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Il Crepuscolarismo e Guido Gozzano

 

I primi vent’anni della ma vita li ho trascorsi al mio paese, Sant’Agata sui due Golfi. Vivevo, insieme con i miei genitori e mia sorella, al secondo piano di un palazzetto giallo. Il balcone della mia camera da letto affacciava su un panorama mozzafiato: a sinistra, la collina di Santa Maria della Neve, dove potevo vedere l’edificio in cui avevo frequentato le scuole elementari, poi, il Monte San Costanzo, dalla cui cima si gode uno degli spettacoli più belli del mondo, 20150210_172906al centro della scena, l’isola di Capri e sulla destra, il colle del Deserto, col suo cupo monastero. Fin da bambino, mi incantavo, poggiato sulla ringhiera, a guardare, tra ottobre e novembre, il sole tramontare tra Capri e il mare. Ho quasi sempre accostato questa immagine al ricordo della mia infanzia e della mia terra bellissima ogniqualvolta, essendone lontano, ho pensato ad esse. Anche il termine Crepuscolarismo mi rimanda a questa dolce memoria per cui, a prescindere, ne sono affezionato. In qualche modo, questa definizione ha a che fare con il tramonto, perché fu adoperata per definire quella tendenza poetica che si sviluppò in Italia nei primi quindici anni del Novecento. Gabriele D’Annunzio aveva celebrato la poesia eroica, ponendo il poeta nella posizione di animatore della storia e creatore delle forze del futuro (il solito megalomane!). I crepuscolari, al contrario, rifiutavano questa concezione del poeta e della poesia, ripiegando su temi e movimenti più semplici, di declino, smorzati e spenti, comuni e usuali, come il sole che tramonta, appunto. Ecco il perché del termine Crepuscolarismo. Non so se avete mai fatto caso a ciò: in letteratura, funziona come in fisica, perché, ad ogni azione, corrisponde una reazione uguale e contraria. E allora, dopo il Petrarchismo c’è stato il Barocco, dopo il Barocco, l’Arcadia, dopo l’Arcadia, l’Illuminismo, dopo l’Illuminismo, il Romanticismo, dopo il Romanticismo, la Scapigliatura, dopo la Scapigliatura, il Verismo, dopo il Verismo, la poesia dannunziana, dopo la poesia dannunziana, il Crepuscolarismo and so on, come dicono gli inglesi. guido_gozzanoOgnuno di questi movimenti poetici deve qualcosa a quello che lo ha preceduto, soprattutto perché, ne viene fuori come contrapposizione, quasi a dire: “Io sono così, perché tu sei stato colì!” È un po’ come alle elezioni, dove ogni partito o coalizione si proclama diverso e migliore di chi era prima al governo, ma nei fatti, poi, non cambia mai niente. In letteratura per fortuna, non funziona così. Ogni singola stagione culturale ha dato qualcosa di importante alla sua storia. Comunque, torniamo ai nostri crepuscolari. Il più famoso tra essi fu senza dubbio Guido Gozzano. Nato a Torino nel 1883, studiò con poco profitto alle scuole superiori, si iscrisse all’Università senza, però, laurearsi. Si interessò soltanto alla letteratura, praticamente. Visse molto poco, 33 anni, distrutto dalla tisi, malattia che tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, fece strage non solo di poeti e letterati, ma anche di gente comune perché, a differenza dei concorsi pubblici, dove si fa a chi figlio e a chi figliastro, come si suol dire, la tisi non ha mai guardato in faccia a nessuno, né ha accettato raccomandazioni: per questo infame morbo erano tutti figli di NN! Il suo compendio poetico che vale la pena leggere è “Colloqui”. La poetica di Gozzano risente della malattia e del continuo confrontarsi con essa, dell’incertezza del futuro e del rifugio in un passato tutto da ricordare. Avrebbe desiderato solo essere felice, poter amare ed essere amato, ma la tisi glielo impedì. Ne sono dimostrazione due tra le sue liriche migliori:

Loreto impagliato ed il busto d’Alfieri, di Napoleone
i fiori in cornice (le buone cose di pessimo gusto),
il caminetto un po’ tetro, le scatole senza confetti,
i frutti di marmo protetti dalle campane di vetro,
un qualche raro balocco, gli scrigni fatti di valve,
gli oggetti col monito, salve, ricordo, le noci di cocco,
Venezia ritratta a musaici, gli acquarelli un po’ scialbi,
le stampe, i cofani, gli albi dipinti d’anemoni arcaici,
le tele di Massimo d’Azeglio, le miniature,
i dagherottìpi: figure sognanti in perplessità,
il gran lampadario vetusto che pende a mezzo il salone
e immilla nel quarzo le buone cose di pessimo gusto,
il cùcu dell’ore che canta, le sedie parate a damasco
chèrmisi… rinasco, rinasco del mille ottocento
cinquanta!

(L’amica di nonna Speranza, vv. 1 – 14)

«Piccolino, ti piaccio che mi guardi?
Sei qui pei bagni? Ed affittate là?»
«Sì… vedi la mia mamma e il mio papà?»
Subito mi lasciò, con negli sguardi
un vano sogno (ricordai più tardi)
un vano sogno di maternità…
«Una cocotte!…»
«Che vuol dire, mammina?»
«Vuol dire una cattiva signorina:
non bisogna parlare alla vicina!»
Co – co – tte… La strana voce parigina
dava alla mia fantasia bambina
un senso buffo d’ovo e di gallina…
Pensavo deità favoleggiate:
i naviganti e l’Isole Felici…
Co – co – tte… le fate intese a malefici
con cibi e con bevande affatturate…
Fate saranno, chi sa quali fate,
e in chi sa quali tenebrosi offici!
Un giorno –  giorni dopo –  mi chiamò
tra le sbarre fiorite di verbene:
«O piccolino, non mi vuoi più bene!…»
«È vero che tu sei una cocotte?»
Perdutamente rise… E mi baciò
con le pupille di tristezza piene.

(Cocotte, vv. 19-43)

crepuscolo1

Gozzano non si atteggiò mai a grande poeta, perché verseggiò con tristezza, quasi piangendo. Come me. Una volta, scrissi una poesia di getto, per una donna che mi aveva abbandonato improvvisamente, dopo due mesi che eravamo insieme. Impiegai meno di dieci minuti a comporla e lo feci con le lacrime che grondavano dagli occhi, nel vero senso della parola. Dovetti tenerli quasi chiusi, per non allagare la tastiera del computer. Non è crepuscolare, ma esprime, comunque, il bisogno di impedire il crepuscolo di una passione. Voglio farvela leggere:

La perla e il pescatore

Seppure raccogliessi tutto il silenzio che ti è succeduto,
per farne un’unica parola d’amore
che recasse il tuo nome,
seppure avessi la possibilità,
un’unica, sola, possibilità ancora
di averti davanti e guardarti sorridere,
seppure pensassi di annegare il mio cuore
nel dolore che piango
al ricordo incomparabile dei tuoi occhi,
seppure maledicessi quelle mani che mi carezzavano,
quelle labbra che baciavano le mie
e i raggi di luna in una notte d’inverno,
e seppure permettessi alla rabbia di gridare,
per provare a trovare una ragione,
che sia pure vana e illusoria,
potrò mai dimenticarti?
Non voglio! Non voglio che il silenzio diventi parola,
che il tuo sorriso, i tuoi occhi, le tue mani, le tue labbra
siano solo ricordo.
Non voglio una perla,
voglio pescare lì dove il mare è profondo,
dove mi troverai quando risalirò dall’abisso
in cui la tua assenza mi ha fatto sprofondare.

 

 

Giuseppe Gioachino Belli: er poeta de Roma

 

Ma cche Ffajòla, Cristo, è ddiventata
sta Roma porca, Iddio me lo perdoni!
Forche, che state a ffà, ffurmini, troni,
che nun sscennéte a ffanne una panzata?

(Campa e llassa campà, vv. 1 – 4)

Romano de Roma, come pochissimi altri nella storia della Letteratura Italiana, nacque nel 1791. Non aveva compiuto 16 anni, che entrambi i genitori erano già morti: il padre di colera, la madre non si sa, ma, certamente, non di vecchiaia. Il giovanotto allora, dovette abbandonare gli studi gioacchino_bellie mettersi a lavorare, esercitando la professione di famiglia, il contabile. Si arrangiò in ogni modo possibile, facendo sempre salti mortali per portare qualche soldino a casa. Per arrotondare, dava lezioni private di italiano, geografia e aritmetica. Nel 1816, sposò una vedova, Maria Conti, molto più anziana di lui. Si buttò a capofitto nella vita matrimoniale anche perché, la dote della moglie, gli permise di vivere un po’ più tranquillamente. Di tanto in tanto, viaggiò, ebbe tempo sufficiente per soddisfare le sue curiosità letterarie, partecipò alla vita culturale romana, entrando a far parte dell’Accademia Tiberina, di cui fu anche segretario e presidente. Trascorse il resto della vita a comporre poesie in romanesco, fino a quando, la sera del 21 dicembre 1863, un ictus lo stroncò. Qualche tempo prima di morire, aveva detto al figlio: “Ah Ciro, me raccomanno, quanno moro devi da bbrucià tutte ‘ste cartacce mia, ‘a capito!”. “Sì ah papà, nun te preoccupà, quanno che sarà ‘o farò!”. Per fortuna, Ciro non lo ascoltò.

Torzetto l’ortolano a li Serpenti
prometteva oggni sempre ar zu’ curato
c’a la su’ morte j’averìa lassato
cinquanta scudi e ccert’antri ingredienti.

Quanto, un ber giorno, lui casc’ammalato;
e ccurreveno ggià cquinisci o vventi
tra pparenti e pparenti de parenti
a mmostrajje un amore indemoniato.

Ecchete che sse venne all’ojjo – santo;
e ‘r curato je disse in ne l’ontallo:
“Ricordateve, fijjo, de quer tanto…”

Torzetto allora uprì ddu’ lanternoni,
e jj’arispose vispo com’un gallo:
“Oggne oggne, e nnu mme roppe li cojjoni.

(Er testamento der Pasqualino)

Belli è stato, senza dubbio alcuno, il poeta del popolo romano. In oltre 2000 sonetti, lo cucinò in tutte le salse, ce ne ha fatte sapere di tutti i colori, dando voce ai plebei, facendogli parlare il loro linguaggio, pieno di parolacce, insulti e scurrilità, con i quali essi lamentavano01_02_Cat i loro bisogni, mostrando i maltrattamenti e le prepotenze subite dal clero e dalla nobiltà. La comicità che ne viene fuori è spesso esilarante, ma la sua produzione rappresenta anche uno specchio fedele e profondo della Roma del Papa Re, una città alquanto arretrata, sporca, con le greggi di pecore che andavano a brucare l’erba tra le rovine dell’antico impero, stracolma di bordelli e di furfanti, mendicanti e pover’uomini ad ogni angolo della strada, forche dalle quali pendevano malfattori e spesso sventurati innocenti, gente che si arrangiava come poteva, furbescamente e un po’ truffaldinamente, ma, tutto sommato, con un grande cuore. Questo è concentrato nella poesia di Belli.

Accidenti a l’editti, a cchi l’inventa,
chi li fa, chi li stampa, chi l’attacca,
e cchi li legge. E a vvoi st’antra patacca
schiccherata cor brodo de pulenta!

E addosso all’ostarie! ggente scontenta,
fijji de porche fijje d’una vacca!
Si all’ostaria ‘na purcia sce s’acciacca,
cqua ddiventa un miracolo diventa!

Papa Grigorio, dì ar Governatore
che sto popolo tuo trasteverino
si pperde l’ostarie fa cquarc’orrore.

Noi mànnesce a scannatte er giacubbino,
spènnesce ar prezzo che tte va ppiù a ccore,
ma gguai pe ccristo a cchi cce tocca er vino.

(L’editto de l’ostarie)

Come lui stesso ebbe a dire: “Vojo fà de a plebe romana, monumento.” E ci è riuscito, perché nei suoi sonetti quella plebe c’è tutta, parla, si sbraccia, cerca attenzione e la ottiene. I suoi concittadinibelerma1 lo ricambiarono, erigendogli un bel monumento nella piazza omonima, proprio all’ingresso del rione Trastevere (foto a sinistra). Tanto per sorridere ancora un po’: nel 1827, Giuseppe Gioachino Belli raggiunse Milano perché in molti, a Roma, gli avevano detto che nella capitale del Lombardo – Veneto avrebbe potuto trovare tanti uomini di lettere e bravi rimatori come lui. Ed infatti, vi conobbe il poeta Carlo Porta. Sarebbe stato bello poterli sentire tutt’e due, uno in milanese e l’altro in romanesco, scambiarsi versi e versacci. Forse per rispondergli con le rime, o, forse, per imitazione, Belli compose un sonetto simile a Dormiven dò tosann tutt do attaccaa di Porta (a breve, un articolo su questo letterato milanese). Il “nobile” argomento è sempre lo stesso:

Àghita, sai? je l’ho ggià ddetto a cquello:
e llui s’è sbottonato li carzoni,
e mm’ha ffatto vedé ccome un budello
attaccato a ddu’ ova de piccioni.

Quer coso disce che sse chiama uscello,
oppuro cazzo, e ll’antri dua cojjoni.
Io je fesce: “E cch’edè sto ggiucarello?
E sti du’ pennolini a cche ssò bboni?”

Mo ssenti, Àghita mia, quello che rresta.
Disce: “Fa ddu’ carezze a sto pupazzo.”
Io je le fesce, e cquello arzò la testa.

Perantro è un gran ber porco sto sor cazzo,
perché ppoi, strufinannome la vesta,
ce sputò ssopra, e mme sce fesce un sguazzo.

(Le confidenze de le ragazze)

 

 

Trattati, cronache e storie tra il ‘200 e il ‘300

 

Secondo quel modo di scrivere tipicamente medievale, a partire dal 1100, furono composte, in Europa e in Italia, vastissime opere che trattavano di tutto e di più. Quando, ad esempio, un letterato scriveva un libro di storia, non si limitava a raccontare quanto era accaduto ai suoi tempi o, al massimo, nell’arco di qualche secolo, come accade oggi in gran parte dei testi di storia che si studiano a scuola, ma cominciava da quando Dio che creò il mondo, fino al momento in cui staccava definitivamente la penna dal foglio.im099 Allo stesso modo, chi metteva insieme animali, piante e pietre preziose, in particolari raccolte dette bestiari, erbari o lapidari, non catalogava solo quello che aveva sotto gli occhi, ma vi inseriva mostri, belve feroci, animali mitologici, finti e inventati, piante che non sarebbero esistite nemmeno nel più attrezzato orto botanico del mondo, come i Kew Gardens a Londra, erbe magiche, fiori che divoravano gli uomini, pietre dai poteri meravigliosi, che si trasformavano in oro, che rendevano invisibili, il tutto arricchito con mille significati e allegorie. Questa particolare tendenza dello scrivere è stata detta enciclopedismo, perché, ogniqualvolta venisse in mente a qualcuno di mettersi a fare lo scrittore, doveva stendere un’enciclopedia. Giusto per fare due nomi, cito Vincenzo di Beauvais, autore dello “Speculum (specchio) Maius“, diviso in naturale, doctrinale e historiale, che rifletteva proprio tutto, e Ristoro d’Arezzo, redattore di una “Composizione del mondo con le sue cascioni“, due capitoloni difficilissimi e di una noia mortale. Molti furono anche i trattati di matematica, come quelli di Lorenzo Fibonacci, che nel tempo libero inventava sequenze numeriche per Dan Brown, e quelli di medicina, di astronomia e di astrologia.

I lettori di allora avevano poco tempo e ancor meno voglia di sfogliare libroni che non avrebbero mai finito, pieni di cose che non gli interessavano affatto. download (2)Avrebbero preferito leggere qualcosa che gli raccontasse come andassero le cose in modo spicciolo. Anch’essi volevano interessarsi di politica, sapere chi avesse perso la battaglia, chi fosse stato stato eletto re o nominato vescovo. Volevano leggere i settimanali scandalistici dell’epoca, come Novella 2000 o Chi, i quali rivelavano l’ultimo fidanzato della contessa o con chi era scappata la figlia del vassallo, promessa in sposa al principe reale.  Fu per questo, che tra la fine del ‘200 e gli inizi del ‘300, qualche storico furbo e un po’ curioso, pensò bene di scrivere cronache di quello che era successo e succedeva in quegli stessi anni, cui aveva potuto assistere con i suoi occhi o, al massimo, si era fatto raccontare da qualcuno che era stato presente.

Salimbene de Adam e la Cronica

Monaco francescano contro la volontà del padre, Salimbene, il quale, in realtà, si chiamava Ognibene, nacque a Parma nel 1221. Durante la sua vita si spostò molto tra il Nord Italia e la Francia.download Quando fu troppo stanco per continuare, si fermò e scrisse la “Cronica“. Morì nel 1287. A Salimbene due persone gli erano antipatiche che più antipatiche non si può: i francesi e Federico II. Non perse mai occasione, soprattutto ai primi, di combinarli male: “Quando bevono – diceva – le sparano grossissime, strillando che possono prendersi il mondo in un colpo solo e, pure quando non bevono, pensano di essere migliori di tutti gli altri popoli.” Come i francesi di oggi, dunque! Contro l’imperatore, invece, scrisse un libello intitolato “XII scelera Friderici imperatoris“, (Dodici pazzie di Federico imperatore) che, purtroppo, è andato perduto, dove lo accusava di essere uno spilorcio, di non aver avuto amici a causa proprio della sua avarizia e di aver combattuto la Chiesa solo per confiscarne le proprietà. La “Cronica” di Salimbene narra i fatti storici accaduti tra gli ultimi trent’anni dell’XII secolo fino alla sua morte. Rimane una delle fonti più importanti per la storia del ‘200, piena di eventi, con lo sguardo volto alle ingiustizie e alle miserie della società del tempo e con il grande rispetto per i personaggi che quella storia stavano facendo.

Dino Compagni e la Cronica delle cose occorrenti ne’ tempi suoi

Guelfo bianco, ricco borghese e sindacalista dell’Arte della Seta, Dino Compagni visse a Firenze tra il 1255 e il 1324. Fu gonfaloniere di giustizia e priore e, proprio per questo, quando i suoi compagni di partito, tra cui Dante, furono esiliati, cacciati dai neri, poté rimanere in città, grazie ad una sorta di immunità parlamentare, ma fu costretto ad abbandonare la vita politica.download (1) Non avendo più da lavorare, quindi, saputo che l’imperatore Arrigo VII stava scendendo in Italia, pensò di dare notizia di quanto fosse successo a Firenze dal 1280 al 1312. Illustrando in modo particolare la lotta tra i guelfi bianchi e neri e la vittoria di questi ultimi, Compagni dichiarò di trattare solo “il vero delle cose certe“, pure perché non aveva intenzione di scrivere falsità. Per questo, si servì solo di ciò che aveva visto e sentito di persona o che gli aveva riferito qualche galantuomo. Per di più, non voleva raccontarla a modo suo. Ma non riuscì ad essere imparziale. La sconfitta ancora gli bruciava e, accanto alla narrazione dei fatti, inserì predicozzi contro i suoi concittadini e contro la malvagità e l’infamia dei neri e del loro capo Corso Donati. Anziché una cronaca, quest’opera sembra un diario segreto, dove la passione adoperata per descrivere quanto è richiamato va al di là del fatto storico. I giudizi violenti contro personaggi potenti ancora in vita si sprecano e l’Autore, per paura che questi gliela facessero pagare tendendogli un agguato con i loro sgherri, nascose il manoscritto in un buco nel muro in cantina. Non disse niente ad alcuno e, per caso, 150 anni dopo, questo fu ritrovato.   

Giovanni Villani e la Nuova Cronica di famiglia

Sicuramente riuscì ad essere molto meno parziale di Dino Compagni, anche perché, nel frattempo, a Firenze, i tempi erano mutati. A comandare c’erano i neri, i bianchi erano in esilio e si stava tutti un po’ più tranquilli. Giovanni Villani nacque nella città dell’Arno nel 1280. Figlio del popolo, fu mercante, banchiere socio dei Peruzzi e dei Buonaccorsi e priore un paio di volte, simpatizzando per i neri. Fu accusato falsamente di aver sgraffignato danari pubblici durante la costruzione delle nuove mura della città e, a seguito del fallimento del Banco Buonaccorsi, fu incarcerato per qualche mese. VillaniMorì durante l’epidemia di peste del 1348, quella di cui Boccaccio si servì per dare inizio al “Decameron“. Villani divise la sua “Nuova Cronica” in dodici capitoli: non seppe resistere al fascino dell’enciclopedia e, nei primi sei, raccontò la storia del mondo, dalla Torre di Babele fino al 1265, con lo scopo di vantare, in maniera esagerata, le origini romane di Firenze. Negli ultimi sei, invece, riportò quanto successo nella sua città dal 1265 all’anno della morte. L’Autore non si perde in chiacchiere. Non gli interessa dire la sua sull’accaduto, quanto soltanto raccontare come sono andati i fatti. Piena di documenti d’archivio, di informazioni sulla popolazione e su come si svolgevano i commerci in città, essa contiene anche le prime notizie biografiche su Dante, con la soddisfazione di poter annoverare, tra i cittadini fiorentini, un così illustre poeta. Sul letto di morte, col corpo pieno di bubboni per la peste, Giovanni si fece promettere dal fratello Matteo la continuazione dell’opera. Matteo proseguì fino al 1363 e chiese, poi, la stessa cosa a suo figlio Filippo il quale, però, evidentemente poco interessato a questa pratica di famiglia, aggiunse soltanto il 1364.

 

 

Giovanni Della Casa e il “Galateo”

 

“Amanti delle buone maniere, gente per la quale l’apparenza è tutto, voi che vi industriate per far bella figura ogniqualvolta vi troviate in compagnia di uomini e donne perbene, voi che avete a cuore l’esser composti ed educati, voi che vorreste una guida per non far la figura degli zotici quando siete invitati ad una cena di gala, aprite bene le orecchie, anzi gli occhi, e leggete con attenzione quanto segue: vi parlerò del Galateo, ovvero di quell’insieme di regole che vi permetteranno di presentare voi stessi quali degni membri della società civile civilizzata!”.

Giovanni Della Casa nacque, forse al Mugello, forse a Firenze, nel 1503. Studiò nel capoluogo toscano e a Bologna, intraprendendo, poi, la carriera ecclesiastica, dellac01l’unica che, allora come oggi, gli permise di vivere da vero signore senza far praticamente nulla. Per dar valore a questa sua scelta scrisse pure un trattatello, An uxor sit ducenda (Se sia buono prender moglie), con risposta, ovviamente, scontata. Fu arcivescovo di Benevento e nunzio apostolico a Venezia, dove se la spassò alla grande, nel suo palazzo sul Canal Grande, in cui si circondò di nobili, poeti, artisti e belle donne, da una delle quali ebbe anche un figlio, in barba dell’arcivescovato. Per fare ammenda dei suoi peccati, espiandoli, però, sulla pelle dei poveruomini, introdusse i Tribunali della Santa Inquisizione in Veneto e si occupò personalmente dei primi processi contro i protestanti. Aspirò per tutta la vita alla porpora cardinalizia, che non ottenne mai, probabilmente a causa dei suoi trascorsi troppo salottieri, festaioli e goderecci. Morì a Roma nel 1556.

Il Galateo

Data la sua vicenda esistenziale, quindi, chi meglio di quest’uomo avrebbe potuto scrivere un saggio sul comportamento da tenere in società?galateo  Quest’opera fu composta tra il 1551 e il 1556 ed ebbe immediatamente  grande successo – i “fissati” e i “vacui” esistevano già a quell’epoca! Il titolo completo è: “Trattato di Messer Giovanni Della Casa, nel quale sotto la persona d’un vecchio idiota ammaestrante un suo giovinetto, si ragiona dei modi che si debbono o tenere o schifare nella comune conversazione, cognominato Galateo ovvero dei costumi“. Il titolo “Galateo” deriva dal nome del vescovo di Sessa Aurunca, Galeazzo (in latino Galatheus) Florimonte, il quale, stimata l’esperienza del Della Casa in quell’ambito, gli consigliò di scriverci un trattato. Eccovi alcune regole:

(III) Percioché non solamente non sono da fare in presenza degli uomini le cose laide o fetide o schife o stomachevoli, ma il nominarle anco si disdice; e non pure il farle et il ricordarle dispiace, ma eziandio il ridurle nella imaginazione altrui con alcuno atto suol forte noiar le persone. E perciò sconcio costume è quello di alcuni che in palese si pongono le mani in qual parte del corpo vien lor voglia. Similmente non si conviene a gentiluomo costumato apparecchiarsi alle necessità naturali nel conspetto degli uomini; né, quelle finite, rivestirsi nella loro presenza; né pure, quindi tornando, si laverà egli per mio consiglio le mani dinanzi ad onesta brigata, conciosiaché la cagione per la quale egli se le lava rappresenti nella imaginazion di coloro alcuna bruttura. E per la medesima cagione non è dicevol costume, quando ad alcuno vien veduto per via (come occorre alle volte) cosa stomachevole, il rivolgersi a’ compagni e mostrarla loro. E molto meno il porgere altrui a fiutare alcuna cosa puzzolente, come alcuni soglion fare con grandissima instanzia, pure accostandocela al naso e dicendo: “Deh, sentite di grazia come questo pute!” Anzi doverebbon dire: “ Non lo fiutate, percioché pute”.

(V) Dèe adunque l’uomo costumato guardarsi di non ugnersi le dita sì che la tovagliuola ne rimanga imbrattata, perciò che ella è stomachevole a vedere; et anco il fregarle al pane che egli dèe mangiare, non pare polito costume.

(VI) Per che non si dèe dire né fare cosa per la quale altri dia segno di poco amare o di poco apprezzar coloro co’ quali si dimora.

(XI) Nel favellare si pecca in molti e varii modi, e primieramente nella materia che si propone, la quale non vuole essere frivola né vile, perciò che gli uditori non vi badano e perciò non ne hanno diletto, anzi scherniscono i ragionamenti et il ragionatore insieme.

(XVIII) D’altrui né delle altrui cose non si dèe dir male, tutto che paia che a ciò si prestino in quel punto volentieri le orecchie, mediante la invidia che noi per lo più portiamo al bene et all’onore l’un dell’altro; ma poi alla fine ogniuno fugge il bue che cozza, e le persone schifano l’amicitia de’ maldicenti, facendo ragione che quello che essi dicono d’altri a noi, quello dichino di noi ad altri.

(XXX) Non si dèe alcuno spogliare, e spetialmente scalzare, in publico, cioè là dove onesta brigata sia, ché non si confà quello atto con quel luogo, e potrebbe anco avenire che quelle parti del corpo che si ricuoprono si scoprissero con vergogna di lui e di chi le vedesse.

rinasc1

Nonostante il comportamento perfetto sia, in ogni caso, difficile da realizzare, a monsignor Della Casa va riconosciuto almeno il merito di aver provato a ingentilite i suoi contemporanei e quanti, nei secoli a venire, si siano accostati alla sua opera, traendone modelli da seguire per essere più chic.

 

Francesco Guicciardini e la storiografia moderna

 

Terzo figlio di Piero di Jacopo e Simona Gianfigliazzi, ricchi e influenti cittadini fiorentini fedeli ai Medici, nacque il 6 marzo 1483 e fu tenuto a battesimo nientemeno che da Marsilio Ficino – chissà quale influenza esercitò su di lui questo padrino così illustre! Il giovane Francesco apprese il diritto a Firenze, presso uno degli insegnanti più alla moda del tempo, messer Francesco Pepi. francesco-guicciardiniFu, poi, a Ferrara e a Padova, dove concluse gli studi presso la celeberrima Università cittadina. Rientrato a Firenze non ancora laureato, cominciò ad esercitare la professione forense e l’insegnamento. Nel 1508, contro il volere del padre, sposò Maria Salviati, figlia di Alamanno, potente aristocratico che aveva le mani in paste un po’ dappertutto nella città dell’Arno. Grazie proprio alle amicizie del suocero poté avviarsi alla carriera politica, che lo condusse rapidamente al successo. Fu ambasciatore in Spagna e, al ritorno dei Medici a Firenze, governatore di Modena, Reggio Emilia, Parma e, in seguito, di tutta la Romagna, incarico nel quale dimostrò carattere e grande abilità diplomatica. Nel 1527, dopo la cacciata dei Medici, a causa dei sospetti dei repubblicani che non si fidarono di lui, decise di ritirarsi nella sua villa al Finocchietto, fuori Firenze. Colà si dedicò alla scrittura, aspettando tempi migliori che, però, non arrivarono. Nel 1529, gli furono perfino confiscati i beni, costringendo lui e la sua famiglia a trasferirsi a Roma, presso papa Clemente VII, un Medici. Quando il potente casato mediceo, per la terza volta, rientrò in città, fu consigliere del duca Alessandro ma poco ottenne dal suo successore Cosimo I. Scelse, quindi, di abbandonare definitivamente la vita politica. Pochi anni dopo, nel 1540, il 22 maggio, morì.

Ricordi politici e civili

Presso le famiglie di ricchi mercanti o, comunque, molto facoltose, era consuetudine, da parte dei membri culturalmente dotati, redigere e collezionare brevi pensieri, aforismi, raccomandazioni pratiche ed etiche, consigli, rivolti ai congiunti. Guicciardini elaborò sentenze e precetti lungo tutta la vita, sin dalla prima gioventù. Da essi si intuisce molto bene quali fossero i reali pensieri dell’Autore e il suo modo di rapportarsi alla realtà, alla vita civile e alla politica.Doria-Pamphilij-Metsys-Usurai Non esistono verità universali! Questo è il suo punto di partenza. La realtà è così multiforme e mutevole che ricercare regole di comportamento generali è una mera perdita di tempo. Importante è che ogni uomo riesca ad accrescere la propria riputazione e quella della sua famiglia. Una regola, tutto sommato, può essere seguita: orientarsi al meglio attraverso tutti gli innumerevoli casi della vita, cercando di cavalcare la fortuna quando essa arride. Proprio per questo, l’uomo di successo, ben conscio che i rapporti sociali siano condizionati da falsità, errori e illusioni, deve soltanto occuparsi di sé, aumentando, ad ogni costo, la propria posizione, agendo segretamente senza mai far intendere ad alcuno i suoi intenti, dissimulando e mascherando. In una parola, deve agire pensando esclusivamente ai fatti propri. 

XIII. È molto utile el governare le cose sue segretamente, ma piú utile in chi si ingegna quanto può di non parere con gli amici; perché molti, come poco stimati, si sdegnono quando veggono che uno recusa di conferirgli le cose sue.

XVIII. È da desiderare piú l’onore e la riputazione che le ricchezze; ma perché oggidí sanza quelle male si ha e conserva la riputazione, debbono gli uomini virtuosi cercare non d’averne immoderatamente, ma tante che basti allo effetto di avere o conservare la riputazione e autoritá.

IL. Conviene a ognuno el ricordo di non comunicare e’ secreti suoi se non per necessitá, perché si fanno schiavi di coloro a chi gli comunicano, oltre a tutti gli altri mali che el sapersi può portare; e se pure la necessitá vi strigne a dirgli, metteteli in altri per manco tempo potete, perché nel tempo assai nascono mille pensamenti cattivi.

CLXXIV. Non mancate di fare le cose che vi diano riputazione, per desiderio di fare piacere e acquistare amici; perché a chi si mantiene o accresce la riputazione, corrono gli amici e le benivolenzie drieto; ma chi pretermette di fare quello che debbe, ne è stimato manco; e a chi manca la riputazione, mancano poi gli amici e la grazia. 

È chiaro come questa sia una vera lezione di opportunismo, egoismo e cinismo, comprensibile, certamente, se si tiene conto del contesto storico e familiare in cui visse l’Autore: per un aristocratico impegnato in politica, in un’epoca dove, d’improvviso, ci si poteva trovare con la testa avvoltolata in un cappio o con un pugnale piantato dietro la schiena, era necessario usare qualsiasi mezzo per riuscire a rimanere in auge, evitando di essere travolti dagli eventi.

Storia d’Italia

Quando Guicciardini cominciò a stendere quest’opera, era ormai in pensione. In gioventù, aveva scritto le Storie fiorentine dal 1378 al 1509, per cui, l’argomentazione storica e la sua metodologia non gli erano affatto sconosciute. 70231AnobilE’ stato questo il suo unico scritto elaborato per la pubblicazione, che, però, fu postuma, del 1561. L’esposizione include gli eventi compresi tra la morte di Lorenzo il Magnifico (1492) e quella di papa Clemente VII (1534). Lo scrittore ragiona della rovina dei principi e dei principati italiani, i quali sono passati dalla libertà della fine del ‘400 al dominio straniero, francese e spagnolo, del ‘500. Questi poco sagaci signori, a detta dell’Autore, credendo di essere assennati e prudenti, si sono fidati troppo degli stranieri, venendone, poi, travolti. Con impassibile distacco e cruda ironia, Guicciardini indaga le cause di questo decadimento italiano, il tutto seguito in maniera molto scrupolosa e dettagliata, grazie alle testimonianze di numerosi protagonisti e alla consultazione di materiali d’archivio (esaminò gran parte dell’archivio della Magistratura fiorentina). Proprio per questo, per il metodo che adoperò nella stesura della sua opera, Guicciardini può, a buon diritto, essere definito il padre della storiografia moderna.

 

Le Operette morali di Giacomo Leopardi

 

Le Operette morali sono un’opera strettamente collegata, per quando riguarda i contenuti, allo Zibaldone di pensieri. 950a4152c2b4aa3ad78bdd6b366cc179Sono una raccolta di ventiquattro tra dialoghi e prose, più o meno lunghi, ed esprimono bene la visione delle cose del loro Autore. Furono composte tra il 1824 e il 1832 e pubblicate, in diverse edizioni, dello stesso Leopardi, e in un’ultima postuma, a cura del fido amico Antonio Ranieri, nel 1845. Il poeta vi fa largo uso della satira per dimostrare, in fondo, quanto misera e disgraziata sia la condizione degli uomini. Lungo l’intero loro svolgimento, esse potrebbero rappresentare una storia dell’infelicità umana, in tutte le sue manifestazioni, cause ed effetti. Approfondiamone qualcuna un po’ più dettagliatamente.

Dialogo di Malambruno e di Farfarello.

Il mago Malambruno invoca i demoni dall’Inferno. Come il genio della lampada di Aladino, gli appare Farfarello, al suo completo servizio, promettendogli fama, soldi e belle donne. Andrea_di_Bonaiuto,_Cappellone_degli_Spagnoli_(SMN),_dettaglio_diavoliNiente di tutto questo! Il mago gli chiede soltanto di poter essere felice per un momento. Il diavolo risponde: “Mi dispiace, non ti posso aiutare!”. “Almeno liberami dall’infelicità”, lo incalza Malambruno. “Mi dispiace. Non si può fare nemmeno questo e sai perché?”. “No, dimmelo tu!”. “Perché, mio caro, è la tua natura che è così, così da non farti essere mai felice. Ho una soluzione, però: la morte. Questa, almeno, smetterà di farti penare. Adesso faccio il logico, senti questa: se la vita è sofferenza, cosa è meglio vivere o non vivere?”. “Questo è il problema”, risponde il mago. “No, questo è Shakespeare. Comunque – continua il demonio – se vivere significa essere infelice e non vivere significa non essere infelice, che cosa è meglio?”. “La calibro 9”. “Forse!” conclude Farfarello.

Dialogo di un folletto e di uno gnomo.

Uno gnomo sale in superficie dalle profondità della Terra per vedere dove siano finiti gli uomini.
Qui, incontra un folletto e con lui comincia a parlare: “E adesso che questi sono spariti, come faremo a misurare il tempo?”. Eh sì, tu pensi al tempo? La Natura se ne frega degli uomini, segue il suo di tempo”, risponde il folletto. “Ma tu sai perché sono tutti scomparsi?”, chiede lo gnomo. “Certo che lo so. Quei fessi si son fatti guerra tra loro, si sono ammazzati, si sono mangiati a vicenda e chi non ha fatto questo, è marcito nell’ozio e nei vizi. Praticamente, le hanno studiate tutte per andare contro la Natura e la loro sorte!”. “Sai che penso?”, dice lo gnomo. Penso che questi uomini credevano di essere al centro dell’Universo, che senza di loro si sarebbe fermato tutto e tutto sarebbe finito, e invece? Ogni cosa continua come prima, i pianeti a girare, il vento a soffiare…”. “I fiumi a scorrere”, lo interrompe il folletto. “E gli uomini ad essere cretini!” convengono entrambi.

Dialogo d’Ercole e di Atlante

Ercole deve sostituire Atlante a reggere il mondo. Il figlio di Zeus, però, si accorge che la Terra si è fatta leggera e 8950muta e propone al titano di legarsela a un pelo della barba, facendola penzolare come un ciondolo. Continuando a non sentire nessun rumore, suggerisce ad Atlante: “Colpiscila con la tua mazza, così scopriamo cosa succede”. “No, potrebbe rompersi in due come un uovo e gli uomini morirebbero tutti. Facciamo una cosa: giochiamoci a pallavolo, così vediamo pure chi è più bravo”. “Sì, infatti, poi, magari, si svegliano ‘sti uomini”, aggiunge Ercole. “Chi la fa cadere a terra per primo perde, ok? Aspetta però – dice Atlante – non ci dobbiamo far scoprire da tuo padre altrimenti sono cavoli amari!”.

Proposta di premi fatta dall’Accademia dei Sillografi

L’Accademia dei Sillografi, visti i progressi delle scienze meccaniche, propone un concorso per inventori. Ecco il bando: “In quest’era delle macchine così ben costruite e funzionanti, la nostra gloriosa Accademia propone la creazione di tre automi che passano caricarsi di tutta la miseria e dei lavori degli uomini, siccome è impossibile inventarne un rimedio. fluteplayerManzettiAl concorso potranno esser presentati tre robot:
– il primo, deve fare le parti e la persona di un amico perfetto, che non parli dietro, che non rompa più di tanto, che si faccia gli affari suoi senza andare a raccontare in giro i segreti confidatigli, che non si prenda troppa confidenza solo perché è amico, che non sia invidioso, che voglia bene all’altro e che per qualsiasi cosa sia sempre a disposizione;
– il secondo, sia un uomo artificiale a vapore, atto e ordinato a fare opere virtuose e magnanime, perché solo il vapore può permettere ad un automa di fare cose belle e buone;
– il terzo, deve essere disposto a fare gli uffici di una donna così come immaginata da Castiglione nel suo Cortegiano. Se ci riuscì Pigmalione a farsi una donna con le sue mani, ci potrete riuscire anche voi.
I premi consisteranno in tre medaglie d’oro del peso di 400 zecchini, ognuna con immagini e diciture adeguate a celebrare il particolare vincitore. La gloriosa Accademia concorrerà alle spese per l’acquisto delle medaglie con i danari ritrovati nella sacchetta di Diogene, ex segretario dell’Accademia, o con uno dei tre asini d’oro degli accademici Apuleio, Fiorenzuola e Machiavelli”.

Dialogo della Natura e di un islandese

Un islandese va errando per l’Africa. All’improvviso, scorge un busto così grande da sembrargli una collina. Avvicinatosi, vede una donna enorme, seduta per terra, con la schiena e il braccio poggiati su una montagna. Questa, dopo aver taciuto per un po’, gli dice: download-1“Chi sei e che sei venuto a fare da queste parti?”. “Sono un povero islandese e sto fuggendo la Natura”. “Bravo! Sono io la Natura”, risponde minacciosa. L’islandese prende coraggio e le urla: “Ah sì, e allora sappi che sei la nemica giurata degli uomini e degli animali, non sai fare altro che ingannarci, minacciarci, perseguitarci, renderci la vita impossibile e io, guardami, tra poco diventerò vecchio e che mi aspetta? Quante ancora me ne farai passare, brutta infame?”. La Natura non si cura di tutti i suoi lamenti e, impassibile, gli risponde: “Povero stolto, ma non hai ancora capito che il mondo non è stato creato per voi uomini e che io non mi occupo della vostra felicità o infelicità? Anzi, ti dirò di più: se pure vi estingueste, io neanche me ne accorgerei, ho altro a cui pensare, cose che tu e tutti quelli come te non sarete mai in grado di capire”. Mentre l’islandese tenta di replicare, sopraggiungono due leoni brutti, magri ed emaciati da far paura. Con le poche forze rimaste loro, riescono appena a saltargli addosso e a mangiarselo, potendo, così, a restare in vita per un altro giorno.

 

 

Guido Guinizzelli

 

Il primo che, nella Letteratura Italiana, quando si trattò di parlare d’amore, mischiò le carte in tavola, calando, poi, un paio di carichi da 11 punti, fu Guido Guinizzelli. Nato a Bologna nel 1235, figlio di un personaggio molto noto in città, il giudice Guinizzello da Magnano, studiò diritto nella famosissima Alma Mater Studiorum, l’Università più antica di tutta Europa, diventando avvocato. cavalcanti_02La sua vera passione, tuttavia, fu la politica. Questa, però, gli rovinò la vita: schieratosi con la famiglia ghibellina dei Lambertazzi, la seguì in esilio, insieme con la moglie, Bice della Fratta e con il figlio, Guiduccio, quando, nel 1274, i guelfi Geremei gli fecero trovare, fuori le mura di Bologna, le valige e tre biglietti di sola andata per la provincia di Padova. Morì, lontano da casa, nel 1276. Sebbene non fiorentino, Guinizzelli è stato considerato il primo poeta stilnovista. La sua canzone, Al cor gentil rempaira sempre amore, è, infatti, non soltanto il manifesto della propria arte, quanto anche quello della poetica dello Stil Novo. In essa, l’autore ci tiene a dire che amore e core gentile devono per forza compenetrarsi e, attraverso una serie di metafore, dalle pietre preziose alla fiamma della candela, fino ai raggi del sole, dimostra come, se un animo non è predisposto ad amare, ovvero non è gentile, hai voglia il sole di riscaldare il fango, come dice lui, quello sempre fango rimane.

Al cor gentil rempaira sempre amore,
come l’ausello in selva a la verdura;
né fe’ amor anti che gentil core,
né gentil core anti ch’amor, natura:
ch’adesso con’ fu ’l sole,
sì tosto lo splendore fu lucente,
né fu davanti ’l sole;
e prende amore in gentilezza loco
così propïamente
come calore in clarità di foco.

(Al cor gentil rempaira sempre amore, vv. 1-10)

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La donna celebrata da Guinizzelli, caratteristica comune, poi, a tutti i suoi colleghi, è una creatura la quale, per la sua bellezza, esalta l’uomo e lo fa salire al cielo. Ella, proprio come un angelo, è mediatrice fra la materialità del nostro mondo e la spiritualità di quello ultraterreno, arrivando fino a Dio. Una scala per il paradiso, in definitiva!

Splende ’n la ’ntelligenzïa del cielo
Deo crïator più che ‘n nostr’occhi ’l sole:
ella intende suo fattor oltra ’l cielo,
e ’l ciel volgiando, a Lui obedir tole;
e con’ segue, al primero,
del giusto Deo beato compimento,
così dar dovria, al vero,
la bella donna, poi che ’n gli occhi splende
del suo gentil, talento
che mai di lei obedir non si disprende
.

(Al cor gentil rempaira sempre amore, vv. 41-50)

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A differenza dei compagni poeti, quando Guido incontrava la sua amata, non traballava o si faceva venire i tic. Restava immobile, come una statua di ottone, e pensava, pensava, pensava:

Lo vostro bel saluto e l’gentil sguardo
che fate quando v’ encontro, m’ancide:
Amor m’assale e già non ha riguardo
s’elli face peccato over mercede […]
 
remagno come statüa d’ottono,
ove vita né spirto non ricorre,
se non che la figura d’omo rende.

(Lo vostro bel saluto e l’gentil sguardo, vv. 1-4 e 12-14)

Con la coda dell’occhio la guardava salutarlo e il suo cuore gentile si riempiva di gioia, ma con tutto quello che gli si scombussolava dentro, rischiava ogni volta un infarto. Scrisse cinque canzoni e quindici sonetti, non tutti celebrativi e felici come quelli che abbiamo letto insieme. Qualcuno, infatti, anche un po’ triste, specialmente se composto quando la sua donna se la tirava troppo.

 

Brevi ragguagli su alcuni aspetti della poetica di Salvatore Di Giacomo

 

 

Salvatore Di Giacomo, in tutta la sua opera, ha espresso il senso drammatico e gioioso insieme, che caratterizzava l’anima del popolo napoletano e le bellezze naturali della città partenopea. E’ stato capace di raccogliere quei colori, quella musicalità e quella poesia, tipicamente napoletani, sui fogli di carta prima e, poi, musicati da compositori, negli spartiti musicali. Prostituzione, malavita, miseria, bassi, vicoli, umanità sofferente, umanità gioiosa, amore, passione, vi erano rappresentati con una vivacità quasi teatrale. Il sapiente uso del dialetto, così dolce e musicale, tuttavia, perfettamente vero e veridico, faceva di un raffinato intellettuale, un piccolo 03-DI-GIACOMOborghese che si calava nello spirito e nell’anima di un popolo e ne diventava cantore, con un realismo senza pari, esprimendo, nei versi, le sfumature e le sfaccettature peculiari di una plebaglia, di quel ventre di Napoli (Matilde Serao), che, così, acquistava dignità poetica. La grandezza e l’importanza dell’opera di Di Giacomo, rispetto al popolo napoletano, è stata duplice: da un lato, proprio per la sua condizione di piccolo borghese, stupiva la capacità descrittiva di un mondo che doveva, per nascita, per storia personale e per educazione, non appartenergli, ma che, evidentemente, sentiva visceralmente suo; dall’altro, il lascito poetico, divenuto lo specimen di quel mondo. Nessun altro aveva saputo, fino agli inizi del Novecento, diventare un così abile e mirabile testimone poetico del popolo napoletano. La poetica di Di Giacomo risentiva, certamente, degli influssi del Verismo, il movimento letterario che, ispirandosi al Naturalismo francese, aveva pervaso la letteratura italiana della seconda metà dell’Ottocento. L’Autore, comunque, aveva interpretato il Verismo o, meglio, lo aveva adattato alla propria sensibilità, alla propria condizione e all’ambiente, nel quale si era trovato a vivere. Di Giacomo, infatti, rispetto a Giovanni Verga, maggiore esponente del Verismo, il quale riproduceva la realtà in modo diretto, crudo, impersonale, tale da rendere i suoi personaggi protagonisti di storie volte a mostrare quadri di decadenza, di fallimento, di impotenza, nei confronti degli eventi, ancorché di passiva e fatale accettazione degli stessi, tratteggiava, dipingeva i suoi personaggi e le loro storie con la fresca aria del mattino, con i raggi tenui della luna, con una petrarchesca idealizzazione di tipi e di modi, che sembravano cristallizzati in una realtà fuori dal tempo, grazie all’uso del dialetto napoletano, dolce e raffinato, il cui impiego aveva lo scopo non della mera rappresentazione, quanto piuttosto del vero che diventa musica, timbro, colore e sensazione, alla maniera dei pittori impressionisti. Il Verismo diciacomiano non era un Verismo dall’interno, non era la voce diretta del reale che agiva, ma era lo sguardo dell’autore su quelle azioni. Nella poesia di Di Giacomo, era senza dubbio il reale a produrre l’evento e il movimento della storia, ma era l’autore a darne contezza, inevitabilmente, riproducendolo attraverso il suo vissuto e la sua visione del mondo. Ciò era antitetico al napoli-comera-libromodus scribendi schiettamente verista (Giovanni Verga, Luigi Capuana, Federico De Roberto), nel quale l’autore diventava mero narratore di realtà che erano completamente al di fuori di esso e senza alcun contatto con esso. Per quanto riguarda il rapporto con le donne, pur volendo attribuire una fortissima valenza al legame di Di Giacomo con la madre (si sarebbe sposato tardi, nel 1916, dopo la morte della madre), non era divenuto così totalizzante nella sua visione della donna e nel suo rapporto con essa. Si poteva ipotizzare una incapacità, da parte del poeta, di sostituire, nel suo cuore, l’immagine della madre, con quella di un’altra donna, in grado di occupare un posto altrettanto importante. Con il rischio, tuttavia, di giudicare le donne cantate dal poeta nient’altro che la stessa rappresentazione, con caratteri diversi, della madre. Quelle donne, quindi, sarebbero state figure femminili fittizie, meri artifici della sua poesia. C’era anche chi, tra gli stessi amici e colleghi, leggeva la presenza delle donne, nell’opera digiacomiana, come strettamente collegata al suo concetto di amore. Le donne, in Di Giacomo, diventavano lo strumento con il quale il poeta offriva se stesso e i suoi sentimenti al mondo, rappresentando l’amore nei suoi molteplici aspetti, tutti umani. In questo caso, la stessa varietà delle figure femminili di Di Giacomo rifletteva l’umanità del suo sentimento amoroso, che si manifestava inquieto, instabile, dispettoso e a tratti doloroso. L’amore era intenso, malinconico e perduto nelle tante sfaccettature della vita quotidiana. Le donne e l’amore, in Di Giacomo, erano l’aspirazione alla personificazione, non cosciente, di un desiderio molto più complesso: ricercare e concentrare l’essenza dell’umanità. Quasi una galleria-museo, dove erano esposti i diversi quadri dell’amore, tutti rappresentati attraverso donne diverse, con storie diverse, con passioni diverse. Donn’Amalia ’a Speranzella, la donna colta nell’atto di friggere le frittelle e l’osservatore che l’ammirava, desideroso della sua bellezza; Zì munacella, una ragazza che, per salvare il suo innamorato, condannato a morte per aver commesso un delitto passionale, si digiacomo-elisaaviglianofaceva monaca, senza sapere che quel delitto non era stato consumato per lei, ma per un’altra donna; Palomma ‘e notte, una donna-farfalla, la quale, per esercitare la propria libertà, rischiava di bruciarsi: Carolina era come una farfalla che girava e rigirava intorno a una candela che la attraeva, come se fosse stata un fiore, nonostante il poeta la mettesse in guardia dal prendere fuoco; ‘E ttrezze e Carulina, dove il poeta, con dispetto, esortava il pettine della donna desiderata a strapparle tutti i capelli, lo specchio nel quale ella si mirava ad appannarsi, le lenzuola ad infuocarsi e pungere le sue carni, le piante sul tetto della casa a farsi trovare seccate. Ma, poi, il poeta si mostrava felice di constatare che, nella realtà, avvenisse il contrario. Le donne, in Di Giacomo, assumevano, però, anche caratteri cupi, che le legavano al concetto di morte. La dolce sensibilità del poeta, il suo carattere fragile e mite, capace di soffrire e di far soffrire, e la sua paura del mondo, si esprimevano proprio in queste immagini di donne e morte, donne e dolore, come “Carmela”, ormai sposata, che sembrava aver dimenticato il primo amore, raccontato in un crescendo di ricordi e di gesti; come Tarantella scura, in cui veniva narrata una vicenda di vita e di sangue, o, ancora, in Femmene, femmene!, dove le donne prima ammaliavano e, poi, facevano disperare.