. Che se gl’impuri
cittadini consorzi e le fatali
ire fuggendo e l’onte,
gl’ispidi tronchi al petto altri nell’ime
selve remoto accolse,
viva fiamma agitar l’esangui vene,
spirar le foglie, e palpitar segreta
nel doloroso amplesso
dafne o la mesta Filli, o di Climene
pianger credè la sconsolata prole
quel che sommerse in Eridano il sole.

Né dell’umano affanno,
igide balze, i luttuosi accenti
voi negletti ferìr mentre le vostre
paurose latebre Eco solinga,
non vano error de’ venti,
ma di ninfa abitò misero spirto,
cui grave amor, cui duro fato escluse
delle tenere membra. Ella per grotte,
per nudi scogli e desolati alberghi,
le non ignote ambasce e l’alte e rotte
nostre querele al curvo
etra insegnava. E te d’umani eventi
disse la fama esperto,
musico augel che tra chiomato bosco
or vieni il rinascente anno cantando,
e lamentar nell’alto
ozio de’ campi, all’aer muto e fosco,
antichi danni e scellerato scorno,
e d’ira e di pietà pallido il giorno.

Ma non cognato al nostro
il gener tuo; quelle tue varie note
dolor non forma, e te di colpa ignudo,
men caro assai la bruna valle asconde.
Ahi ahi, poscia che vote
son le stanze d’Olimpo, e cieco il tuono
per l’atre nubi e le montagne errando,
gl’iniqui petti e gl’innocenti a paro
in freddo orror dissolve; e poi ch’estrano
il suol nativo, e di sua prole ignaro
le meste anime educa;
tu le cure infelici e i fati indegni
tu de’ mortali ascolta,
vaga natura, e la favilla antica
rendi allo spirto mio; se tu pur vivi,
e se de’ nostri affanni
cosa veruna in ciel, se nell’aprica
terra s’alberga o nell’equoreo seno,
pietosa no, ma spettatrice almeno. 

(Giacomo Leopardi, “Alla Primavera o delle favole antiche“, gennaio 1822)

 

 

John William Waterhouse, “Flora and the Zephyrus” (1898), olio su tela (video da www.restaurars.altervista.org)

 

 

 

 

Qualche breve considerazione sulla lingua italiana e quella napoletana, suscitatami da alcune domande di un amico

 

 

Perché l’italiano è diventato la lingua ufficiale dell’Italia dopo l’Unità? C’entra qualcosa Alessandro Manzoni?

L’italiano che noi parliamo oggi non è una derivazione del “volgare” usato da Manzoni (lui già scriveva in italiano), ma, piuttosto, della lingua di Dante, Petrarca e Boccaccio, raffinatasi, però, nei secoli. Sono state alcune delle opere letterarie, scritte nella lingua che si parlava a downloadFirenze nel ‘300 (lingua che non era dissimile da quelle parlate in tutte le zone d’Italia in quel periodo, proprio perché, anche i dialetti italici, derivavano comunque dal latino), a far diffondere quella lingua attraverso la lettura delle opere con cui erano state scritte. La lingua italiana si è diffusa grazie alla lettura di opere come la Divina Commedia, Il Canzoniere o il Decameron. Non solo i contenuti, quindi, ma anche la stessa forma! Ecco un esempio per mostrare come una lingua acquisti dignità e si diffonda attraverso le opere scritte con essa: Dante Alighieri, da uomo di cultura appassionato di poesia, nel De Vulgari Eloquentia, un’opera tutta sulle lingue, scrisse questo della lingua siciliana: “Indagheremo per primo la natura del siciliano, poiché vediamo che il volgare siciliano si attribuisce fama superiore a tutti gli altri: ché tutto quanto gli Italici producono in fatto di poesia si chiama siciliano”. Il Sommo Poeta scrisse questo perché, all’epoca sua, i sonetti dei poeti della cosiddetta scuola siciliana (quelli raccolti intorno alla corte di Federico II, a Palermo) erano famosi e letti in tutta Italia. Anzi, sulla scorta delle poesie dei siciliani, proprio in Toscana, fiorirono, prima, i cosiddetti poeti siculo-toscani, e, poi, gli stilnovisti, cui Dante stesso, in gioventù. Se non ci fossero stati i poeti siciliani, probabilmente Dante non avrebbe sentito parlare nemmeno della lingua siciliana. È come se dicessi: conosco William Wallace solo perché ho visto il film Braveheart, famoso e diffuso in tutto il mondo, non perché io sia stato in Scozia o abbia studiato la sua storia! Ecco, pertanto, cosa è successo: grandi opere sono state scritte in una variante geografica dell’italiano (il fiorentino del ‘300); queste si sono diffuse perché belle e interessanti; a partire dal ‘500 molti letterati, tra cui Pietro Bembo, grazie a queste opere cominciarono a occuparsi di questioni di lingua, indicando quella di Petrarca specialmente, come la lingua (italiana) più pura e da adottarsi, prima nella comunità dei dotti, e, poi, come lingua di tutta la Penisola (i tentativi di unire l’Italia, almeno dal punto di vista linguistico, sono cominciati molto prima dei Savoia); da un lato i dotti, dall’altro il popolo, pian piano fecero sì che la comunicazione, scritta e orale, si uniformasse ad un unico registro linguistico, comprensibile da tutti, dalle Alpi alla Sicilia.

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E Alessandro Manzoni?

Manzoni compì soltanto un’operazione volta a purificare, dal suo punto di vista, l’italiano che si parlava nella prima metà dell’Ottocento. Lo scrittore milanese non elevò alcunché manzoni-01a lingua nazionale, raffinò soltanto quella parlata correntemente. Poi, si inventò la storiella di essere andato a sciacquare i panni in Arno, cioè, metaforicamente, di aver purificato la lingua italiana, facendola tornare alle origini, quelle fiorentine, per i motivi legati alle opere famose prodotte in fiorentino, di cui ho scritto sopra (anche la lingua, come i territori che, poi, sarebbero diventati Regno d’Italia, è stata sottoposta alle numerosissime dominazioni straniere, che hanno inevitabilmente lasciato tracce della loro lingua nell’italiano. Per questo Manzoni volle purificarla).

A proposito della nostra lingua napoletana?

Per quanto riguarda il napoletano, esso è una vera e propria lingua, oggi riconosciuta anche dall’UNESCO, che ha la stessa origine dell’italiano (dal latino) e che, come l’italiano, viene definito “idioma romanzo” (le mie pagine ti saranno d’aiuto a comprendere. Quando le leggerai, puoi riferire al napoletano tutte le caratteristiche e gli sconvolgimenti di cui io parlo a proposito dell’italiano). Quindi, tra italiano e napoletano, nessuna lingua è precedente all’altra. Sono, in definitiva, due varianti del latino che si parlavano in zone geograficamente contigue e, dunque, simili tra loro. Per quanto riguarda il glorioso Regno delle Due Sicilie, la lingua ufficiale, o, meglio, le lingue ufficiali, erano il napoletano, parlato a nord dello stretto di Messina, e il siciliano, che si parlava al di là dello stretto (il siciliano ha caratteristiche “storiche” simili al napoletano ed è anch’esso una lingua).

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Edward Hopper, Pier Paolo Pasolini e la Solitudine

 

 

Senza di te tornavo, come ebbro,
non più capace d’esser solo, a sera
quando le stanche nuvole dileguano
nel buio incerto.
Mille volte son stato così solo
dacché son vivo, e mille uguali sere
m’hanno oscurato agli occhi l’erba, i monti
le campagne, le nuvole.
Solo nel giorno, e poi dentro il silenzio
della fatale sera. Ed ora, ebbro,
torno senza di te, e al mio fianco
c’è solo l’ombra.
E mi sarai lontano mille volte, 
e poi, per sempre. Io non so frenare
quest’angoscia che monta dentro al seno;
essere solo.

(Pier Paolo Pasolini, “Senza di te tornavo“, da “Tutte le poesie”, Volume 2, “I Meridiani” Mondadori, 2003)

 

 

 

Edward Hopper (1882-1967), Opere (video da www.restaurars.altervista.org)

 

 

 

 

“Dance The Love – Una stella Vico Equense. Le interviste – Le testimonianze”. Il nuovo libro di Raffaele Lauro e Riccardo Piroddi

 

 

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Questa pubblicazione, firmata da Raffaele Lauro e Riccardo Piroddi, in uscita a dicembre 2016, in solo formato eBook, raccoglie, in ordine cronologico, nella versione italiana e, di seguito, in quella inglese, le interviste rilasciate da Lauro, autore del romanzo “Dance The Love – Una stella a Vico Equense”, terzo e ultimo capitolo de “La Trilogia Sorrentina”, e le testimonianze dei relatori, raccolte ed editate da Piroddi, alle manifestazioni culturali di presentazione dell’opera, dal luglio al novembre 2016, da Vico Equense (27 luglio) a Presenzano (19 novembre). Un omaggio collettivo alla protagonista del romanzo, la grande danzatrice russa Violetta Elvin, nata Prokhorova. Un ringraziamento doveroso agli organizzatori delle manifestazioni e ai relatori, per il loro prezioso contributo di riflessione sull’opera.

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La seconda versione del celebre dipinto di Henri Matisse, “La Danse” (1910, olio su tela, 260×391 cm), conservato presso il Museo dell’Hermitage di San Pietroburgo, ispira la copertina del libro. Il capolavoro fu commissionato da Sergej Ščukin, grande collezionista d’arte russo, il quale acquistava, con regolarità, i lavori del pittore francese. Sulla cover, realizzata da Teresa Biagioli per la GoldenGate Edizioni, viene riportato anche un commento di Matisse sul quadro, nel quale predominano tre colori (il blu, il rosso e il verde): “Il mio obiettivo è rappresentare un’arte equilibrata e pura, un’arte che non inquieti né turbi. Desidero che l’uomo stanco, oberato e sfinito, ritrovi, davanti ai miei quadri, la pace e la tranquillità”.

 

11700781_10206607167772129_1840801441274742818_oRaffaele Lauro e Riccardo Piroddi nel luglio 2015

 

 

 

Pietro Bembo e l’evoluzione della lingua italiana

 

 

Presumibilmente, nemmeno Francesco Petrarca amò se stesso così tanto, quanto quest’uomo. Se il poeta aretino avesse potuto conoscerlo, certamente avrebbe trovato, come desiderò per tutta la vita, un giustissimo estimatore del suo talento e della sua opera. Pietro Bembo nacque a Venezia il 20 maggio del 1470, figlio di Bernardo, patrizio e senatore 31071della Serenissima, ed Elena Morosini. Trascorse l’infanzia seguendo un po’ dovunque il padre, soggiornando a Firenze, dove si innamorò del fiorentino e di quel modo strano di mangiarsi o non pronunciare alcune consonanti (fenomeno fonetico detto “gorgia”) e a Messina, in cui ebbe modo di imparare il greco da un maestro d’eccezione, Costantino Lascaris. Il genitore avrebbe voluto avviarlo alla carriera politica, ma Pietro preferì quella ecclesiastica, che lo portò fino alla berretta cardinalizia. Sebbene ad un uomo di chiesa dovrebbe essere precluso finanche il concetto di amore, se non rivolto a Dio, il futuro porporato non si fece mancare nulla. Pare, addirittura, che durante un lungo soggiorno a Ferrara, avesse avuto una storia al pepe con Lucrezia Borgia, sorella di Cesare e figlia di papa Alessandro VI, all’epoca sposa di Alfonso d’Este. Certo, invece, fu l’amore per Ambrogina Faustina Della Torre, detta la Morosina, dalla quale ebbe tre figli e con la quale visse sfacciatamente, in barba alla condizione di religioso. Si è sempre detto che il buongiorno si veda dal mattino e, infatti, la prima opera letteraria del Bembo fu proprio un dialogo d’amore, intitolato Gli Asolani, tre libri in prosa con qualche canzone. L’operetta è ambientata ad Asolo, cittadina in provincia di Treviso dove, nella villa della regina di Cipro, tre giovani veneziani ragionano d’amore in occasione delle nozze di una damigella della padrona di casa. Apre il tema Perottino: “L’amore è una parola. L’amore non esiste. E’ soltanto un sogno, causa di tutti i malesseri e di tutti i dolori”. Seguita il tema Gismondo: “Non è vero! L’amore è la cosa più bella che possa dare la felicità, la gioia e il piacere”. Conclude Enrico Maria Papes – no, scusate, quelli erano I Giganti (dalla canzone “Tema”, I Giganti, 1966) – conclude Lavinello: “Cari amici, voi non avete capito proprio un bel niente! L’amore è il desiderio della vera bellezza e più si è bello, tanto più si è degni d’amore”. Io aggiungerei: “Allora chi è brutto va a fare l’eremita!” Bembo certamente non lo fece, nonostante, a vedere un suo ritratto, non è che fosse proprio un adone, anzi.

Le Prose della volgar lingua e le Rime

Prose di Messer Pietro Bembo nelle quali si ragiona della volgar lingua scritte al Cardinale de’ Medici che poi è stato creato a Sommo Pontefice et detto Papa Clemente Settimo divise in tre libri. Questo è prose-di-bemboil titolo completo del dialogo, che l’Autore immagina abbia avuto luogo a Venezia, nel salotto di suo fratello Carlo, tra lo stesso Carlo, Ercole Strozzi, Federico Fregoso e Giuliano de’ Medici. Gli schieramenti: a favore del volgare, Carlo Bembo, Giuliano de’ Medici e Federico Fregoso; per il latino, Ercole Strozzi. L’oggetto principale della dotta discussione verte sulle caratteristiche della lingua da usarsi quando si vuole scrivere in volgare. Bembo, il quale parla per bocca di suo fratello, sostiene che la lingua perfetta sia il fiorentino dei grandi scrittori del Trecento. Quindi, è da impiegarsi quello di Petrarca, quando si vogliono comporre poesie, e quello di Boccaccio, quando si vuole scrivere in prosa. Ma non si ferma qui, perché tenta anche di stabilirne una grammatica, con esempi e dimostrazioni. Le Prose della volgar lingua sono state un’opera fondamentale per lo sviluppo della lingua italiana. Conclusero, in parte, quel dibattito, che andava avanti da un secolo e mezzo, sul volgare, sul latino e sui loro usi. Furono parte della base teorica di quel movimento culturale cinquecentesco, detto Classicismo, che influenzò le esperienze letterarie di quel secolo.

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L’allegro cardinale, inoltre, durante tutta la sua vita, compose sonetti e canzoni, ispirandosi interamente allo stile del Petrarca (immagine in alto). Esse rappresentano il compendio “pratico” alle Prose della volgar lingua. “Vi ho spiegato come si fa. A adesso ve ne do l’esempio”, è come se avesse voluto dire.

Crin d’oro crespo e d’ambra tersa e pura,
Ch’all’aura su la neve ondeggi e vole,
Occhi soavi e più chiari che ‘l sole,
Da far giorno seren la notte oscura.

(Crin d’oro crespo e d’ambra tersa e pura, vv. 1 – 4)

Io ardo, dissi, e la risposta invano,
Come ‘l gioco chiedea, lasso, cercai;
Onde tutto quel giorno e l’altro andai
Qual uom, ch’è fatto per gran doglia insano.

(Io ardo, dissi, e la risposta invano, vv. 1 – 4)

Amor, mia voglia e l’vostro altero sguardo,
Ch’ancor non volse a me vista serena,
mi danno, lasso, ognor sì grave pena,
ch’io temo no l’soccorso giunga tardo.

(Amor, mia voglia e l’vostro altero sguardo, vv. 1 – 4)

Se delle mie ricchezze care e tante,
E sì guardate, ond’io buon tempo vissi
Di mia sorte contento, e meco dissi:
– Nessun vive di me più lieto amante;

(Se delle mie ricchezze care e tante, vv. 1 – 4)

 

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Lectura Dantis: INFERNO. I Personaggi

 

 

LA LIBRERIA INDIPENDENTE DI SORRENTO OMAGGIA DANTE ALIGHIERI, NEL 695° ANNIVERSARIO DELLA MORTE, CON LA “LECTURA DANTIS: INFERNO. I PERSONAGGI”, REALIZZATA DA RICCARDO PIRODDI  

In occasione del 695° anniversario della morte di Dante Alighieri (14 settembre 1321 – 14 settembre 2016), la Libreria Indipendente di Sorrento rende omaggio al sommo poeta con la videoproiezione della “Lectura Dantis: INFERNO. I Personaggi”, realizzata da Riccardo Piroddi, pubblicista, blogger e autore, nel 2011, del saggio dal titolo, “Storia (non troppo seria) della Letteratura Italiana”, Edizioni Albatros. L’evento culturale si terrà sabato 17 settembre 2016, alle ore 20.00, presso i locali della libreria, in Corso Italia, 258/c, a Sorrento. “Sin dai decenni immediatamente successivi alla morte di Dante – ha dichiarato Piroddi – cominciarono a tenersi pubbliche letture dei suoi versi, sovente accompagnate da interventi analitici di commentatori. Tra i primi, Giovanni Boccaccio, nel 1373, a Firenze. La grandezza e l’immutato fascino dell’opera di Dante si aprono, oggi, alla tecnologia, pur nella secolare tradizione della lectura espressiva e della lectura esegetica. Questo è lo spirito che anima la mia realizzazione. Immagini, musiche, effetti sonori e gli stessi versi danteschi, magistralmente interpretati dalla potente voce recitante di Giulio Iaccarino, danno vita ad alcuni tra i più celebri personaggi dell’Inferno, prima cantica del Divino Poema (Paolo e Francesca, Farinata degli Uberti, Pier delle Vigne, Ugolino della Gherardesca e altri), le cui vicende storiche e poetiche saranno oggetto di mie riflessioni nel corso della serata”.

 

Lectura Dantis: INFERNO. I Personaggi”

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