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Gli artisti letterati del Rinascimento italiano: Giorgio Vasari e Benvenuto Cellini

 

 

Giorgio Vasari

Il Rinascimento ha mostrato i suoi frutti soprattutto nelle arti figurative. Un’opera d’arte (di ogni epoca!) parla di sé soltanto ad ammirarla, ma spesso racconta poco della vita del suo autore. Ci fu un uomo, pittore, architetto e letterato, che pensò bene di raccogliere le biografie e le tecniche artistiche di tutti quei personaggi i quali, lungo il Rinascimento, regalarono iGiorgio_Vasari_Selbstporträt loro capolavori all’umanità. Questi fu Giorgio Vasari. Nato ad Arezzo nel 1511, giovanissimo, fu a bottega da Michelangelo, da Andrea del Baccio e da Baccio Bandinelli. Fu l’artista ufficiale di Cosimo I a Firenze, per il quale progettò gli Uffizi e affrescò la volta della cupola della cattedrale di Santa Maria del Fiore. Il titolo della sua raccolta di biografie illustri è: “Vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori italiani da Cimabue insino a’ tempi nostri“, cioè suoi, cioè fino a Michelangelo, in cui colleziona 195 biografie, concludendo con la propria. Ma non solo. Racconti e curiosità arricchiscono la narrazione dell’esistenza di questi uomini eccezionali. Anche se molte date non risultano essere precise e tanti aneddoti sono stati inventati da lui stesso, come, ad esempio, quella secondo cui Cimabue provasse ripetutamente a scacciare la mosca che Giotto aveva disegnato su un suo quadro, l’opera ha avuto e ha, ancora oggi, valore di guida fondamentale per la storia dell’arte italiana dal Trecento al Cinquecento. Da toscano, Vasari pone in ottima luce gli artisti della sua regione ed è sempre parziale anche quando, nella seconda edizione, inserisce maestri di altre parti d’Italia.

 

Benvenuto Cellini

Chi è stato a letto con una donna o con un uomo dello spettacolo, scrive la propria biografia; chi è uscito da un centro di recupero per tossicodipendenti e fa parte sempre dello spettacolo, downloadscrive la propria biografia; chi ha commesso uno o più omicidi, scrive la propria biografia o, almeno, se la fa scrivere; chi ha vinto una medaglia, scrive la propria biografia; chi ne ha combinate di grosse, veramente grosse, scrive la propria biografia… Chiunque potrebbe scrivere la propria biografia, raccontare di quando è nato, di quanto i suoi genitori gli abbiano voluto bene, di come si sia divertito non sempre in modo troppo sano, eccetera, eccetera. Non sarebbe il primo e nemmeno l’ultimo. C’è comunque stato qualcuno, il primo, appunto, che scrisse la storia della propria vita: fu un artista, Benvenuto Cellini. Quando nacque, il 3 Novembre 1500, a Firenze, suo padre Giovanni, fabbricatore di strumenti musicali, aspettava una femmina, ma non appena lo vide, strillò: “Benvenuto!” e quello fu il suo nome. Fu a bottega da vari maestri a Firenze, Bologna, Siena e Pisa. Ad averlo conosciuto, si sarebbe capito immediatamente che era una testa calda, anzi caldissima. Risse, botte, coltellate, schioppettate, con lui erano cose comuni. Pare che, quando partecipò alla difesa di Castel Sant’Angelo, durante il sacco di Roma del 1527, con le palle del suo di archibugio uccidesse il comandante dell’esercito imperiale, Carlo di Borbone, e ferisse, poi, Filiberto di Chalons, principe d’Orange, che aveva preso il suo posto. Era uno che sapeva bene come usare le armi da fuoco. Per quel che riguarda la sua carriera d’artista, fuse il famoso Perseo, download (1)una statua di bronzo alta 5 metri e 20 centimetri, cesellò l’altrettanto celebre Saliera per Francesco I di Francia (immagine a destra) e creò tante altre belle opere d’arte. Giunto a 58 anni (per la vita che condusse un incredibile traguardo!), decise di mettere per iscritto la parabola della sua esistenza: “La vita di Benvenuto Cellini fiorentino, scritta (per lui medesimo) in Firenze“. L’Autore, sebbene fosse un artista, racconta se stesso, non le sue opere d’arte.  Per la prima volta, egli mette in scena la sua vita, nella sua crudezza, nelle sue avventure, senza metafore e senza voler insegnare nulla. Questa è stata la novità. Momenti belli e momenti brutti, brave persone e farabutti, sangue, donne e cortigiani, amore e odio, fame, sete, ubriachezza e sazietà, puttane e ruffiani, invidia e generosità, fughe, prigioni e colpi a serramanico, ce n’è per tutti i gusti. La sua storia, insieme all’indubbio valore letterario, è avvincente e incredibile. Sono certo che essa piacerebbe non solo ai “tecnici” della letteratura, ma anche a lettori abituati a sfogliare libri impegnativi e istruttivi (sicuro!) come “Cigno” (Naomi Campbell, “Cigno“, Mondadori, 1995), “Vita, morte e miracoli di un pezzo di merda” (Paolo Villaggio, “Vita morte e miracoli di un pezzo di merda“, Mondadori, 2002), “Costantino Desnudo” (Alfonso Signorini, “Costantino Denudo“, Maestrale Company, 2004), “Io e me stessa” (Lory del Santo, “Io e me stessa“, Sperling&Kupfer, 2006) e via dicendo. 

 

 

La “Vita Nova” di Dante Alighieri

 

 

Se quando muore un papa se ne fa un altro, morta la propria donna se ne dovrebbe cercare subito un’altra. Nel caso di Dante Alighieri non fu così. Andare avanti senza l’amatissima Beatrice, dopo la sua morte, non era affatto facile. Fin quando, però, il sommo poeta disse a se stesso: Durante Alighieri, eh tu ti devi dare una bella mossa, icché non puoi più vivere così! La bella Beatrice l’è morta e sepolta, ora è beata in Paradiso e tu la devi voltare codesta pagina. Incipit vita nova, comincia una nuova vita”. Dante, quindi, decise di raccontare la storia della sua vita e quella del suo amore per Beatrice, perché, evidentemente, parlarne, innanzi tutto, lo faceva star meglio. La narrazione della sua vicenda esistenziale avrebbe dovuto avere un duplice scopo: essere da esempio per quanti si fossero trovati a soffrire pene d’amore analoghe e mostrare a tutti come l’amata Beatrice fosse divenuta la sua guida spirituale. L’opera si compone di 42 capitoli in prosa, nei quali, con sonetti e canzoni, l’autore la celebra, la loda e la beatifica. Comincia col riferire del momento in cui la vide per la prima volta, all’età di nove anni. Lei ne aveva otto ed era vestita con un abitino rosso, stretto in vita da una cintura, al modo in cui si addiceva alla sua giovanissima età. Iniziò a tremare, si rese subito conto di aver scorto qualcosa di stupendo e di essersene innamorato all’istante. L’amore aveva preso il controllo della sua mente. Molte volte la cercò per rivederla e, finalmente, esattamente nove anni dopo il primo incontro, gli riapparve, per strada, vestita di bianco e accompagnata da due donne. Rivolse lo sguardo verso di lui e, con dolcezza, gli porse il suo saluto, per la qual cosa, certamente, meritò il Paradiso, seppure fosse ancora in vita (in basso a destra: Henry Holiday, “Dante e Beatrice”, 1884). Emozionato e fremente, corse a casa e, solo, la pensò tanto intensamente da cadere candidamente addormentato. Ebbe un sogno: vide una nuvola dello stesso colore del fuoco e, all’interno di questa, un uomo, dall’aspetto minaccioso, seppure col volto felice. Era Amore. Tra le sue braccia, una donna giaceva dormiente, nuda, avvolta in un velo scarlatto. Guardandola intensamente, Dante si accorse che era la stessa persona che lo aveva salutato poche ore prima. L’uomo aveva in una mano qualcosa che ardeva con vigore. Era il cuore del poeta e, svegliata la donna, glielo porse affinché ne mangiasse. Questa, con timore, prese a darvi piccoli morsi. L’uomo, d’improvviso, cominciò a piangere, strinse la donna a sé e si avviò a salire verso il cielo (in basso a sinistra: “Il sogno di Dante“, di Dante Gabriel Rossetti, 1856). Un’angoscia profonda assalì Dante. Si risvegliò all’istante. Il poeta comprese immediatamente il significato funesto di quella visione, la quale, poi, purtroppo, si avverò. Trasfigurò, allora, quella donna in una creatura ultraterrena. Proprio lì ebbe inizio la sua vita nova, la vita rinnovata dalla beatitudine di Beatrice. In composizioni come “Donne ch’avete intelletto d’amore“, “Ne li occhi porta la mia donna amore“, “Tanto gentile e tanto onesta pare“, “Vede perfettamente ogne salute“, viene fuori tutta la lezione che aveva caratterizzato la poetica del Dolce Stil Novo e gli esordi lirici danteschi: Beatrice conferisce virtù a tutto ciò che guarda, scacciando via le negatività, immobilizza quanti le sono davanti con il cuore in mano, è un angelo sceso dal cielo a mostrare miracoli, è una creatura gentile che diffonde dolcezza. Tra poesie ed episodi vissuti, gli eventi giungono, infine, al termine. Il poeta ha chiaro in mente quale sarebbe dovuto essere, da quel momento, il suo compito: esaltare, di fronte al mondo, la sua donna. Decide, così, di non scrivere più nulla di lei, fino a quando non fosse stato in grado di dicer di lei quello che mai non fue detto d’alcuna (Vita Nova, cap. XLII). Alludeva alla Divina Commedia, nella quale Beatrice:

così dentro una nuvola di fiori
che da le mani angeliche saliva
e ricadeva in giù dentro e di fori,

sovra candido vel cinta d’uliva
donna m’apparve, sotto verde manto
vestita di color di fiamma viva“.

(Purg., canto XXX, vv. 28-33)

apparsagli nel Paradiso terrestre, sulla sommità della montagna del Purgatorio, lo accompagnerà, poi, in Paradiso. Mi son sempre chiesto: esistono un racconto e dei versi più meravigliosi per celebrare una donna? Qualcun altro, prima o dopo Dante, è riuscito a dire della propria donna ciò che lui è stato capace di dire della sua Beatrice?

Non credo!

 

 

L’Illuminismo a Milano: Il Caffè, Pietro Verri, Alessandro Verri e Cesare Beccaria

 

Il Caffè

Questa rivista, uscita in settantaquattro numeri, uno ogni dieci giorni, tra il giugno 1764 e il maggio 1766, raccolse intorno a sé i maggiori intellettuali dell’Illuminismo milanese. Fondata da Pietro Verri, ad essa facevano capo i membri dell’Accademia dei Pugni, società culturale tra i cui soci sarebbero stati annoverati anche Primo Carnera, Nino Benvenuti, Patrizio Oliva e caffe-201x300Agostino Cardamone (scherzo!), e così chiamata a causa dell’epilogo molto animato delle riunioni: scazzottate degne di Bud Spencer e Terence Hill. Gli articoli, tutti molto interessanti e riguardanti gli argomenti più vari e di interesse pubblico, ebbero le firme prestigiose di Pietro e Alessandro Verri, Cesare Beccaria, Pietro Secchi, Paolo Frisi, per citare i più autorevoli. Il comitato di redazione decise di rivolgersi ad un pubblico nuovo di lettori, non solo sapientoni e letterati, ma anche gente comune, piccoli professionisti, artigiani e donne. Questa fu una grande novità perché permise al sapere di uscire dalla torre d’avorio, dove, per secoli, era stato confinato, e di mettersi al servizio di tutti, secondo quel precetto tipicamente illuminista dell’uso intelligente della conoscenza per migliorare la società. Nei quattro fogli del Caffè, infatti, si poteva leggere tutto quello che era di interesse pubblico, dal commercio all’economia, dalla medicina all’agricoltura, dalla sanità alla politica.

Pietro Verri

Figlio del conte Gabriele e di Barbara Dati, nacque a Milano il 12 dicembre 1728. Il padre, col quale non ebbe mai un buon rapporto, fu molto severo, tanto da farlo studiare presso i collegi più terribili di Milano e provincia, esperienze che segnarono profondamente l’animo del giovane Pietro.Pietro_Verri Al ritorno in famiglia, i litigi col babbo ripresero più forti di prima, fino alla rottura definitiva, quando divenne l’amante di Maria Vittoria Ottoboni Boncompagni, moglie del duca Gabrio Serbelloni, gente molto in vista a Milano. Fu scandalo e il conte Gabriele, un alto funzionario del governo milanese, per lo scorno quasi non usciva più di casa. La relazione con la duchessa, donna molto colta e chic, instillò nel giovanotto la passione per il teatro e per la cultura francese, oltre che la voluttà nell’alcova. Il ménage con l’aristocratica amante, però, dopo qualche anno finì, lasciandolo così male da decidere di darsi alla vita militare, andando a combattere come ufficiale dell’esercito austriaco contro i prussiani. Al rientro a Milano fondò, col fratello Alessandro e i “pugili” della citata Accademia, Il Caffé e, allo stesso tempo, prese lavoro nell’amministrazione pubblica austriaca del capoluogo lombardo. A questi anni risale la composizione delle sue opere principali: le Meditazioni sull’economia politica, il Discorso sull’indole del piacere e del dolore, le Osservazioni sulla tortura, e i Ricordi a mia figlia, scritto per la figlioletta Teresa, nata proprio poche settimane prima. Posso dire con (quasi) certezza che, senza Pietro Verri e i suoi instancabili sforzi per la cultura e la sua diffusione, l’Illuminismo milanese sarebbe stato molto meno luminoso.

Alessandro Verri

Fratello minore di Pietro, nacque nel 1741 e fu più furbo del maggiore perché, per non farsi ammorbare oltremodo dal padre, molto presto, fece i bagagli e, dopo aver collaborato al Caffè, se ne andò Alessandro_Verria Parigi e Londra e, poi, a Roma, dove visse fino alla morte, nel 1816. Appassionato di teatro e lui stesso attore per diletto, fu uno dei primi a tradurre le opere di Shakespeare in italiano. Scrisse anche due romanzi, le Avventure di Saffo poetessa di Mitilene e la Vita di Erostrato. Avendo vissuto così tanto tempo lontano da Milano, pian piano, abbandonò lo spirito illuminista che aveva caratterizzato la prima fase della sua vita e ripiegò su visioni un po’ più cupe dell’esistenza, che saranno, poi, determinanti nel Romanticismo. Ne è prova una sua opera, le Notti romane al sepolcro degli Scipioni, scritto che compose in occasione del ritrovamento archeologico delle sepolture di quest’importante famiglia della Roma antica, in cui figura, che dalle tombe escano le ombre di romani illustri per discutere della grandezza e della rovina dell’impero più potente della Terra.

Cesare Beccaria

Il marchese Beccaria nacque a Milano nel 1738. Come Pietro Verri ebbe grosse e dure litigate con i genitori, a causa di una donna che, però, non era  moglie di un nobile conosciutissimo, quanto una ragazza di famiglia povera, Teresa Blasco, che lui amò tantissimo e che, grazie Cesare_Beccaria_in_Dei_delitti_cropanche all’aiuto proprio del Verri, il quale mediò con i suoi parenti, riuscì a sposare. Oltre ai contributi giornalistici al Caffè, Beccaria fece due cose importanti nella vita: la prima, diede i natali alla figlia Giulia, la futura madre di Alessandro Manzoni, e la seconda, scrisse Dei delitti e delle pene, un saggio che ebbe un successo esagerato in tutta Europa, tanto da farlo diventare l’idolo di molti dei filosofi dell’Illuminismo francese, in particolare di Voltaire. In questo trattato, colmo di spirito illuminista, Beccaria sostiene l’abolizione della pena di morte perché, a suo avviso, questa non fa né diminuire i crimini, né è buona come deterrente. “È più utile prevenire i delitti mostrando la certezza della pena – scrive l’autore – perché, per un criminale, è meglio morire che passare la vita in galera. Ma quando un ergastolano scappa dal carcere e mette in pericolo la vita dei cittadini, allora può essere messo a morte.” Questo libro dovrebbe rappresentare un articolo fondamentale della Costituzione di molti paesi del mondo, i quali, ahimè, evidentemente, ancora non hanno ancora visto o sentito parlare di Illuminismo.

 

Le opere del periodo napoletano di Giovanni Boccaccio

 

Nel 1327, Giovanni Boccaccio, allora quattordicenne, e suo padre, Boccaccino di Chelino, si trasferirono a Napoli, alla corte degli Angioini, per rappresentare il Banco de’ Bardi,Francesco-Petrarch che prestava soldi ai re napoletani. Il giovanissimo Giovanni, all’ombra del Vesuvio, trascorse gli anni più belli della sua vita, si divertì molto, fu introdotto a corte, si innamorò di una donna, che lui disse essere Maria d’Aquino, figlia illegittima di re Roberto d’Angiò e che, col nome di Fiammetta, avrebbe poi celebrato in alcune sue opere, si appassionò alla letteratura classica e alla poesia, grazie allo stilnovista Cino da Pistoia, che per qualche anno fu a Napoli ad insegnare diritto all’Università e, chissà, forse qualche volta raggiunse anche le mie parti, tra Sorrento e Massa Lubrense. Proprio a questo periodo appartengono le sue prime opere: la Caccia di Diana, il Filocolo, il Filostrato e Teseida delle nozze d’Emilia.

 

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La Caccia di Diana

Poemetto di diciotto canti, fu composto per fare la sviolinata a tutte quelle dame di corte, che attizzavano molto l’Autore. Ecco cosa escogitò, in versi, il poeta: le donne più belle di Napoli decidono di andare a caccia. A quell’epoca, appena fuori la città, ad un quarto d’ora di cavallo, c’erano molti boschi. copia-pieter-paul-rubens-caccia-diana_1Prima che alle donne apparisse la dea Diana, queste si rinfrescano in un fiume, tanto per sollazzare un po’ i lettori e, divise, poi, in quattro schiere dalla dea, la quale, nel frattempo, è apparsa, cominciano a cacciare animali. Dopo aver radunato tutte le prede in un prato, Diana chiede loro di fare un sacrificio a Giove e di votarsi alla castità. “Ma tu sì pazz’!”, rispondono tutte in coro. “Qua c’abbiamo il sangue che bolle e tu ci vuoi far rimanere come le suore?”. Diana capisce che non è aria e alza i tacchi, anzi, i sandali. Le donne, allora, pregano Venere, che si manifesta e trasforma tutti gli animali uccisi in giovani bellissimi e più vivi che mai, dopodiché, appare pure il bollino rosso, perché i bambini non possono continuare a leggere, altrimenti capirebbero troppe cose della vita.

Il Filocolo

Tra quelle donne napoletane bellissime, ce n’era una, la fidanzata dell’Autore, che si chiamava Fiammetta. Fu proprio lei a chiedergli di redigere un’operetta che raccontasse le avventure di Florio e Biancifiore, di cui aveva sentito parlare a corte. Boccaccio, che era innamorato pazzo di lei, non se lo fece dire due volte e scrisse questo romanzo in prosa. bodl_Canon.Ital.85_roll145B_frame8Ecco la trama: il romano Quinto Lelio Africano e la famiglia si stanno recando in pellegrinaggio al santuario di Santiago de Compostela, per chiedere la grazia di avere un figlio. Lungo la strada, sono massacrati dai Saraceni di re Felice. Si salva soltanto la moglie, Giulia Topazia, la quale, per intercessione del santo, partorisce una bambina, Biancifiore. Lo stesso giorno, nel palazzo reale di Spagna, nasce Florio, il figlio del re. Per un caso stranissimo, i due bimbi crescono insieme e, ti pareva che non si innamorassero? Claro que sì – in spagnolo fa più chic! Divenuti giovinetti, i genitori di Florio assolutamente non vogliono che il figlio si fidanzi con una sconosciuta. “Chissà questa chi è e da dove viene!”, ripete sempre la regina. Il re Felice, quindi, pensa bene di vendere Biancifiore ad alcuni mercanti, i quali la portano in Oriente dall’Ammiraglio di Alessandria, che la rinchiude in una torre con altre novantanove donne di bellezza mozzafiato. Florio, poverino, non se ne fa una ragione e trascorre le giornate nella disperazione più assoluta. Così, decide di cambiare il suo nome in Filocolo, che nel greco sfizioso e fantasioso di Boccaccio significa “fatica d’amore”, e parte alla ricerca di Biancifiore. Imbarcatosi su una nave con alcuni amici, fa naufragio nel Golfo di Napoli, fermandosi nella città partenopea. Da lì, riparte per Alessandria e, nascosto in un cesto di rose, riesce a salire sulla torre e a liberare la sua amata. Poiché da parecchio tempo non si vedono, i due innamorati si danno da fare, facendosi scoprire dall’Ammiraglio in persona, che li condanna al rogo, ma, grazie ad un anello magico, si salvano e, prima di tornare in Spagna, passano per la Toscana, dove fondano Certaldo, la città natale di Boccaccio. Florio, alla morte del padre, è incoronato re a Roma.

Il Filostrato

Questo poemetto in ottave narra le disgrazie amorose di Troiolo, uno dei cinquanta figli di Priamo, il re di Troia, che si innamora di Criseida, la figlia di Calcante, l’indovino troiano, il quale, predetta la terribile fine della sua città, scappa nell’accampamento dell’esercito greco. Troiolo, con l’aiuto di suo cugino Pandoro, riesce a conquistare la giovane ma, in seguito ad uno scambio di prigionieri, Criseida è richiesta dal padre e torna al campo nemico. Uno dei grandi eroi greci, il famoso Diomede, si infatua della ragazza che, dal canto suo, fa due conti e pensa: “Meglio stare con uno che vince e non con un altro che tra qualche giorno andrà a fare il servo in un palazzo ellenico!”. Come pegno d’amore, la donna gli regala il suo fermaglio preferito. Diomede lo perde in un duello e il monile finisce nelle mani di Deifobo. Troiolo, che per il dispiacere è divenuto magro come un fuscello, quando vede il fermaglio appuntato sulla tunica di Deifobo, il quale, tutto sommato, non c’entrava niente, cerca di ucciderlo. Purtroppo per lui, però, proprio in quel momento si trova a passare di lì Achille, che, in un colpo solo, gli stacca la testa dal collo.

Il Teseida delle nozze d’Emilia

Il mitico duca di Atene, Teseo, va a fare la guerra in Scizia contro le Amazzoni, le donne guerriere che si tagliavano la mammella destra per meglio scagliare la lancia. Queste, sconfitte, sono condotte nella città del duca.b13 La loro regina Ippolita, che ha portato con sé anche la sorella Emilia, sposa Teseo. Questi però, dopo pochi giorni, riparte per un’altra guerra, contro Creonte, il re di Tebe. Finita pure quella, torna ad Atene e, tra i tanti prigionieri, conduce seco due giovanotti, Arcita e Polmone. I due, manco a farlo apposta, si innamorano della stessa donna: Emilia. Teseo dice loro: “Cari ragazzi, vedetela voi, fate una gara a colpi di spada e chi vince si prende mia cognata!”. I giovani amici, che per una donna erano diventati acerrimi nemici, se ne danno così tante, ma così tante, che nessuno dei due riesce quasi più a stare in piedi. La vittoria ai punti va ad Arcita il quale, nonostante sia ferito gravemente, corre a sposare Emilia. Ma Venere lo fa cadere da cavallo, lui batte la testa e prima che muoia, con l’ultimo filo di voce rimastogli, affida la sua signora mancata a Polemone.

 

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I problemi economici del padre, costrinsero Boccaccio a lasciare la bella corte napoletana per tornare a Firenze. Nella città dell’Arno, nonostante l’ambiente partenopeo cui tanto era stato affezionato non ci fosse più, continuò a celebrare le sue amate donne. Qualche anno dopo, il Banco de’ Bardi fallì e, così, decise di dedicarsi a tempo pieno alla scrittura anche perché, morto il genitore durante la terribile epidemia di peste del 1348, quella che userà come pretesto narrativo per dare avvio al Decameron, poté acchiapparsi l’eredità.

 

Il mio personale tributo a Dante Alighieri nel 750° anniversario della nascita 

 

dedicato a tutte le mie Beatrici

 

Quanto riportato di seguito è soltanto un infinitesimo aspetto della grandezza di quest’uomo e della sua opera (dalla mia “Storia (non troppo seria) della Letteratura Italiana”):

Ci pensò proprio Dante, a prendersi la rivincita, per sé stesso e per tutti i poeti amanti non corrisposti (me compreso!). Leggete questi versi:

I’ son Beatrice che ti faccio andare;
vegno del loco ove tornar disio;
amor mi mosse, che mi fa parlare.

Quando sarò dinanzi al segnor mio,
di te mi loderò sovente a lui.

(Inf., canto II, vv. 70-74)

Ci troviamo nel II canto dell’Inferno. È il tramonto. Superata la selva oscura e le tre fiere, il poeta è immobile, impaurito e ormai deciso a non intraprendere più il viaggio nell’aldilà, nonostante la presenza rassicurante di Virgilio, sua guida. A quel punto, l’autore dell’Eneide gli riferisce di non temere, poiché la sua salvezza sta a cuore a tre donne: alla Madonna, a Santa Lucia, e sì, proprio a lei, a Beatrice: “Una donna beata e bella, con gli occhi più lucenti di una stella, si è rivolta a me, con voce soave e angelica, chiedendomi di soccorrerti, perché ella, dopo aver udito che ti eri smarrito, è arrivata troppo tardi. Anima gentile e onesta, mi ha pregato, ti imploro di aiutarlo, affinché io ne abbia consolazione. Io sono Beatrice ed è per amore che te lo chiedo”. La donna, infatti, dal Paradiso, era scesa nel limbo, dove dimorava l’anima di Virgilio, per esortarlo a proteggere e seguire colui che io, qui e adesso, secondo quanto riferiscono i suoi meravigliosi versi, posso finalmente definire il suo amato!!! Dopo essere stata celebrata lungo tutta la sua breve vita e molto oltre, seppure andata in sposa ad un altro uomo, alla fine, Beatrice ricambia l’amore di Dante. Dante ce l’ha fatta! Vi giuro che, scrivendo questi ultimi righi, non sono riuscito a trattenere la commozione!  È una mia opinione, ma mi piace ritenere che tutto, proprio tutto, lo slancio dal quale è nata la Divina Commedia, sia contenuto in questi cinque versi del canto II dell’Inferno, pronunciati da Beatrice.

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John William Waterhouse, “L’incontro di Dante con Beatrice”, 1915

C’è poco da fare. È stato il più grande di tutti. Al di là di quanto abbiate potuto conoscere di lui e delle sue opere sfogliando le pagine, a lui dedicate, in questo libro, vi consiglio di andare a prenderli i suoi libri e di leggerli voi stessi. Ho sempre pensato che la migliore storia della letteratura sia quella che ognuno di noi si “fa” da solo, semplicemente leggendone e meditandone le opere, senza la mediazione e i filtri interpretativi di quanti, seppure con competenza, esplicano i contenuti di ciò che è stato scritto da altri. Cominciate proprio con Dante. In fondo, sarebbe un bel modo per essergli grati, per esprimere riconoscenza a quella mente eccelsa, instillata in un uomo di mediocre statura, d’onestissimi panni sempre vestito, col volto lungo, il naso aquilino e gli occhi grossi, le mascelle grandi e dal labbro di sotto era quel di sopra avanzato, i capelli e la barba spessi, neri e crespi e sempre nella faccia malinconico e pensoso (Giovanni Boccaccio, Trattatelo in laude di Dante, XX), che io immagino ancora passeggiare lungo l’Arno e per i suoi ponti, nell’amata Firenze, immerso nei propri pensieri, tutti per Beatrice e per i versi che, di lì a poco, le avrebbe composto, solo, nella sua piccola stanza, attraverso il cui lucernario, ogni notte, rivolgendo lo sguardo sognante e incantato verso il cielo, avrebbe, poi, scorta, meravigliosa, risplendere tra le stelle.

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Henry Holiday, “Dante e Beatrice”, 1884

 

 

La Scuola siciliana

 

Nei primi decenni del ‘200, Federico II di Svevia, preso pieno possesso del Regno di Sicilia, riunì, nel suo palazzo, a Palermo, funzionari, burocrati a lui fedeli e alti amministratori, annunziando loro: “È giunto il momento che io superi gli altri sovrani del mondo anche nella cultura!”. L’Hohenstaufen aveva chiaro in mente che per creare un vero Stato italiano e non soltanto “un’espressione geografica”, come avrebbe appellato l’Italia, seicento anni dopo, il principe austriaco Klemens von Metternich, avesse avuto bisogno, per prima cosa, di una lingua comprensibile a tutti i suoi sudditi. Il latino, infatti, seppure fosse la lingua franca dell’Europa medievale, restava oscuro alla quasi totalità delle genti sotto il suo imperio, le quali, tra loro, sapevano esprimersi soltanto in volgare o dialetto. Frederick_II_and_eagleLa lingua di Roma antica, inoltre, era quella dei preti e della Chiesa e allo Stupor mundi  (stupore del mondo), come i contemporanei chiamavano lo svevo, stavano entrambi sui due mondi. Anche per questo, quindi, il re operò per porre in essere le condizioni affinché, nell’uso quotidiano, il latino fosse definitivamente rimpiazzato dal volgare. Molti degli amministratori e dei funzionari di Federico (immagine a destra) non erano siciliani e, nelle terre di provenienza, avevano sentito dire che nelle corti del Nord Italia avessero bazzicato i trovatori, fuggiti dalla Provenza all’arrivo delle truppe di papa Innocenzo III, il quale, per ironia della sorte, fu anche tutore di Federico. Poiché Palermo era troppo lontana per invitarli a recitare colà le loro poesie, tutti insieme, re in testa, decisero che, per il maggiore prestigio della compagnia, del regno e della dinastia, avrebbero dovuto anche loro comporre versi. Fu proprio alla poesia, quindi, che il nipote del Barbarossa intese affidare il compito di veicolare la nuova lingua ufficiale. Così, tra una legge emanata e una battuta di caccia, qualche condanna a morte e un’esecuzione capitale, la redazione di documenti pubblici e una passeggiata per controllare come stessero le cose intorno al castello, alla corte di Palermo e in provincia si scrivevano poesie alle donne. La traccia fu fornita dalla lirica cortese della Provenza, lo svolgimento, invece, ebbe caratteri propri, con differenze anche notevoli. Innanzi tutto, rispetto ai trovatori, che erano di varia estrazione sociale, feudatari come cavalieri squattrinati, i poeti siciliani appartenevano tutti alla cerchia di Federico, quindi, erano persone istruite, professionalmente impegnate e vivevano agiatamente. Essi, poi, non erano musicisti (non sapevano suonare alcuno strumento) ma, semplicemente, diremmo oggi, parolieri, scrivevano, cioè, solo i versi. scuola_siciliana_02_nPer l’accompagnamento musicale, se la fortunata ascoltatrice avesse voluto il complessino, avrebbe dovuto chiamare i musicanti e pagarli a parte. Per quanto riguarda le tematiche, infine, i siciliani erano molto meno “platonici” e più efficaci dei provenzali. La donna era, sempre e comunque, signora e padrona, e il suo amante costantemente pronto a servirla, giorno e notte, in tutti i modi possibili. Nei componimenti dei siciliani, però, scompariva quella distanza incolmabile tra la dama e l’amante che, invece, era dolorosamente imprescindibile per i trovatori. Anzi, i primi celebravano proprio nel “vedere” la donna, il momento più bello di tutta la faccenda:

Meravigliosamente
un amor mi ristringe
e mi tiene ogn’ora.
Com’om che pone mente
in altro exemplo pinge
la simile pintura,
così, bella, facc’eo
che’nfra lo core meo
porto la tua figura…

scriveva Giacomo da Lentini (immagine in basso a destra). Da quella visione, poi, si libravano in volo tutta una serie di immagini, di metafore, di tricche e di ballacche, di forze della natura, di pietre preziose, di animali reali e fantastici, di figure splendide e ideali, che certamente dovevano far molto piacere alle donne, anche se queste, in mezzo a tutte quelle parole difficili, ci capivano veramente poco. 01107Per questo, i poeti, spesso, prendevano il due di picche ed erano dolori e lamenti! Per non rimanere come dei fessi, si affrettavano a giustificarsi sostenendo che servire l’amata e impegnarsi ad esserle fedele li avrebbe resi più nobili e migliori di quanti, invece, arrivavano al sodo. Essi cantavano l’amore in quanto tale, più che un reale affaire, alla francese, o un intercourse, all’inglese (la corte di Federico era internazionale!). Le donne amate erano, prima di tutto, simboli ai quali indirizzare le proprie considerazioni su cosa fosse l’amore. C’era, tuttavia, un elemento che accomunava i siciliani ai provenzali: la paura delle malelingue, sempre in agguato, ad ogni angolo e in ogni occasione, per mettere in cattiva luce il poeta agli occhi della sua dama.

 

 

 

Teofilo Folengo e la lingua maccheronica

 

Gerolamo Folengo, col cui pseudonimo più noto, Merlin Cocai, era chiamato un locale notturno a Massa Lubrense, dove andavo con gli amici a bere i miei doppi Bourbon & Ginger Ale, detti anche Scotch&American, nacque a Cipada, in provincia di Mantova, l’8 Novembre 1491, 220px-Romanino_003in una famiglia di nobili, i quali, però, erano finiti in cattive acque. Ottavo di nove figli, fu mandato dal padre in convento dove avrebbe potuto studiare e sfamarsi alquanto adeguatamente, vista la penuria di mezzi familiare. Quando vestì l’abito di monaco benedettino, dunque, cambiò il nome in Teofilo. Il diavolo tentatore, però, era sempre in agguato, acquattato tra le pieghe della gonna di una nobildonna, Girolama Dieda, per la quale buttò via la tonaca e con la quale vagò per tutto il Nord Italia, vivendo di stenti, fino a quando entrò al servizio del condottiero Camillo Orsini, a Roma. Decise, poi, di rientrare in convento e gli fu comminato un periodo di penitenza ed espiazione, che trascorse al Monte Conero ad Ancona e nei pressi proprio di Massa Lubrense, il mio paese nativo, all’eremo di San Pietro a Crapolla. Così, fu riammesso nell’ordine e mandato in Sicilia. Morì a Bassano del Grappa il 9 dicembre 1544.

Le opere

Folengo scrisse diverse opere, che fece poi confluire in un unico capolavoro, al quale lavorò tutta la vita ed ebbe quattro edizioni diverse: l’Opus macaronicum. In ogni modo, ciascuna parte di questo corpo può essere comunque trattata singolarmente. La prima di queste è l’Orlandino, che pubblicò con lo pseudonimo di Limerno Pitocco, ovvero, Merlino il miserabile. Poemetto di otto canti in ottave, racconta l’infanzia del famoso paladino Orlando: figlio di Milone e Berta, Chaos1sorella di Carlo Magno, sposati in segreto e, per questo, costretti a fuggire, fu partorito dalla madre in un’umile capanna e visse i primi anni della sua vita in campagna, tra ai contadini. Il Caos Triperuno, invece, è una vera e propria insalata di maccheroni. I tre personaggi, Limerno, Fulica e Merlino (tutti e tre sono l’Autore stesso), parlano, rispettivamente, in latino, in volgare e in maccheronico. Quest’ultimo, è un linguaggio artificiale, costituito da un lessico in parte dialettale, in parte latino. Chissà, dunque, cosa si capisce! Tutto si svolge attraverso tre selve: nella prima, Triperuno conversa della nascita dell’uomo e della conoscenza umana. Nella seconda, il discorso va a finire sulla pericolosità del mondo sensibile, quando Triperuno si perde ma, ritrovata la via, attraversa i regni di Carossa, Matotta e Perissa, che stanno a significare tre modi di fare degli ecclesiastici e cioè, la crapula, la superfluità e la vanità. Nella terza selva, Triperuno incontra nientemeno che Gesù Cristo in persona o, meglio, in spirito, gli dona il cuore e gli dice: “Sono nelle tue mani, non farmi fare una brutta fine!”.

Il Baldus

Venticinque capitoloni in esametri, lungo i quali Merlin Cocai, alias Folengo, racconta le imprese di Baldus e della sua sgangherata banda di delinquenti.

Phantasia mihi plus quam phantastica venit
historiam Baldi grassis cantare Camoenis.
Altisonam cuius phamam, nomenque gaiardum
terra tremat, baratrumque metu sibi cagat adossum.
Sed prius altorium vestrum chiamare bisognat,
o macaroneam Musae quae funditis artem.
An poterit passare maris mea gundola scoios,
quam recomandatam non vester aiuttus habebit? […] Credite, quod giuro, neque solam dire bosiam
possem, per quantos abscondit terra tesoros:
illic ad bassum currunt cava flumina brodae,
quae lagum suppae generant, pelagumque guacetti.
Hic de materia tortarum mille videntur
ire redire rates, barchae, grippique ladini,
in quibus exercent lazzos et retia Musae,
retia salsizzis, vitulique cusita busecchis,
piscantes gnoccos, fritolas, gialdasque tomaclas.
Res tamen obscura est, quando lagus ille travaiat,
turbatisque undis coeli solaria bagnat.

(Mi è venuta la fantasia – proprio una bella fantasia – di raccontare la storia di Baldo con le mie grasse Camene. La sua fama risonante, il suo nome gagliardo fa venire ancora la tremarella alla terra e la voragine infernale, nella sua nera paura, si caga sotto. Ma per prima cosa, bisogna invocare il vostro aiuto, o Muse che spandete la bell’arte macaronica. Potrebbe la mia gondola strigarsi dagli scogli di questo mare, se il vostro favore non l’accompagnasse? […] Credetemi, non sono stupidaggini, ve lo giuro: e poi una bugia, nemmeno una sola, non la direi per tutto l’oro del mondo. Verso il basso corrono giù cavi fiumi di brodo saporitissimo che poi vanno a finire in un lago di zuppa, in un mare di stracottini. E qui passano e spassano barche, barbotte, brigantini agevoli e snelli, a migliaia, tutti di torta: e sopra ci stanno le mie Muse e gettano lacci e reti – reti cucite con budella di maiale e con busecche di vitello – e pescano gnocchi, frittole e tomacelle gialle. Ma è un grosso guaio quando quel lago va in agitazione e con le onde bagna le soffitte del cielo).

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Baldovina, la figlia di Carlo Magno, ama alla follia Guidone di Montalbano, ma il babbo non vuole. I due amanti, allora, decidono di scappare da Parigi e si rifugiano a Cipada, il paesello di Folengo dove, nella capanna del contadino Berto Panada, succede il fattaccio e dopo nove mesi nasce Baldus. Guidone, però, poco dopo abbandona Berta e quella muore per il dispiacere. Rimasto solo con Berto, Baldus si unisce ai monellacci del paese e, insieme a questi, va combinando guai dappertutto. Crescendo, il nostro eroe diventa il capo di una ben assortita gang di farabutti, che mettono a ferro e fuoco le campagne mantovane, tra cui spiccano Cingar, il gigante Fracasso e Falchetto, metà uomo e metà cane. Chi Baldus finisce presto nei guai. Durante la festa di calendimaggio, dopo aver battuto tutti nei giochi popolari, viene provocato, ammazza un nobile con una grossa pietra e scappa. È inseguito dalle guardie. Ne uccide una e si rifugia in una casa. Gli sbirri riescono a legarlo, ma viene liberato dal compare Sordello. Passano gli anni, prende in moglie una contadinotta, Berta, vive senza lavorare approfittandosene di Zambello, il figlio di Berto Panada. Zambello un giorno si ribella, rivolgendosi a Tognazzo, un villano proprietario di terre e podestà di Cipada. Questi, nemico giurato delle teste calde del paese, prende al volo l’occasione e mette in piedi un piano per fregare Baldus. Il giovane è invitato a presentarsi al Palazzo comunale, per assumere il comando di un esercito contro i lanzichenecchi. Qui, dopo una feroce rissa, è sopraffatto dalla folla e messo in galera. Cingar, riesce a liberarlo e la banda decide di cambiare un po’ aria col solito viaggio iniziatico – ricerca della propria anima o giù di lì, attraverso luoghi magici, popoli stranissimi, abissi, isole del tesoro, streghe, grotte profondissime, mostri, esseri indecifrabili, e non vi dico tutto il resto. Arrivano perfino all’Inferno e, nell’Antro della Fantasia, Baldus e i compari impazziscono e si trovano davanti ad una grossa zucca, secca e vuota, dentro la quale, vivono astrologi, poeti e cantanti, a cui tremila satanassi, travestiti da barbieri, tirano tutti i denti, uno per uno, ma questi, puntualmente, ricrescono. Colà vive anche l’autore, il quale, stanco di quelle torture, decide di far continuare, a chi vorrà, il racconto delle avventure di Baldus e della sua banda.

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Ergo sorellarum, o Grugna, suprema mearum,
si nescis, opus est hic me remanere poëtam:
non mihi conveniens minus est habitatio zucchae,
quam qui Greghettum quendam praeponit Achillem
forzibus Hectoris; quam qui alti pectora Turni
spezzat per dominum Aeneam, quem carmine laudat
«Moenia mentum mitra crinemque madentem».
Zucca mihi patria est; opus est hic perdere dentes
tot quot in immenso posui mendacia libro.
Balde, vale, studio alterius te denique lasso,
cui mea forte dabit tantum Predala favorem
ut te Luciferi ruinantem regna tyranni
dicat et ad mundum san salvum denique tornet.
Tange peroptatum, navis stracchissima, portum,
tange, quod ammisi, longinqua per aequora remos!
He heu, quid volui, misero mihi? perditus, Austrum
floribus et liquidis immisi fontibus apros!

(Perciò, o Grugna, ultima delle mie Muse, se non lo sai, io poeta devo rimanere qui: la dimora della zucca non è meno adatta a me che a colui che antepone un grecuccio come Achille alla forza di Ettore; a colui che fa spezzare da un Enea il petto del grande Turno, che in quel suo verso glorifica “avvolto il mento e la chioma profumata in un copricapo orientale da donna”. La zucca è la mia patria; è necessario qui perdere i denti, tanti quante sono le bugie che ho messo nel libro lunghissimo. Baldo, ti saluto e ti lascio finalmente al lavoro di qualche altro, cui forse la mia Pedrala darà tanto aiuto per dire di te che distruggi i regni del tiranno Lucifero e per farti tornare al mondo sano e salvo. Entra nel porto desiderato, o nave stanchissima! Entra perché nei lunghi viaggi per mare ho perso i remi. Ahi! Che cosa ho voluto tentare, povero me? Folle, ho messo l’Austro tra i fiori e i cinghiali nelle fonti pulite!).

Questa è la lingua del Baldus, questo è il famoso maccheronico.

 

Ferrara, gli Estensi e Matteo Maria Boiardo

 

Matteo Maria Boiardo nacque in una nobile famiglia di Scandiano, in provincia di Reggio Emilia, nel 1440. Ebbe, fanciullo, due maestri di grandissima qualità: il nonno, Feltrino Boiardo, e lo zio materno, Tito Vespasiano Strozzi, famoso poeta, i quali gli instillarono l’amore per le lettere, avviandolo agli studi umanistici. L’influsso di questi insegnamenti non tardò a manifestarsi. Matteo_Maria_BoiardoA soli tredici anni, infatti, scrisse il suo primo libro, il Carme in lode degli Estensi, perché, anche allora, i politici e i protettori dovevano essere adulati a dovere. Tutto questo, qualche anno più tardi, gli valse, anche a causa delle contese contro i parenti circa l’eredità del padre defunto, l’ingresso, a Ferrara, alla corte degli Estensi, i quali lo colmarono di onori e gli concessero i governatorati di Modena e, poi, di Reggio Emilia. Questi signori padani avevano creato intorno a sé un ambiante davvero raffinato, tanto da rendere la corte ferrarese una delle più eleganti, anche culturalmente, di tutto il Nord Italia. Già agli inizi del ‘200, trovatori vi erano stati ospitati e, vicende politiche permettendo, i rampolli della famiglia d’Este si erano sempre comportati da munifici mecenati. All’epoca del Boiardo, le sorti della dinastia erano tenute da Borso, fino al 1471, e da Ercole I, fino al 1505. A Reggio Emilia il poeta incontrò una bella donna, Antonia Caprara, della quale si innamorò e per la quale compose un intero canzoniere, intitolato Amorum libri tres  (Tre libri di cose amorose). 180 componimenti, divisi in tre gruppi di 60 ciascuno, dedicati rispettivamente alle gioie, alle pene e ai rimpianti d’amore.

L’Orlando Innamorato

La sua opera più celebre è l’Orlando Innamorato, un poema in tre libri, interrotto quando l’Autore passò a miglior vita. In esso, Boiardo mise insieme la materia carolingia e quella bretone, 5616481-Mintrecciando azione e amore, anche per compiacere le dame e i cavalieri della corte estense, i quali volevano sentirsi raccontare storie che avessero a che fare con il loro mondo, con il loro stato e con i loro amori. Il poeta li accontentò. Combattimenti, innamoramenti, liti, duelli, belle donne, gentilezza, buone maniere, conversioni e chi più ne ha, più ne metta. Tra i personaggi principali, Angelica, è il propulsore di tutto il poema. Ella è una creatura bellissima, ma non nobilita o ingentilisce gli uomini, come le donne degli stilnovisti, anzi, li fa perdere. Sa essere delicata e amorevole ma anche ammaliatrice e crudele. Anche i paladini, Orlando, Rinaldo e altri, sono lontani dall’esprimere compiutamente i valori che avevano caratterizzato l’epica classica. Essi, infatti, sono rappresentati anche come uomini con debolezze, vizi, stolta testardaggine, più adusi a correre, folli, dietro le sottana che a svettare sui campi di battaglia, pur restando, comunque, valenti guerrieri.

Boiardo

Angelica, affascinante figlia di Galafrone, re del Cataio, si reca alla corte di Carlo Magno per implorare aiuto contro i nemici Tartari. Orlando, il migliore paladino di Francia, se ne innamora all’istante e la insegue fino al suo regno, in Oriente. Per difenderla, sconfigge il re di Tartaria, Agricane, che vuole sposarla con la forza e, tanto fuori di sé per amore, arriva addirittura a battersi contro il cugino Rinaldo, colpito, di contro, da una magia di odio per Angelica. Carlo Magno, intanto, è attaccato dal re indiano Gradasso, che intende sottrargli la spada di Orlando e il cavallo di Rinaldo. Senza i suoi migliori guerrieri, l’imperatore è incredibilmente salvato da Astolfo, un paladino fisicamente scarso ma molto furbo. not_detected_232244-1635Dopo ciò, Astolfo parte per l’Oriente, per andare a recuperare Orlando e Rinaldo. Giunto colà, durante il loro duello, si schiera dalla parte di Rinaldo. Angelica, preoccupata per le sorti Rinaldo, di cui è innamorata,  interrompe lo scontro e ordina ad Orlando di recarsi a distruggere il giardino della maga Falerina. Contro ogni pronostico, Orlando compie l’impresa e riesce perfino a salvare due volte il cugino e gli altri cavalieri, sia dalla maga Morgana della Fortuna, sia dal re Manodante delle Isole Lontane. Incontra, poi, Origille, una malvagia traditrice, innamorandosi stupidamente anche di lei. Ripetutamente imbrogliato e derubato dalla donna, finalmente ritorna da Angelica, giusto in tempo per salvarla dalla regina Marfisa. Astolfo, frattanto, è rimasto intrappolato tra le grinfie dalla maga Alcina, innamorata di lui. Nello stesso tempo, Agramante, re d’Africa, decide di invadere la Francia, ma ha bisogno del giovane Ruggero, prigioniero dal mago Atlante. Agramante invia il piccolo e viscido ladro Brunello in Oriente, per rubare l’anello magico di Angelica, che rende invisibili e, con esso, Brunello libera Ruggero dal mago. Orlando e gli altri paladini ritornano in Francia con Angelica, essendo giunta loro notizia dall’invasione di Agramante, seguito dal possente Rodomonte, dal giovane Ruggero, da Marsilio, re di Spagna, con l’invulnerabile nipote Ferraù.pupi_mostra Malgrado il valore dei francesi, a cui si è aggiunta la paladina Bradamante, sorella di Rinaldo, i musulmani sfondano le linee cristiane sui Pirenei. Il figlio di Agricane, Mandricardo, giunge, con Gradasso, in Francia, per vendicare il padre sconfitto da Orlando. L’esercito di Carlo Magno si ritira a Parigi, dove Agramante lo assedia. Disinteressandosi completamente della guerra, Orlando e Rinaldo, ora colpito da una magia d’amore per Angelica, continuano a inseguirla. Il mago Atlante, nel tentativo di recuperare Ruggero, di cui Bradamante era innamorata, ricambiata, porta disordine e trambusto da tutte le parti, con le sue magie e i suoi trucchi. Boiardo fece giusto in tempo a verseggiare che dall’unione di Ruggero e Bradamante sarebbe stata originata la casata degli Estensi. Morì, forse avvelenato da quegli stessi parenti che in gioventù lo avevano costretto ad abbandonare il suo palazzo di Scandiano. L’Orlando Innamorato ebbe fortuna fino a quando Ludovico Ariosto ne continuò la narrazione dei fatti nell’Orlando Furioso. Poi, non fu più ristampato per circa tre secoli.

 

I poeti della Scuola siciliana

 

Federico II di Svevia

In un articolo precedente (leggi) avevo trattato la poetica della Scuola siciliana, riservandomi, successivamente, di illustrarvene i poeti. Detto fatto! Cominciamo dal più importanteFedericoIIdiSvevia1 di essi, almeno dal punto di vista della carica: el padrino, per quelli che hanno vissuto sulla Luna negli ultimi vent’anni, il capo, il boss di tutta quanta la baracca, el magíco, il señor Pablo Es…scusate, ho rivisto il film “Blow” proprio qualche giorno fa!, l’imperatore Federico II di Svevia. È inutile che io, qui, mi dilunghi a descrivere la figura e il valore storico di quest’uomo, anche perché, non basterebbero duecento pagine. Dico soltanto che, se i coevi lo chiamarono Stupor mundi, certamente non era l’ultimo arrivato. Tutt’altro! Federico parlava correntemente almeno cinque lingue, scrisse un trattato sulla caccia col falcone, De arte venandi cum avibus (L’arte di cacciare con gli uccelli), la prima, vera opera, redatta in Occidente, su questo particolare argomento, elaborata con rigore scientifico e basata sull’esperienza e sulle numerose osservazioni, fatte personalmente in trent’anni, e componeva versi. Eccone alcuni:

Poi ch’a voi piace, amore,
che eo degia trovare,
faronde mia possanza
ch’io vegna a compimento.

(“Poi c’a voi piace, amore“, vv. 1-4)

Omo c’è posto in alto signoragio
e in riccheze abunda, tosto scende,
credendo fermo stare in signoria.
Unde non salti troppo omo ch’è sagio,
per grande alteze che ventura prende,
ma tuttora mantegna cortesia.

(“Misura, providenzia e meritanza“, vv. 9-14)

Giacomo da Lentini

Il “notaro”, come fu soprannominato, poi, dai poeti toscani, fu un funzionario imperiale, poiché la sua attività è documentata, alla corte di Palermo, per almeno un quindicennio. Fu proprio lui a inventare il sonetto, il componimento rimato tipicamente siciliano, e aveva l’aria di essere il caposcuola di tutti i poeti di corte. Scrisse sonetti e canzonette, circa trenta. A lui si deve anche la fissazione dei canoni della poesia siciliana, di cui ho già parlato nell’articolo precedente.

Amor è un desio che ven da core
per abondanza di gran piacimento;
e li occhi in prima generan l’amore
e lo core li dà nutricamento.

(“Amor è un desio che ven da core“, vv. 1-4)

Giacomo, in sostanza, vuol significare che possiamo sì infatuarci di una donna, pur non avendola mai vista, ma l’amore vero e la passione nascono da altro: sono gli occhi, in definitiva, ad accendere il cuore! Se non si è mai vista in faccia una donna, è difficile che ci si possa innamorare davvero di lei, soprattutto perché potrebbe essere brutta. Effettivamente, ha ragione.01107 Sentite cosa mi è capitato qualche anno fa: chiesi alla sorella di un mio collega se avesse avuto qualche amica da presentarmi, perché in quel periodo mi sentivo solo. Lei mi disse di sì e per una decina di giorni mi parlò, senza posa, di questa ragazza, di quanto fosse bella, descrivendomela in tutti i particolari, e ripetendomi, fino allo stremo, che fosse tanto dolce e delicata e che desiderasse avere un fidanzato. Non avendola mai vista, dopo quanto mi era stato raccontato, presi quasi una cotta per questa bellissima “idea”. Giunse, finalmente, il giorno del nostro primo appuntamento (pure quello mi era stato combinato!): ci saremmo dovuti incontrare in un bar. Quella sera, la piazza dove si trovava il locale, fortunatamente, era piena di gente. Quando arrivai e, da lontano, la intravidi accanto alla mia amica, scappai. Qualche minuto dopo, telefonai il mio collega chiedendogli di avvisare la sorella che avevo avuto un problema alla macchina ed ero rimasto per strada. Se prima di quell’incontro avessi potuto vedere almeno una foto di questa descritta Venere del Botticelli, quella sera sarei andato, direttamente, con i miei amici a bere una birra!

Pier delle Vigne

La pianta dalla quale Dante, nella selva dei suicidi, all’Inferno (Canto XIII, vv. 31 e  sgg), spezzò un ramoscello secco, e che, lamentandosi, così gli parlò: “Ma che cosa stai facendo? Non vedi che mi fai male!”, 912racchiudeva l’anima di Pier delle Vigne, consigliere di Federico II, logoteta, cioè ordinatore di parole e documenti, poeta, morto suicida a causa dell’invidia delle malelingue infami, le quali, non solo gli fecero fare una figuraccia con la sua signora, ma lo inguaiarono seriamente davanti all’imperatore. Per la cronaca (giudiziaria), nacque a Capua, studiò diritto a Bologna e trovò lavoro alla corte di Palermo. Un brutto giorno, senza alcuna spiegazione, fu fatto arrestare e accecare, per tradimento, dall’imperatore in persona. In carcere si ammazzò, fracassandosi la testa contro il muro. Prima di questa tragedia personale, comunque, aveva vissuto anni felici, componendo canzoni e sonetti per le donne palermitane. 

Amor, in cui disio ed ho speranza,
di voi, bella, mi ha dato guiderdone;
guardomi infin che venga la speranza,
pur aspettando bon tempo e stagione;
com’om ch’è in mare ed à spene di gire,
quando vede lo tempo ed ello spanna
e già mai la speranza no lo ‘nganna,
così faccio, madonna, in voi venire.

(“Amor, in cui disio ed ho speranza“, vv. 1-8)

Stefano Protonotaro

Messinese, prestò servizio alla corte sveva. Il protonotaro, infatti, era quel magistrato preposto al controllo dei notai, addetti alla redazione degli atti della cancelleria del re. Servì anche il successore di Federico, il figlio Manfredi, per il quale tradusse, dal greco in latino, due trattati arabi di astronomia.

Pir meu cori alligrari,
chi multu longiamenti
senza alligranza e joí d’amuri è statu
mi ritornu in cantari,
ca forsi levimenti
da dimuranza turniria in usatu
di lu troppu taciri;
e quandu l’omu ha rasuni di diri,
ben di’ cantari e mustrari alligranza,
ca senza dimustranza
joi siria sempri di pocu valuri
dunca ben di’ cantar onni amaduri.

(“Pir meu cori alligrari“, vv. 1-12)

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Questa canzone è un documento importantissimo perché è l’unico componimento ad esserci pervenuto nella lingua che si parlava, a Palermo e dintorni, nel XIII secolo. Questi versi di Stefano Protonotaro, infatti, sono diversi da quelli degli altri poeti siciliani che avete letto sinora, quasi fossero in un’altra lingua, perché questi ultimi ci sono giunti attraverso codici toscani, trascritti o, meglio, tradotti in lingua toscana, da chi compilò, settecento anni fa, le prime antologie della poesia italiana.

Guido delle Colonne

Forse concittadino del Protonotaro o, forse, romano, giudice e funzionario di corte, ebbe l’onore, insieme con Giacomo da Lentini, di finire nel De vulgari eloquentia di Dante (Libro 2, cap. V), celebrato come sommo tra i poeti di Federico. Scrisse una Historia destructionis Troiae (Storia della distruzione di Troia) imitando, anzi, quasi traducendo, il Roman de Troie, e cinque canzoni molto elaborate dal punto di vista metrico, nelle quali cantò che, nonostante le inevitabili delusioni, l’amore fosse sempre una gioia senza fine.

Ma più deggio laudari
Voi, donna caunoscente
donde lo meo cor sente
la gioi che mai non fina.

(“Gioiosamente canto“, vv. 41-44)

Cielo d’Alcamo

Ultimo di questa sequenza, ma non certo per importanza, è l’autore del più famoso componimento di tutta la Scuola Siciliana: il contrasto (dialogo poetico, serio o giocoso, tra persone reali o immaginarie) intitolato Rosa fresca aulentissima. paciulloCielo, che per alcuni fu Ciullo, diminutivo di Vincenzullo, e per altri Cheli, diminutivo di Michele, nacque, forse, ad Alcamo, in provincia di Trapani. Come si chiamasse veramente, non è che a noi interessi più di tanto, quanto, invece, ciò che scrisse: il notissimo contrasto, appunto. Trentadue strofe di cinque versi ciascuna, tutte richieste, preghiere, suppliche e necessità di un giullare, il quale, evidentemente, era abbastanza ingrifato, ad una giovane donna, la quale, all’inizio faceva la preziosa e, poi, dopo aver forse fatto due conti, gli concesse la caramellina. Per convincerla, il menestrello gliele diceva di tutti i colori, promettendole amore eterno e giurandole che l’avrebbe seguita in convento, se si fosse monacata, o in fondo al mare, se si fosse annegata di proposito. La fresca signorina, la quale, dal canto suo, non era stupida e, sotto sotto, c’aveva voglia pure lei, gli rispose: “È inutile che le spari così grosse, picciottu meu! Non ci sono riusciti conti, cavalieri, giudici e marchesi, mo’ arrivi tu beddo beddo e vulissi cùogghiri il frutticieddo da lu meu iardinu?” Ma chi la dura la vince e, alla fine, dopo aver fatto giurare all’uomo sul Vangelo che non l’avrebbe mai tradita, gli disse:

Meo sire, poi juràstimi, eo tutta quanta incenno.
Sono a la tua presenzia, da voi non mi difenno.
S’eo minespreso àjoti, merzé, a voi m’arenno
A lo letto ne gimo a la bon’ora
ché chissà cosa n’è data in ventura.

(“Rosa fresca aulentissima“, vv. 156-160)

(“Mio signore, dopo che hai giurato, sono tutta quanta un fuoco! Sono qui, dinanzi a te, e mi arrendo alle vostre richieste. Se prima ti ho maltrattato, chiedo perdono e mi arrendo. Andiamo a letto, finalmente, perché questo è il nostro destino!”). E menomale che sono solo gli uomini a pensare sempre alla stessa cosa! Cielo fornisce una rappresentazione del rapporto amoroso che va ben al di là di quella che avevano dato i suoi amici poeti. Ma l’amore è anche questo, o no?

Tutti gli altri rimatori siciliani

Tra i poeti meno conosciuti, ricordiamoci di Giacomino Pugliese, non siciliano, ma trevigiano (perché quel cognome, allora?), autore di sette canzoni e canzonette, almeno quelle che ci sono giunte, verseggiatore dallo stile semplice e immediato. Rinaldo d’Aquino, forse fratello di San Tommaso. Manfredi_di_SiciliaMazzeo di Riccio, il terzo di Messina, la città dei poeti e, infine, Jacopo Mostacci, falconiere ufficiale di Federico, il quale, come vedete, li fece diventare poeti proprio tutti. Il grande imperatore morì nel 1250, lasciando il Regno di Sicilia al figlio Manfredi (immagine a destra). Questi, fu un sovrano generoso e continuò la politica culturale del padre, accogliendo a corte, oltre agli amati poeti, anche scienziati e artisti. Papa Urbano IV, però, lungi dal farsi gli affari suoi, come, del resto, non avevano fatto i suoi predecessori e non faranno nemmeno i suoi successori, lo scomunicò e, addirittura, bandì una vera e propria crociata contro di lui, forte dell’appoggio di Carlo d’Angiò, fratello di Luigi IX di Francia. Quando, poi, il pontefice cadde nel sonno eterno, ci pensò il subentrante Clemente IV a continuare l’opera. Nel 1266, a Benevento, contro le truppe dell’Angiò, Manfredi perse la battaglia, la corona e pure la vita. Con la morte del figlio di Federico II, il regno svevo andò in pezzi e finì pure la poesia, che non aveva più quella sua amata corte di Palermo per esprimersi.