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La Scuola siciliana

 

Nei primi decenni del ‘200, Federico II di Svevia, preso pieno possesso del Regno di Sicilia, riunì, nel suo palazzo, a Palermo, funzionari, burocrati a lui fedeli e alti amministratori, annunziando loro: “È giunto il momento che io superi gli altri sovrani del mondo anche nella cultura!”. L’Hohenstaufen aveva chiaro in mente che per creare un vero Stato italiano e non soltanto “un’espressione geografica”, come avrebbe appellato l’Italia, seicento anni dopo, il principe austriaco Klemens von Metternich, avesse avuto bisogno, per prima cosa, di una lingua comprensibile a tutti i suoi sudditi. Il latino, infatti, seppure fosse la lingua franca dell’Europa medievale, restava oscuro alla quasi totalità delle genti sotto il suo imperio, le quali, tra loro, sapevano esprimersi soltanto in volgare o dialetto. Frederick_II_and_eagleLa lingua di Roma antica, inoltre, era quella dei preti e della Chiesa e allo Stupor mundi  (stupore del mondo), come i contemporanei chiamavano lo svevo, stavano entrambi sui due mondi. Anche per questo, quindi, il re operò per porre in essere le condizioni affinché, nell’uso quotidiano, il latino fosse definitivamente rimpiazzato dal volgare. Molti degli amministratori e dei funzionari di Federico (immagine a destra) non erano siciliani e, nelle terre di provenienza, avevano sentito dire che nelle corti del Nord Italia avessero bazzicato i trovatori, fuggiti dalla Provenza all’arrivo delle truppe di papa Innocenzo III, il quale, per ironia della sorte, fu anche tutore di Federico. Poiché Palermo era troppo lontana per invitarli a recitare colà le loro poesie, tutti insieme, re in testa, decisero che, per il maggiore prestigio della compagnia, del regno e della dinastia, avrebbero dovuto anche loro comporre versi. Fu proprio alla poesia, quindi, che il nipote del Barbarossa intese affidare il compito di veicolare la nuova lingua ufficiale. Così, tra una legge emanata e una battuta di caccia, qualche condanna a morte e un’esecuzione capitale, la redazione di documenti pubblici e una passeggiata per controllare come stessero le cose intorno al castello, alla corte di Palermo e in provincia si scrivevano poesie alle donne. La traccia fu fornita dalla lirica cortese della Provenza, lo svolgimento, invece, ebbe caratteri propri, con differenze anche notevoli. Innanzi tutto, rispetto ai trovatori, che erano di varia estrazione sociale, feudatari come cavalieri squattrinati, i poeti siciliani appartenevano tutti alla cerchia di Federico, quindi, erano persone istruite, professionalmente impegnate e vivevano agiatamente. Essi, poi, non erano musicisti (non sapevano suonare alcuno strumento) ma, semplicemente, diremmo oggi, parolieri, scrivevano, cioè, solo i versi. scuola_siciliana_02_nPer l’accompagnamento musicale, se la fortunata ascoltatrice avesse voluto il complessino, avrebbe dovuto chiamare i musicanti e pagarli a parte. Per quanto riguarda le tematiche, infine, i siciliani erano molto meno “platonici” e più efficaci dei provenzali. La donna era, sempre e comunque, signora e padrona, e il suo amante costantemente pronto a servirla, giorno e notte, in tutti i modi possibili. Nei componimenti dei siciliani, però, scompariva quella distanza incolmabile tra la dama e l’amante che, invece, era dolorosamente imprescindibile per i trovatori. Anzi, i primi celebravano proprio nel “vedere” la donna, il momento più bello di tutta la faccenda:

Meravigliosamente
un amor mi ristringe
e mi tiene ogn’ora.
Com’om che pone mente
in altro exemplo pinge
la simile pintura,
così, bella, facc’eo
che’nfra lo core meo
porto la tua figura…

scriveva Giacomo da Lentini (immagine in basso a destra). Da quella visione, poi, si libravano in volo tutta una serie di immagini, di metafore, di tricche e di ballacche, di forze della natura, di pietre preziose, di animali reali e fantastici, di figure splendide e ideali, che certamente dovevano far molto piacere alle donne, anche se queste, in mezzo a tutte quelle parole difficili, ci capivano veramente poco. 01107Per questo, i poeti, spesso, prendevano il due di picche ed erano dolori e lamenti! Per non rimanere come dei fessi, si affrettavano a giustificarsi sostenendo che servire l’amata e impegnarsi ad esserle fedele li avrebbe resi più nobili e migliori di quanti, invece, arrivavano al sodo. Essi cantavano l’amore in quanto tale, più che un reale affaire, alla francese, o un intercourse, all’inglese (la corte di Federico era internazionale!). Le donne amate erano, prima di tutto, simboli ai quali indirizzare le proprie considerazioni su cosa fosse l’amore. C’era, tuttavia, un elemento che accomunava i siciliani ai provenzali: la paura delle malelingue, sempre in agguato, ad ogni angolo e in ogni occasione, per mettere in cattiva luce il poeta agli occhi della sua dama.

 

 

 

Teofilo Folengo e la lingua maccheronica

 

Gerolamo Folengo, col cui pseudonimo più noto, Merlin Cocai, era chiamato un locale notturno a Massa Lubrense, dove andavo con gli amici a bere i miei doppi Bourbon & Ginger Ale, detti anche Scotch&American, nacque a Cipada, in provincia di Mantova, l’8 Novembre 1491, 220px-Romanino_003in una famiglia di nobili, i quali, però, erano finiti in cattive acque. Ottavo di nove figli, fu mandato dal padre in convento dove avrebbe potuto studiare e sfamarsi alquanto adeguatamente, vista la penuria di mezzi familiare. Quando vestì l’abito di monaco benedettino, dunque, cambiò il nome in Teofilo. Il diavolo tentatore, però, era sempre in agguato, acquattato tra le pieghe della gonna di una nobildonna, Girolama Dieda, per la quale buttò via la tonaca e con la quale vagò per tutto il Nord Italia, vivendo di stenti, fino a quando entrò al servizio del condottiero Camillo Orsini, a Roma. Decise, poi, di rientrare in convento e gli fu comminato un periodo di penitenza ed espiazione, che trascorse al Monte Conero ad Ancona e nei pressi proprio di Massa Lubrense, il mio paese nativo, all’eremo di San Pietro a Crapolla. Così, fu riammesso nell’ordine e mandato in Sicilia. Morì a Bassano del Grappa il 9 dicembre 1544.

Le opere

Folengo scrisse diverse opere, che fece poi confluire in un unico capolavoro, al quale lavorò tutta la vita ed ebbe quattro edizioni diverse: l’Opus macaronicum. In ogni modo, ciascuna parte di questo corpo può essere comunque trattata singolarmente. La prima di queste è l’Orlandino, che pubblicò con lo pseudonimo di Limerno Pitocco, ovvero, Merlino il miserabile. Poemetto di otto canti in ottave, racconta l’infanzia del famoso paladino Orlando: figlio di Milone e Berta, Chaos1sorella di Carlo Magno, sposati in segreto e, per questo, costretti a fuggire, fu partorito dalla madre in un’umile capanna e visse i primi anni della sua vita in campagna, tra ai contadini. Il Caos Triperuno, invece, è una vera e propria insalata di maccheroni. I tre personaggi, Limerno, Fulica e Merlino (tutti e tre sono l’Autore stesso), parlano, rispettivamente, in latino, in volgare e in maccheronico. Quest’ultimo, è un linguaggio artificiale, costituito da un lessico in parte dialettale, in parte latino. Chissà, dunque, cosa si capisce! Tutto si svolge attraverso tre selve: nella prima, Triperuno conversa della nascita dell’uomo e della conoscenza umana. Nella seconda, il discorso va a finire sulla pericolosità del mondo sensibile, quando Triperuno si perde ma, ritrovata la via, attraversa i regni di Carossa, Matotta e Perissa, che stanno a significare tre modi di fare degli ecclesiastici e cioè, la crapula, la superfluità e la vanità. Nella terza selva, Triperuno incontra nientemeno che Gesù Cristo in persona o, meglio, in spirito, gli dona il cuore e gli dice: “Sono nelle tue mani, non farmi fare una brutta fine!”.

Il Baldus

Venticinque capitoloni in esametri, lungo i quali Merlin Cocai, alias Folengo, racconta le imprese di Baldus e della sua sgangherata banda di delinquenti.

Phantasia mihi plus quam phantastica venit
historiam Baldi grassis cantare Camoenis.
Altisonam cuius phamam, nomenque gaiardum
terra tremat, baratrumque metu sibi cagat adossum.
Sed prius altorium vestrum chiamare bisognat,
o macaroneam Musae quae funditis artem.
An poterit passare maris mea gundola scoios,
quam recomandatam non vester aiuttus habebit? […] Credite, quod giuro, neque solam dire bosiam
possem, per quantos abscondit terra tesoros:
illic ad bassum currunt cava flumina brodae,
quae lagum suppae generant, pelagumque guacetti.
Hic de materia tortarum mille videntur
ire redire rates, barchae, grippique ladini,
in quibus exercent lazzos et retia Musae,
retia salsizzis, vitulique cusita busecchis,
piscantes gnoccos, fritolas, gialdasque tomaclas.
Res tamen obscura est, quando lagus ille travaiat,
turbatisque undis coeli solaria bagnat.

(Mi è venuta la fantasia – proprio una bella fantasia – di raccontare la storia di Baldo con le mie grasse Camene. La sua fama risonante, il suo nome gagliardo fa venire ancora la tremarella alla terra e la voragine infernale, nella sua nera paura, si caga sotto. Ma per prima cosa, bisogna invocare il vostro aiuto, o Muse che spandete la bell’arte macaronica. Potrebbe la mia gondola strigarsi dagli scogli di questo mare, se il vostro favore non l’accompagnasse? […] Credetemi, non sono stupidaggini, ve lo giuro: e poi una bugia, nemmeno una sola, non la direi per tutto l’oro del mondo. Verso il basso corrono giù cavi fiumi di brodo saporitissimo che poi vanno a finire in un lago di zuppa, in un mare di stracottini. E qui passano e spassano barche, barbotte, brigantini agevoli e snelli, a migliaia, tutti di torta: e sopra ci stanno le mie Muse e gettano lacci e reti – reti cucite con budella di maiale e con busecche di vitello – e pescano gnocchi, frittole e tomacelle gialle. Ma è un grosso guaio quando quel lago va in agitazione e con le onde bagna le soffitte del cielo).

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Baldovina, la figlia di Carlo Magno, ama alla follia Guidone di Montalbano, ma il babbo non vuole. I due amanti, allora, decidono di scappare da Parigi e si rifugiano a Cipada, il paesello di Folengo dove, nella capanna del contadino Berto Panada, succede il fattaccio e dopo nove mesi nasce Baldus. Guidone, però, poco dopo abbandona Berta e quella muore per il dispiacere. Rimasto solo con Berto, Baldus si unisce ai monellacci del paese e, insieme a questi, va combinando guai dappertutto. Crescendo, il nostro eroe diventa il capo di una ben assortita gang di farabutti, che mettono a ferro e fuoco le campagne mantovane, tra cui spiccano Cingar, il gigante Fracasso e Falchetto, metà uomo e metà cane. Chi Baldus finisce presto nei guai. Durante la festa di calendimaggio, dopo aver battuto tutti nei giochi popolari, viene provocato, ammazza un nobile con una grossa pietra e scappa. È inseguito dalle guardie. Ne uccide una e si rifugia in una casa. Gli sbirri riescono a legarlo, ma viene liberato dal compare Sordello. Passano gli anni, prende in moglie una contadinotta, Berta, vive senza lavorare approfittandosene di Zambello, il figlio di Berto Panada. Zambello un giorno si ribella, rivolgendosi a Tognazzo, un villano proprietario di terre e podestà di Cipada. Questi, nemico giurato delle teste calde del paese, prende al volo l’occasione e mette in piedi un piano per fregare Baldus. Il giovane è invitato a presentarsi al Palazzo comunale, per assumere il comando di un esercito contro i lanzichenecchi. Qui, dopo una feroce rissa, è sopraffatto dalla folla e messo in galera. Cingar, riesce a liberarlo e la banda decide di cambiare un po’ aria col solito viaggio iniziatico – ricerca della propria anima o giù di lì, attraverso luoghi magici, popoli stranissimi, abissi, isole del tesoro, streghe, grotte profondissime, mostri, esseri indecifrabili, e non vi dico tutto il resto. Arrivano perfino all’Inferno e, nell’Antro della Fantasia, Baldus e i compari impazziscono e si trovano davanti ad una grossa zucca, secca e vuota, dentro la quale, vivono astrologi, poeti e cantanti, a cui tremila satanassi, travestiti da barbieri, tirano tutti i denti, uno per uno, ma questi, puntualmente, ricrescono. Colà vive anche l’autore, il quale, stanco di quelle torture, decide di far continuare, a chi vorrà, il racconto delle avventure di Baldus e della sua banda.

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Ergo sorellarum, o Grugna, suprema mearum,
si nescis, opus est hic me remanere poëtam:
non mihi conveniens minus est habitatio zucchae,
quam qui Greghettum quendam praeponit Achillem
forzibus Hectoris; quam qui alti pectora Turni
spezzat per dominum Aeneam, quem carmine laudat
«Moenia mentum mitra crinemque madentem».
Zucca mihi patria est; opus est hic perdere dentes
tot quot in immenso posui mendacia libro.
Balde, vale, studio alterius te denique lasso,
cui mea forte dabit tantum Predala favorem
ut te Luciferi ruinantem regna tyranni
dicat et ad mundum san salvum denique tornet.
Tange peroptatum, navis stracchissima, portum,
tange, quod ammisi, longinqua per aequora remos!
He heu, quid volui, misero mihi? perditus, Austrum
floribus et liquidis immisi fontibus apros!

(Perciò, o Grugna, ultima delle mie Muse, se non lo sai, io poeta devo rimanere qui: la dimora della zucca non è meno adatta a me che a colui che antepone un grecuccio come Achille alla forza di Ettore; a colui che fa spezzare da un Enea il petto del grande Turno, che in quel suo verso glorifica “avvolto il mento e la chioma profumata in un copricapo orientale da donna”. La zucca è la mia patria; è necessario qui perdere i denti, tanti quante sono le bugie che ho messo nel libro lunghissimo. Baldo, ti saluto e ti lascio finalmente al lavoro di qualche altro, cui forse la mia Pedrala darà tanto aiuto per dire di te che distruggi i regni del tiranno Lucifero e per farti tornare al mondo sano e salvo. Entra nel porto desiderato, o nave stanchissima! Entra perché nei lunghi viaggi per mare ho perso i remi. Ahi! Che cosa ho voluto tentare, povero me? Folle, ho messo l’Austro tra i fiori e i cinghiali nelle fonti pulite!).

Questa è la lingua del Baldus, questo è il famoso maccheronico.

 

Ferrara, gli Estensi e Matteo Maria Boiardo

 

Matteo Maria Boiardo nacque in una nobile famiglia di Scandiano, in provincia di Reggio Emilia, nel 1440. Ebbe, fanciullo, due maestri di grandissima qualità: il nonno, Feltrino Boiardo, e lo zio materno, Tito Vespasiano Strozzi, famoso poeta, i quali gli instillarono l’amore per le lettere, avviandolo agli studi umanistici. L’influsso di questi insegnamenti non tardò a manifestarsi. Matteo_Maria_BoiardoA soli tredici anni, infatti, scrisse il suo primo libro, il Carme in lode degli Estensi, perché, anche allora, i politici e i protettori dovevano essere adulati a dovere. Tutto questo, qualche anno più tardi, gli valse, anche a causa delle contese contro i parenti circa l’eredità del padre defunto, l’ingresso, a Ferrara, alla corte degli Estensi, i quali lo colmarono di onori e gli concessero i governatorati di Modena e, poi, di Reggio Emilia. Questi signori padani avevano creato intorno a sé un ambiante davvero raffinato, tanto da rendere la corte ferrarese una delle più eleganti, anche culturalmente, di tutto il Nord Italia. Già agli inizi del ‘200, trovatori vi erano stati ospitati e, vicende politiche permettendo, i rampolli della famiglia d’Este si erano sempre comportati da munifici mecenati. All’epoca del Boiardo, le sorti della dinastia erano tenute da Borso, fino al 1471, e da Ercole I, fino al 1505. A Reggio Emilia il poeta incontrò una bella donna, Antonia Caprara, della quale si innamorò e per la quale compose un intero canzoniere, intitolato Amorum libri tres  (Tre libri di cose amorose). 180 componimenti, divisi in tre gruppi di 60 ciascuno, dedicati rispettivamente alle gioie, alle pene e ai rimpianti d’amore.

L’Orlando Innamorato

La sua opera più celebre è l’Orlando Innamorato, un poema in tre libri, interrotto quando l’Autore passò a miglior vita. In esso, Boiardo mise insieme la materia carolingia e quella bretone, 5616481-Mintrecciando azione e amore, anche per compiacere le dame e i cavalieri della corte estense, i quali volevano sentirsi raccontare storie che avessero a che fare con il loro mondo, con il loro stato e con i loro amori. Il poeta li accontentò. Combattimenti, innamoramenti, liti, duelli, belle donne, gentilezza, buone maniere, conversioni e chi più ne ha, più ne metta. Tra i personaggi principali, Angelica, è il propulsore di tutto il poema. Ella è una creatura bellissima, ma non nobilita o ingentilisce gli uomini, come le donne degli stilnovisti, anzi, li fa perdere. Sa essere delicata e amorevole ma anche ammaliatrice e crudele. Anche i paladini, Orlando, Rinaldo e altri, sono lontani dall’esprimere compiutamente i valori che avevano caratterizzato l’epica classica. Essi, infatti, sono rappresentati anche come uomini con debolezze, vizi, stolta testardaggine, più adusi a correre, folli, dietro le sottana che a svettare sui campi di battaglia, pur restando, comunque, valenti guerrieri.

Boiardo

Angelica, affascinante figlia di Galafrone, re del Cataio, si reca alla corte di Carlo Magno per implorare aiuto contro i nemici Tartari. Orlando, il migliore paladino di Francia, se ne innamora all’istante e la insegue fino al suo regno, in Oriente. Per difenderla, sconfigge il re di Tartaria, Agricane, che vuole sposarla con la forza e, tanto fuori di sé per amore, arriva addirittura a battersi contro il cugino Rinaldo, colpito, di contro, da una magia di odio per Angelica. Carlo Magno, intanto, è attaccato dal re indiano Gradasso, che intende sottrargli la spada di Orlando e il cavallo di Rinaldo. Senza i suoi migliori guerrieri, l’imperatore è incredibilmente salvato da Astolfo, un paladino fisicamente scarso ma molto furbo. not_detected_232244-1635Dopo ciò, Astolfo parte per l’Oriente, per andare a recuperare Orlando e Rinaldo. Giunto colà, durante il loro duello, si schiera dalla parte di Rinaldo. Angelica, preoccupata per le sorti Rinaldo, di cui è innamorata,  interrompe lo scontro e ordina ad Orlando di recarsi a distruggere il giardino della maga Falerina. Contro ogni pronostico, Orlando compie l’impresa e riesce perfino a salvare due volte il cugino e gli altri cavalieri, sia dalla maga Morgana della Fortuna, sia dal re Manodante delle Isole Lontane. Incontra, poi, Origille, una malvagia traditrice, innamorandosi stupidamente anche di lei. Ripetutamente imbrogliato e derubato dalla donna, finalmente ritorna da Angelica, giusto in tempo per salvarla dalla regina Marfisa. Astolfo, frattanto, è rimasto intrappolato tra le grinfie dalla maga Alcina, innamorata di lui. Nello stesso tempo, Agramante, re d’Africa, decide di invadere la Francia, ma ha bisogno del giovane Ruggero, prigioniero dal mago Atlante. Agramante invia il piccolo e viscido ladro Brunello in Oriente, per rubare l’anello magico di Angelica, che rende invisibili e, con esso, Brunello libera Ruggero dal mago. Orlando e gli altri paladini ritornano in Francia con Angelica, essendo giunta loro notizia dall’invasione di Agramante, seguito dal possente Rodomonte, dal giovane Ruggero, da Marsilio, re di Spagna, con l’invulnerabile nipote Ferraù.pupi_mostra Malgrado il valore dei francesi, a cui si è aggiunta la paladina Bradamante, sorella di Rinaldo, i musulmani sfondano le linee cristiane sui Pirenei. Il figlio di Agricane, Mandricardo, giunge, con Gradasso, in Francia, per vendicare il padre sconfitto da Orlando. L’esercito di Carlo Magno si ritira a Parigi, dove Agramante lo assedia. Disinteressandosi completamente della guerra, Orlando e Rinaldo, ora colpito da una magia d’amore per Angelica, continuano a inseguirla. Il mago Atlante, nel tentativo di recuperare Ruggero, di cui Bradamante era innamorata, ricambiata, porta disordine e trambusto da tutte le parti, con le sue magie e i suoi trucchi. Boiardo fece giusto in tempo a verseggiare che dall’unione di Ruggero e Bradamante sarebbe stata originata la casata degli Estensi. Morì, forse avvelenato da quegli stessi parenti che in gioventù lo avevano costretto ad abbandonare il suo palazzo di Scandiano. L’Orlando Innamorato ebbe fortuna fino a quando Ludovico Ariosto ne continuò la narrazione dei fatti nell’Orlando Furioso. Poi, non fu più ristampato per circa tre secoli.

 

I poeti della Scuola siciliana

 

Federico II di Svevia

In un articolo precedente (leggi) avevo trattato la poetica della Scuola siciliana, riservandomi, successivamente, di illustrarvene i poeti. Detto fatto! Cominciamo dal più importanteFedericoIIdiSvevia1 di essi, almeno dal punto di vista della carica: el padrino, per quelli che hanno vissuto sulla Luna negli ultimi vent’anni, il capo, il boss di tutta quanta la baracca, el magíco, il señor Pablo Es…scusate, ho rivisto il film “Blow” proprio qualche giorno fa!, l’imperatore Federico II di Svevia. È inutile che io, qui, mi dilunghi a descrivere la figura e il valore storico di quest’uomo, anche perché, non basterebbero duecento pagine. Dico soltanto che, se i coevi lo chiamarono Stupor mundi, certamente non era l’ultimo arrivato. Tutt’altro! Federico parlava correntemente almeno cinque lingue, scrisse un trattato sulla caccia col falcone, De arte venandi cum avibus (L’arte di cacciare con gli uccelli), la prima, vera opera, redatta in Occidente, su questo particolare argomento, elaborata con rigore scientifico e basata sull’esperienza e sulle numerose osservazioni, fatte personalmente in trent’anni, e componeva versi. Eccone alcuni:

Poi ch’a voi piace, amore,
che eo degia trovare,
faronde mia possanza
ch’io vegna a compimento.

(“Poi c’a voi piace, amore“, vv. 1-4)

Omo c’è posto in alto signoragio
e in riccheze abunda, tosto scende,
credendo fermo stare in signoria.
Unde non salti troppo omo ch’è sagio,
per grande alteze che ventura prende,
ma tuttora mantegna cortesia.

(“Misura, providenzia e meritanza“, vv. 9-14)

Giacomo da Lentini

Il “notaro”, come fu soprannominato, poi, dai poeti toscani, fu un funzionario imperiale, poiché la sua attività è documentata, alla corte di Palermo, per almeno un quindicennio. Fu proprio lui a inventare il sonetto, il componimento rimato tipicamente siciliano, e aveva l’aria di essere il caposcuola di tutti i poeti di corte. Scrisse sonetti e canzonette, circa trenta. A lui si deve anche la fissazione dei canoni della poesia siciliana, di cui ho già parlato nell’articolo precedente.

Amor è un desio che ven da core
per abondanza di gran piacimento;
e li occhi in prima generan l’amore
e lo core li dà nutricamento.

(“Amor è un desio che ven da core“, vv. 1-4)

Giacomo, in sostanza, vuol significare che possiamo sì infatuarci di una donna, pur non avendola mai vista, ma l’amore vero e la passione nascono da altro: sono gli occhi, in definitiva, ad accendere il cuore! Se non si è mai vista in faccia una donna, è difficile che ci si possa innamorare davvero di lei, soprattutto perché potrebbe essere brutta. Effettivamente, ha ragione.01107 Sentite cosa mi è capitato qualche anno fa: chiesi alla sorella di un mio collega se avesse avuto qualche amica da presentarmi, perché in quel periodo mi sentivo solo. Lei mi disse di sì e per una decina di giorni mi parlò, senza posa, di questa ragazza, di quanto fosse bella, descrivendomela in tutti i particolari, e ripetendomi, fino allo stremo, che fosse tanto dolce e delicata e che desiderasse avere un fidanzato. Non avendola mai vista, dopo quanto mi era stato raccontato, presi quasi una cotta per questa bellissima “idea”. Giunse, finalmente, il giorno del nostro primo appuntamento (pure quello mi era stato combinato!): ci saremmo dovuti incontrare in un bar. Quella sera, la piazza dove si trovava il locale, fortunatamente, era piena di gente. Quando arrivai e, da lontano, la intravidi accanto alla mia amica, scappai. Qualche minuto dopo, telefonai il mio collega chiedendogli di avvisare la sorella che avevo avuto un problema alla macchina ed ero rimasto per strada. Se prima di quell’incontro avessi potuto vedere almeno una foto di questa descritta Venere del Botticelli, quella sera sarei andato, direttamente, con i miei amici a bere una birra!

Pier delle Vigne

La pianta dalla quale Dante, nella selva dei suicidi, all’Inferno (Canto XIII, vv. 31 e  sgg), spezzò un ramoscello secco, e che, lamentandosi, così gli parlò: “Ma che cosa stai facendo? Non vedi che mi fai male!”, 912racchiudeva l’anima di Pier delle Vigne, consigliere di Federico II, logoteta, cioè ordinatore di parole e documenti, poeta, morto suicida a causa dell’invidia delle malelingue infami, le quali, non solo gli fecero fare una figuraccia con la sua signora, ma lo inguaiarono seriamente davanti all’imperatore. Per la cronaca (giudiziaria), nacque a Capua, studiò diritto a Bologna e trovò lavoro alla corte di Palermo. Un brutto giorno, senza alcuna spiegazione, fu fatto arrestare e accecare, per tradimento, dall’imperatore in persona. In carcere si ammazzò, fracassandosi la testa contro il muro. Prima di questa tragedia personale, comunque, aveva vissuto anni felici, componendo canzoni e sonetti per le donne palermitane. 

Amor, in cui disio ed ho speranza,
di voi, bella, mi ha dato guiderdone;
guardomi infin che venga la speranza,
pur aspettando bon tempo e stagione;
com’om ch’è in mare ed à spene di gire,
quando vede lo tempo ed ello spanna
e già mai la speranza no lo ‘nganna,
così faccio, madonna, in voi venire.

(“Amor, in cui disio ed ho speranza“, vv. 1-8)

Stefano Protonotaro

Messinese, prestò servizio alla corte sveva. Il protonotaro, infatti, era quel magistrato preposto al controllo dei notai, addetti alla redazione degli atti della cancelleria del re. Servì anche il successore di Federico, il figlio Manfredi, per il quale tradusse, dal greco in latino, due trattati arabi di astronomia.

Pir meu cori alligrari,
chi multu longiamenti
senza alligranza e joí d’amuri è statu
mi ritornu in cantari,
ca forsi levimenti
da dimuranza turniria in usatu
di lu troppu taciri;
e quandu l’omu ha rasuni di diri,
ben di’ cantari e mustrari alligranza,
ca senza dimustranza
joi siria sempri di pocu valuri
dunca ben di’ cantar onni amaduri.

(“Pir meu cori alligrari“, vv. 1-12)

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Questa canzone è un documento importantissimo perché è l’unico componimento ad esserci pervenuto nella lingua che si parlava, a Palermo e dintorni, nel XIII secolo. Questi versi di Stefano Protonotaro, infatti, sono diversi da quelli degli altri poeti siciliani che avete letto sinora, quasi fossero in un’altra lingua, perché questi ultimi ci sono giunti attraverso codici toscani, trascritti o, meglio, tradotti in lingua toscana, da chi compilò, settecento anni fa, le prime antologie della poesia italiana.

Guido delle Colonne

Forse concittadino del Protonotaro o, forse, romano, giudice e funzionario di corte, ebbe l’onore, insieme con Giacomo da Lentini, di finire nel De vulgari eloquentia di Dante (Libro 2, cap. V), celebrato come sommo tra i poeti di Federico. Scrisse una Historia destructionis Troiae (Storia della distruzione di Troia) imitando, anzi, quasi traducendo, il Roman de Troie, e cinque canzoni molto elaborate dal punto di vista metrico, nelle quali cantò che, nonostante le inevitabili delusioni, l’amore fosse sempre una gioia senza fine.

Ma più deggio laudari
Voi, donna caunoscente
donde lo meo cor sente
la gioi che mai non fina.

(“Gioiosamente canto“, vv. 41-44)

Cielo d’Alcamo

Ultimo di questa sequenza, ma non certo per importanza, è l’autore del più famoso componimento di tutta la Scuola Siciliana: il contrasto (dialogo poetico, serio o giocoso, tra persone reali o immaginarie) intitolato Rosa fresca aulentissima. paciulloCielo, che per alcuni fu Ciullo, diminutivo di Vincenzullo, e per altri Cheli, diminutivo di Michele, nacque, forse, ad Alcamo, in provincia di Trapani. Come si chiamasse veramente, non è che a noi interessi più di tanto, quanto, invece, ciò che scrisse: il notissimo contrasto, appunto. Trentadue strofe di cinque versi ciascuna, tutte richieste, preghiere, suppliche e necessità di un giullare, il quale, evidentemente, era abbastanza ingrifato, ad una giovane donna, la quale, all’inizio faceva la preziosa e, poi, dopo aver forse fatto due conti, gli concesse la caramellina. Per convincerla, il menestrello gliele diceva di tutti i colori, promettendole amore eterno e giurandole che l’avrebbe seguita in convento, se si fosse monacata, o in fondo al mare, se si fosse annegata di proposito. La fresca signorina, la quale, dal canto suo, non era stupida e, sotto sotto, c’aveva voglia pure lei, gli rispose: “È inutile che le spari così grosse, picciottu meu! Non ci sono riusciti conti, cavalieri, giudici e marchesi, mo’ arrivi tu beddo beddo e vulissi cùogghiri il frutticieddo da lu meu iardinu?” Ma chi la dura la vince e, alla fine, dopo aver fatto giurare all’uomo sul Vangelo che non l’avrebbe mai tradita, gli disse:

Meo sire, poi juràstimi, eo tutta quanta incenno.
Sono a la tua presenzia, da voi non mi difenno.
S’eo minespreso àjoti, merzé, a voi m’arenno
A lo letto ne gimo a la bon’ora
ché chissà cosa n’è data in ventura.

(“Rosa fresca aulentissima“, vv. 156-160)

(“Mio signore, dopo che hai giurato, sono tutta quanta un fuoco! Sono qui, dinanzi a te, e mi arrendo alle vostre richieste. Se prima ti ho maltrattato, chiedo perdono e mi arrendo. Andiamo a letto, finalmente, perché questo è il nostro destino!”). E menomale che sono solo gli uomini a pensare sempre alla stessa cosa! Cielo fornisce una rappresentazione del rapporto amoroso che va ben al di là di quella che avevano dato i suoi amici poeti. Ma l’amore è anche questo, o no?

Tutti gli altri rimatori siciliani

Tra i poeti meno conosciuti, ricordiamoci di Giacomino Pugliese, non siciliano, ma trevigiano (perché quel cognome, allora?), autore di sette canzoni e canzonette, almeno quelle che ci sono giunte, verseggiatore dallo stile semplice e immediato. Rinaldo d’Aquino, forse fratello di San Tommaso. Manfredi_di_SiciliaMazzeo di Riccio, il terzo di Messina, la città dei poeti e, infine, Jacopo Mostacci, falconiere ufficiale di Federico, il quale, come vedete, li fece diventare poeti proprio tutti. Il grande imperatore morì nel 1250, lasciando il Regno di Sicilia al figlio Manfredi (immagine a destra). Questi, fu un sovrano generoso e continuò la politica culturale del padre, accogliendo a corte, oltre agli amati poeti, anche scienziati e artisti. Papa Urbano IV, però, lungi dal farsi gli affari suoi, come, del resto, non avevano fatto i suoi predecessori e non faranno nemmeno i suoi successori, lo scomunicò e, addirittura, bandì una vera e propria crociata contro di lui, forte dell’appoggio di Carlo d’Angiò, fratello di Luigi IX di Francia. Quando, poi, il pontefice cadde nel sonno eterno, ci pensò il subentrante Clemente IV a continuare l’opera. Nel 1266, a Benevento, contro le truppe dell’Angiò, Manfredi perse la battaglia, la corona e pure la vita. Con la morte del figlio di Federico II, il regno svevo andò in pezzi e finì pure la poesia, che non aveva più quella sua amata corte di Palermo per esprimersi.

 

 

Il Crepuscolarismo e Guido Gozzano

 

I primi vent’anni della ma vita li ho trascorsi al mio paese, Sant’Agata sui due Golfi. Vivevo, insieme con i miei genitori e mia sorella, al secondo piano di un palazzetto giallo. Il balcone della mia camera da letto affacciava su un panorama mozzafiato: a sinistra, la collina di Santa Maria della Neve, dove potevo vedere l’edificio in cui avevo frequentato le scuole elementari, poi, il Monte San Costanzo, dalla cui cima si gode uno degli spettacoli più belli del mondo, 20150210_172906al centro della scena, l’isola di Capri e sulla destra, il colle del Deserto, col suo cupo monastero. Fin da bambino, mi incantavo, poggiato sulla ringhiera, a guardare, tra ottobre e novembre, il sole tramontare tra Capri e il mare. Ho quasi sempre accostato questa immagine al ricordo della mia infanzia e della mia terra bellissima ogniqualvolta, essendone lontano, ho pensato ad esse. Anche il termine Crepuscolarismo mi rimanda a questa dolce memoria per cui, a prescindere, ne sono affezionato. In qualche modo, questa definizione ha a che fare con il tramonto, perché fu adoperata per definire quella tendenza poetica che si sviluppò in Italia nei primi quindici anni del Novecento. Gabriele D’Annunzio aveva celebrato la poesia eroica, ponendo il poeta nella posizione di animatore della storia e creatore delle forze del futuro (il solito megalomane!). I crepuscolari, al contrario, rifiutavano questa concezione del poeta e della poesia, ripiegando su temi e movimenti più semplici, di declino, smorzati e spenti, comuni e usuali, come il sole che tramonta, appunto. Ecco il perché del termine Crepuscolarismo. Non so se avete mai fatto caso a ciò: in letteratura, funziona come in fisica, perché, ad ogni azione, corrisponde una reazione uguale e contraria. E allora, dopo il Petrarchismo c’è stato il Barocco, dopo il Barocco, l’Arcadia, dopo l’Arcadia, l’Illuminismo, dopo l’Illuminismo, il Romanticismo, dopo il Romanticismo, la Scapigliatura, dopo la Scapigliatura, il Verismo, dopo il Verismo, la poesia dannunziana, dopo la poesia dannunziana, il Crepuscolarismo and so on, come dicono gli inglesi. guido_gozzanoOgnuno di questi movimenti poetici deve qualcosa a quello che lo ha preceduto, soprattutto perché, ne viene fuori come contrapposizione, quasi a dire: “Io sono così, perché tu sei stato colì!” È un po’ come alle elezioni, dove ogni partito o coalizione si proclama diverso e migliore di chi era prima al governo, ma nei fatti, poi, non cambia mai niente. In letteratura per fortuna, non funziona così. Ogni singola stagione culturale ha dato qualcosa di importante alla sua storia. Comunque, torniamo ai nostri crepuscolari. Il più famoso tra essi fu senza dubbio Guido Gozzano. Nato a Torino nel 1883, studiò con poco profitto alle scuole superiori, si iscrisse all’Università senza, però, laurearsi. Si interessò soltanto alla letteratura, praticamente. Visse molto poco, 33 anni, distrutto dalla tisi, malattia che tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, fece strage non solo di poeti e letterati, ma anche di gente comune perché, a differenza dei concorsi pubblici, dove si fa a chi figlio e a chi figliastro, come si suol dire, la tisi non ha mai guardato in faccia a nessuno, né ha accettato raccomandazioni: per questo infame morbo erano tutti figli di NN! Il suo compendio poetico che vale la pena leggere è “Colloqui”. La poetica di Gozzano risente della malattia e del continuo confrontarsi con essa, dell’incertezza del futuro e del rifugio in un passato tutto da ricordare. Avrebbe desiderato solo essere felice, poter amare ed essere amato, ma la tisi glielo impedì. Ne sono dimostrazione due tra le sue liriche migliori:

Loreto impagliato ed il busto d’Alfieri, di Napoleone
i fiori in cornice (le buone cose di pessimo gusto),
il caminetto un po’ tetro, le scatole senza confetti,
i frutti di marmo protetti dalle campane di vetro,
un qualche raro balocco, gli scrigni fatti di valve,
gli oggetti col monito, salve, ricordo, le noci di cocco,
Venezia ritratta a musaici, gli acquarelli un po’ scialbi,
le stampe, i cofani, gli albi dipinti d’anemoni arcaici,
le tele di Massimo d’Azeglio, le miniature,
i dagherottìpi: figure sognanti in perplessità,
il gran lampadario vetusto che pende a mezzo il salone
e immilla nel quarzo le buone cose di pessimo gusto,
il cùcu dell’ore che canta, le sedie parate a damasco
chèrmisi… rinasco, rinasco del mille ottocento
cinquanta!

(L’amica di nonna Speranza, vv. 1 – 14)

«Piccolino, ti piaccio che mi guardi?
Sei qui pei bagni? Ed affittate là?»
«Sì… vedi la mia mamma e il mio papà?»
Subito mi lasciò, con negli sguardi
un vano sogno (ricordai più tardi)
un vano sogno di maternità…
«Una cocotte!…»
«Che vuol dire, mammina?»
«Vuol dire una cattiva signorina:
non bisogna parlare alla vicina!»
Co – co – tte… La strana voce parigina
dava alla mia fantasia bambina
un senso buffo d’ovo e di gallina…
Pensavo deità favoleggiate:
i naviganti e l’Isole Felici…
Co – co – tte… le fate intese a malefici
con cibi e con bevande affatturate…
Fate saranno, chi sa quali fate,
e in chi sa quali tenebrosi offici!
Un giorno –  giorni dopo –  mi chiamò
tra le sbarre fiorite di verbene:
«O piccolino, non mi vuoi più bene!…»
«È vero che tu sei una cocotte?»
Perdutamente rise… E mi baciò
con le pupille di tristezza piene.

(Cocotte, vv. 19-43)

crepuscolo1

Gozzano non si atteggiò mai a grande poeta, perché verseggiò con tristezza, quasi piangendo. Come me. Una volta, scrissi una poesia di getto, per una donna che mi aveva abbandonato improvvisamente, dopo due mesi che eravamo insieme. Impiegai meno di dieci minuti a comporla e lo feci con le lacrime che grondavano dagli occhi, nel vero senso della parola. Dovetti tenerli quasi chiusi, per non allagare la tastiera del computer. Non è crepuscolare, ma esprime, comunque, il bisogno di impedire il crepuscolo di una passione. Voglio farvela leggere:

La perla e il pescatore

Seppure raccogliessi tutto il silenzio che ti è succeduto,
per farne un’unica parola d’amore
che recasse il tuo nome,
seppure avessi la possibilità,
un’unica, sola, possibilità ancora
di averti davanti e guardarti sorridere,
seppure pensassi di annegare il mio cuore
nel dolore che piango
al ricordo incomparabile dei tuoi occhi,
seppure maledicessi quelle mani che mi carezzavano,
quelle labbra che baciavano le mie
e i raggi di luna in una notte d’inverno,
e seppure permettessi alla rabbia di gridare,
per provare a trovare una ragione,
che sia pure vana e illusoria,
potrò mai dimenticarti?
Non voglio! Non voglio che il silenzio diventi parola,
che il tuo sorriso, i tuoi occhi, le tue mani, le tue labbra
siano solo ricordo.
Non voglio una perla,
voglio pescare lì dove il mare è profondo,
dove mi troverai quando risalirò dall’abisso
in cui la tua assenza mi ha fatto sprofondare.

 

 

Giuseppe Gioachino Belli: er poeta de Roma

 

Ma cche Ffajòla, Cristo, è ddiventata
sta Roma porca, Iddio me lo perdoni!
Forche, che state a ffà, ffurmini, troni,
che nun sscennéte a ffanne una panzata?

(Campa e llassa campà, vv. 1 – 4)

Romano de Roma, come pochissimi altri nella storia della Letteratura Italiana, nacque nel 1791. Non aveva compiuto 16 anni, che entrambi i genitori erano già morti: il padre di colera, la madre non si sa, ma, certamente, non di vecchiaia. Il giovanotto allora, dovette abbandonare gli studi gioacchino_bellie mettersi a lavorare, esercitando la professione di famiglia, il contabile. Si arrangiò in ogni modo possibile, facendo sempre salti mortali per portare qualche soldino a casa. Per arrotondare, dava lezioni private di italiano, geografia e aritmetica. Nel 1816, sposò una vedova, Maria Conti, molto più anziana di lui. Si buttò a capofitto nella vita matrimoniale anche perché, la dote della moglie, gli permise di vivere un po’ più tranquillamente. Di tanto in tanto, viaggiò, ebbe tempo sufficiente per soddisfare le sue curiosità letterarie, partecipò alla vita culturale romana, entrando a far parte dell’Accademia Tiberina, di cui fu anche segretario e presidente. Trascorse il resto della vita a comporre poesie in romanesco, fino a quando, la sera del 21 dicembre 1863, un ictus lo stroncò. Qualche tempo prima di morire, aveva detto al figlio: “Ah Ciro, me raccomanno, quanno moro devi da bbrucià tutte ‘ste cartacce mia, ‘a capito!”. “Sì ah papà, nun te preoccupà, quanno che sarà ‘o farò!”. Per fortuna, Ciro non lo ascoltò.

Torzetto l’ortolano a li Serpenti
prometteva oggni sempre ar zu’ curato
c’a la su’ morte j’averìa lassato
cinquanta scudi e ccert’antri ingredienti.

Quanto, un ber giorno, lui casc’ammalato;
e ccurreveno ggià cquinisci o vventi
tra pparenti e pparenti de parenti
a mmostrajje un amore indemoniato.

Ecchete che sse venne all’ojjo – santo;
e ‘r curato je disse in ne l’ontallo:
“Ricordateve, fijjo, de quer tanto…”

Torzetto allora uprì ddu’ lanternoni,
e jj’arispose vispo com’un gallo:
“Oggne oggne, e nnu mme roppe li cojjoni.

(Er testamento der Pasqualino)

Belli è stato, senza dubbio alcuno, il poeta del popolo romano. In oltre 2000 sonetti, lo cucinò in tutte le salse, ce ne ha fatte sapere di tutti i colori, dando voce ai plebei, facendogli parlare il loro linguaggio, pieno di parolacce, insulti e scurrilità, con i quali essi lamentavano01_02_Cat i loro bisogni, mostrando i maltrattamenti e le prepotenze subite dal clero e dalla nobiltà. La comicità che ne viene fuori è spesso esilarante, ma la sua produzione rappresenta anche uno specchio fedele e profondo della Roma del Papa Re, una città alquanto arretrata, sporca, con le greggi di pecore che andavano a brucare l’erba tra le rovine dell’antico impero, stracolma di bordelli e di furfanti, mendicanti e pover’uomini ad ogni angolo della strada, forche dalle quali pendevano malfattori e spesso sventurati innocenti, gente che si arrangiava come poteva, furbescamente e un po’ truffaldinamente, ma, tutto sommato, con un grande cuore. Questo è concentrato nella poesia di Belli.

Accidenti a l’editti, a cchi l’inventa,
chi li fa, chi li stampa, chi l’attacca,
e cchi li legge. E a vvoi st’antra patacca
schiccherata cor brodo de pulenta!

E addosso all’ostarie! ggente scontenta,
fijji de porche fijje d’una vacca!
Si all’ostaria ‘na purcia sce s’acciacca,
cqua ddiventa un miracolo diventa!

Papa Grigorio, dì ar Governatore
che sto popolo tuo trasteverino
si pperde l’ostarie fa cquarc’orrore.

Noi mànnesce a scannatte er giacubbino,
spènnesce ar prezzo che tte va ppiù a ccore,
ma gguai pe ccristo a cchi cce tocca er vino.

(L’editto de l’ostarie)

Come lui stesso ebbe a dire: “Vojo fà de a plebe romana, monumento.” E ci è riuscito, perché nei suoi sonetti quella plebe c’è tutta, parla, si sbraccia, cerca attenzione e la ottiene. I suoi concittadinibelerma1 lo ricambiarono, erigendogli un bel monumento nella piazza omonima, proprio all’ingresso del rione Trastevere (foto a sinistra). Tanto per sorridere ancora un po’: nel 1827, Giuseppe Gioachino Belli raggiunse Milano perché in molti, a Roma, gli avevano detto che nella capitale del Lombardo – Veneto avrebbe potuto trovare tanti uomini di lettere e bravi rimatori come lui. Ed infatti, vi conobbe il poeta Carlo Porta. Sarebbe stato bello poterli sentire tutt’e due, uno in milanese e l’altro in romanesco, scambiarsi versi e versacci. Forse per rispondergli con le rime, o, forse, per imitazione, Belli compose un sonetto simile a Dormiven dò tosann tutt do attaccaa di Porta (a breve, un articolo su questo letterato milanese). Il “nobile” argomento è sempre lo stesso:

Àghita, sai? je l’ho ggià ddetto a cquello:
e llui s’è sbottonato li carzoni,
e mm’ha ffatto vedé ccome un budello
attaccato a ddu’ ova de piccioni.

Quer coso disce che sse chiama uscello,
oppuro cazzo, e ll’antri dua cojjoni.
Io je fesce: “E cch’edè sto ggiucarello?
E sti du’ pennolini a cche ssò bboni?”

Mo ssenti, Àghita mia, quello che rresta.
Disce: “Fa ddu’ carezze a sto pupazzo.”
Io je le fesce, e cquello arzò la testa.

Perantro è un gran ber porco sto sor cazzo,
perché ppoi, strufinannome la vesta,
ce sputò ssopra, e mme sce fesce un sguazzo.

(Le confidenze de le ragazze)

 

 

Trattati, cronache e storie tra il ‘200 e il ‘300

 

Secondo quel modo di scrivere tipicamente medievale, a partire dal 1100, furono composte, in Europa e in Italia, vastissime opere che trattavano di tutto e di più. Quando, ad esempio, un letterato scriveva un libro di storia, non si limitava a raccontare quanto era accaduto ai suoi tempi o, al massimo, nell’arco di qualche secolo, come accade oggi in gran parte dei testi di storia che si studiano a scuola, ma cominciava da quando Dio che creò il mondo, fino al momento in cui staccava definitivamente la penna dal foglio.im099 Allo stesso modo, chi metteva insieme animali, piante e pietre preziose, in particolari raccolte dette bestiari, erbari o lapidari, non catalogava solo quello che aveva sotto gli occhi, ma vi inseriva mostri, belve feroci, animali mitologici, finti e inventati, piante che non sarebbero esistite nemmeno nel più attrezzato orto botanico del mondo, come i Kew Gardens a Londra, erbe magiche, fiori che divoravano gli uomini, pietre dai poteri meravigliosi, che si trasformavano in oro, che rendevano invisibili, il tutto arricchito con mille significati e allegorie. Questa particolare tendenza dello scrivere è stata detta enciclopedismo, perché, ogniqualvolta venisse in mente a qualcuno di mettersi a fare lo scrittore, doveva stendere un’enciclopedia. Giusto per fare due nomi, cito Vincenzo di Beauvais, autore dello “Speculum (specchio) Maius“, diviso in naturale, doctrinale e historiale, che rifletteva proprio tutto, e Ristoro d’Arezzo, redattore di una “Composizione del mondo con le sue cascioni“, due capitoloni difficilissimi e di una noia mortale. Molti furono anche i trattati di matematica, come quelli di Lorenzo Fibonacci, che nel tempo libero inventava sequenze numeriche per Dan Brown, e quelli di medicina, di astronomia e di astrologia.

I lettori di allora avevano poco tempo e ancor meno voglia di sfogliare libroni che non avrebbero mai finito, pieni di cose che non gli interessavano affatto. download (2)Avrebbero preferito leggere qualcosa che gli raccontasse come andassero le cose in modo spicciolo. Anch’essi volevano interessarsi di politica, sapere chi avesse perso la battaglia, chi fosse stato stato eletto re o nominato vescovo. Volevano leggere i settimanali scandalistici dell’epoca, come Novella 2000 o Chi, i quali rivelavano l’ultimo fidanzato della contessa o con chi era scappata la figlia del vassallo, promessa in sposa al principe reale.  Fu per questo, che tra la fine del ‘200 e gli inizi del ‘300, qualche storico furbo e un po’ curioso, pensò bene di scrivere cronache di quello che era successo e succedeva in quegli stessi anni, cui aveva potuto assistere con i suoi occhi o, al massimo, si era fatto raccontare da qualcuno che era stato presente.

Salimbene de Adam e la Cronica

Monaco francescano contro la volontà del padre, Salimbene, il quale, in realtà, si chiamava Ognibene, nacque a Parma nel 1221. Durante la sua vita si spostò molto tra il Nord Italia e la Francia.download Quando fu troppo stanco per continuare, si fermò e scrisse la “Cronica“. Morì nel 1287. A Salimbene due persone gli erano antipatiche che più antipatiche non si può: i francesi e Federico II. Non perse mai occasione, soprattutto ai primi, di combinarli male: “Quando bevono – diceva – le sparano grossissime, strillando che possono prendersi il mondo in un colpo solo e, pure quando non bevono, pensano di essere migliori di tutti gli altri popoli.” Come i francesi di oggi, dunque! Contro l’imperatore, invece, scrisse un libello intitolato “XII scelera Friderici imperatoris“, (Dodici pazzie di Federico imperatore) che, purtroppo, è andato perduto, dove lo accusava di essere uno spilorcio, di non aver avuto amici a causa proprio della sua avarizia e di aver combattuto la Chiesa solo per confiscarne le proprietà. La “Cronica” di Salimbene narra i fatti storici accaduti tra gli ultimi trent’anni dell’XII secolo fino alla sua morte. Rimane una delle fonti più importanti per la storia del ‘200, piena di eventi, con lo sguardo volto alle ingiustizie e alle miserie della società del tempo e con il grande rispetto per i personaggi che quella storia stavano facendo.

Dino Compagni e la Cronica delle cose occorrenti ne’ tempi suoi

Guelfo bianco, ricco borghese e sindacalista dell’Arte della Seta, Dino Compagni visse a Firenze tra il 1255 e il 1324. Fu gonfaloniere di giustizia e priore e, proprio per questo, quando i suoi compagni di partito, tra cui Dante, furono esiliati, cacciati dai neri, poté rimanere in città, grazie ad una sorta di immunità parlamentare, ma fu costretto ad abbandonare la vita politica.download (1) Non avendo più da lavorare, quindi, saputo che l’imperatore Arrigo VII stava scendendo in Italia, pensò di dare notizia di quanto fosse successo a Firenze dal 1280 al 1312. Illustrando in modo particolare la lotta tra i guelfi bianchi e neri e la vittoria di questi ultimi, Compagni dichiarò di trattare solo “il vero delle cose certe“, pure perché non aveva intenzione di scrivere falsità. Per questo, si servì solo di ciò che aveva visto e sentito di persona o che gli aveva riferito qualche galantuomo. Per di più, non voleva raccontarla a modo suo. Ma non riuscì ad essere imparziale. La sconfitta ancora gli bruciava e, accanto alla narrazione dei fatti, inserì predicozzi contro i suoi concittadini e contro la malvagità e l’infamia dei neri e del loro capo Corso Donati. Anziché una cronaca, quest’opera sembra un diario segreto, dove la passione adoperata per descrivere quanto è richiamato va al di là del fatto storico. I giudizi violenti contro personaggi potenti ancora in vita si sprecano e l’Autore, per paura che questi gliela facessero pagare tendendogli un agguato con i loro sgherri, nascose il manoscritto in un buco nel muro in cantina. Non disse niente ad alcuno e, per caso, 150 anni dopo, questo fu ritrovato.   

Giovanni Villani e la Nuova Cronica di famiglia

Sicuramente riuscì ad essere molto meno parziale di Dino Compagni, anche perché, nel frattempo, a Firenze, i tempi erano mutati. A comandare c’erano i neri, i bianchi erano in esilio e si stava tutti un po’ più tranquilli. Giovanni Villani nacque nella città dell’Arno nel 1280. Figlio del popolo, fu mercante, banchiere socio dei Peruzzi e dei Buonaccorsi e priore un paio di volte, simpatizzando per i neri. Fu accusato falsamente di aver sgraffignato danari pubblici durante la costruzione delle nuove mura della città e, a seguito del fallimento del Banco Buonaccorsi, fu incarcerato per qualche mese. VillaniMorì durante l’epidemia di peste del 1348, quella di cui Boccaccio si servì per dare inizio al “Decameron“. Villani divise la sua “Nuova Cronica” in dodici capitoli: non seppe resistere al fascino dell’enciclopedia e, nei primi sei, raccontò la storia del mondo, dalla Torre di Babele fino al 1265, con lo scopo di vantare, in maniera esagerata, le origini romane di Firenze. Negli ultimi sei, invece, riportò quanto successo nella sua città dal 1265 all’anno della morte. L’Autore non si perde in chiacchiere. Non gli interessa dire la sua sull’accaduto, quanto soltanto raccontare come sono andati i fatti. Piena di documenti d’archivio, di informazioni sulla popolazione e su come si svolgevano i commerci in città, essa contiene anche le prime notizie biografiche su Dante, con la soddisfazione di poter annoverare, tra i cittadini fiorentini, un così illustre poeta. Sul letto di morte, col corpo pieno di bubboni per la peste, Giovanni si fece promettere dal fratello Matteo la continuazione dell’opera. Matteo proseguì fino al 1363 e chiese, poi, la stessa cosa a suo figlio Filippo il quale, però, evidentemente poco interessato a questa pratica di famiglia, aggiunse soltanto il 1364.

 

 

Giovanni Della Casa e il “Galateo”

 

“Amanti delle buone maniere, gente per la quale l’apparenza è tutto, voi che vi industriate per far bella figura ogniqualvolta vi troviate in compagnia di uomini e donne perbene, voi che avete a cuore l’esser composti ed educati, voi che vorreste una guida per non far la figura degli zotici quando siete invitati ad una cena di gala, aprite bene le orecchie, anzi gli occhi, e leggete con attenzione quanto segue: vi parlerò del Galateo, ovvero di quell’insieme di regole che vi permetteranno di presentare voi stessi quali degni membri della società civile civilizzata!”.

Giovanni Della Casa nacque, forse al Mugello, forse a Firenze, nel 1503. Studiò nel capoluogo toscano e a Bologna, intraprendendo, poi, la carriera ecclesiastica, dellac01l’unica che, allora come oggi, gli permise di vivere da vero signore senza far praticamente nulla. Per dar valore a questa sua scelta scrisse pure un trattatello, An uxor sit ducenda (Se sia buono prender moglie), con risposta, ovviamente, scontata. Fu arcivescovo di Benevento e nunzio apostolico a Venezia, dove se la spassò alla grande, nel suo palazzo sul Canal Grande, in cui si circondò di nobili, poeti, artisti e belle donne, da una delle quali ebbe anche un figlio, in barba dell’arcivescovato. Per fare ammenda dei suoi peccati, espiandoli, però, sulla pelle dei poveruomini, introdusse i Tribunali della Santa Inquisizione in Veneto e si occupò personalmente dei primi processi contro i protestanti. Aspirò per tutta la vita alla porpora cardinalizia, che non ottenne mai, probabilmente a causa dei suoi trascorsi troppo salottieri, festaioli e goderecci. Morì a Roma nel 1556.

Il Galateo

Data la sua vicenda esistenziale, quindi, chi meglio di quest’uomo avrebbe potuto scrivere un saggio sul comportamento da tenere in società?galateo  Quest’opera fu composta tra il 1551 e il 1556 ed ebbe immediatamente  grande successo – i “fissati” e i “vacui” esistevano già a quell’epoca! Il titolo completo è: “Trattato di Messer Giovanni Della Casa, nel quale sotto la persona d’un vecchio idiota ammaestrante un suo giovinetto, si ragiona dei modi che si debbono o tenere o schifare nella comune conversazione, cognominato Galateo ovvero dei costumi“. Il titolo “Galateo” deriva dal nome del vescovo di Sessa Aurunca, Galeazzo (in latino Galatheus) Florimonte, il quale, stimata l’esperienza del Della Casa in quell’ambito, gli consigliò di scriverci un trattato. Eccovi alcune regole:

(III) Percioché non solamente non sono da fare in presenza degli uomini le cose laide o fetide o schife o stomachevoli, ma il nominarle anco si disdice; e non pure il farle et il ricordarle dispiace, ma eziandio il ridurle nella imaginazione altrui con alcuno atto suol forte noiar le persone. E perciò sconcio costume è quello di alcuni che in palese si pongono le mani in qual parte del corpo vien lor voglia. Similmente non si conviene a gentiluomo costumato apparecchiarsi alle necessità naturali nel conspetto degli uomini; né, quelle finite, rivestirsi nella loro presenza; né pure, quindi tornando, si laverà egli per mio consiglio le mani dinanzi ad onesta brigata, conciosiaché la cagione per la quale egli se le lava rappresenti nella imaginazion di coloro alcuna bruttura. E per la medesima cagione non è dicevol costume, quando ad alcuno vien veduto per via (come occorre alle volte) cosa stomachevole, il rivolgersi a’ compagni e mostrarla loro. E molto meno il porgere altrui a fiutare alcuna cosa puzzolente, come alcuni soglion fare con grandissima instanzia, pure accostandocela al naso e dicendo: “Deh, sentite di grazia come questo pute!” Anzi doverebbon dire: “ Non lo fiutate, percioché pute”.

(V) Dèe adunque l’uomo costumato guardarsi di non ugnersi le dita sì che la tovagliuola ne rimanga imbrattata, perciò che ella è stomachevole a vedere; et anco il fregarle al pane che egli dèe mangiare, non pare polito costume.

(VI) Per che non si dèe dire né fare cosa per la quale altri dia segno di poco amare o di poco apprezzar coloro co’ quali si dimora.

(XI) Nel favellare si pecca in molti e varii modi, e primieramente nella materia che si propone, la quale non vuole essere frivola né vile, perciò che gli uditori non vi badano e perciò non ne hanno diletto, anzi scherniscono i ragionamenti et il ragionatore insieme.

(XVIII) D’altrui né delle altrui cose non si dèe dir male, tutto che paia che a ciò si prestino in quel punto volentieri le orecchie, mediante la invidia che noi per lo più portiamo al bene et all’onore l’un dell’altro; ma poi alla fine ogniuno fugge il bue che cozza, e le persone schifano l’amicitia de’ maldicenti, facendo ragione che quello che essi dicono d’altri a noi, quello dichino di noi ad altri.

(XXX) Non si dèe alcuno spogliare, e spetialmente scalzare, in publico, cioè là dove onesta brigata sia, ché non si confà quello atto con quel luogo, e potrebbe anco avenire che quelle parti del corpo che si ricuoprono si scoprissero con vergogna di lui e di chi le vedesse.

rinasc1

Nonostante il comportamento perfetto sia, in ogni caso, difficile da realizzare, a monsignor Della Casa va riconosciuto almeno il merito di aver provato a ingentilite i suoi contemporanei e quanti, nei secoli a venire, si siano accostati alla sua opera, traendone modelli da seguire per essere più chic.

 

Francesco Guicciardini e la storiografia moderna

 

Terzo figlio di Piero di Jacopo e Simona Gianfigliazzi, ricchi e influenti cittadini fiorentini fedeli ai Medici, nacque il 6 marzo 1483 e fu tenuto a battesimo nientemeno che da Marsilio Ficino – chissà quale influenza esercitò su di lui questo padrino così illustre! Il giovane Francesco apprese il diritto a Firenze, presso uno degli insegnanti più alla moda del tempo, messer Francesco Pepi. francesco-guicciardiniFu, poi, a Ferrara e a Padova, dove concluse gli studi presso la celeberrima Università cittadina. Rientrato a Firenze non ancora laureato, cominciò ad esercitare la professione forense e l’insegnamento. Nel 1508, contro il volere del padre, sposò Maria Salviati, figlia di Alamanno, potente aristocratico che aveva le mani in paste un po’ dappertutto nella città dell’Arno. Grazie proprio alle amicizie del suocero poté avviarsi alla carriera politica, che lo condusse rapidamente al successo. Fu ambasciatore in Spagna e, al ritorno dei Medici a Firenze, governatore di Modena, Reggio Emilia, Parma e, in seguito, di tutta la Romagna, incarico nel quale dimostrò carattere e grande abilità diplomatica. Nel 1527, dopo la cacciata dei Medici, a causa dei sospetti dei repubblicani che non si fidarono di lui, decise di ritirarsi nella sua villa al Finocchietto, fuori Firenze. Colà si dedicò alla scrittura, aspettando tempi migliori che, però, non arrivarono. Nel 1529, gli furono perfino confiscati i beni, costringendo lui e la sua famiglia a trasferirsi a Roma, presso papa Clemente VII, un Medici. Quando il potente casato mediceo, per la terza volta, rientrò in città, fu consigliere del duca Alessandro ma poco ottenne dal suo successore Cosimo I. Scelse, quindi, di abbandonare definitivamente la vita politica. Pochi anni dopo, nel 1540, il 22 maggio, morì.

Ricordi politici e civili

Presso le famiglie di ricchi mercanti o, comunque, molto facoltose, era consuetudine, da parte dei membri culturalmente dotati, redigere e collezionare brevi pensieri, aforismi, raccomandazioni pratiche ed etiche, consigli, rivolti ai congiunti. Guicciardini elaborò sentenze e precetti lungo tutta la vita, sin dalla prima gioventù. Da essi si intuisce molto bene quali fossero i reali pensieri dell’Autore e il suo modo di rapportarsi alla realtà, alla vita civile e alla politica.Doria-Pamphilij-Metsys-Usurai Non esistono verità universali! Questo è il suo punto di partenza. La realtà è così multiforme e mutevole che ricercare regole di comportamento generali è una mera perdita di tempo. Importante è che ogni uomo riesca ad accrescere la propria riputazione e quella della sua famiglia. Una regola, tutto sommato, può essere seguita: orientarsi al meglio attraverso tutti gli innumerevoli casi della vita, cercando di cavalcare la fortuna quando essa arride. Proprio per questo, l’uomo di successo, ben conscio che i rapporti sociali siano condizionati da falsità, errori e illusioni, deve soltanto occuparsi di sé, aumentando, ad ogni costo, la propria posizione, agendo segretamente senza mai far intendere ad alcuno i suoi intenti, dissimulando e mascherando. In una parola, deve agire pensando esclusivamente ai fatti propri. 

XIII. È molto utile el governare le cose sue segretamente, ma piú utile in chi si ingegna quanto può di non parere con gli amici; perché molti, come poco stimati, si sdegnono quando veggono che uno recusa di conferirgli le cose sue.

XVIII. È da desiderare piú l’onore e la riputazione che le ricchezze; ma perché oggidí sanza quelle male si ha e conserva la riputazione, debbono gli uomini virtuosi cercare non d’averne immoderatamente, ma tante che basti allo effetto di avere o conservare la riputazione e autoritá.

IL. Conviene a ognuno el ricordo di non comunicare e’ secreti suoi se non per necessitá, perché si fanno schiavi di coloro a chi gli comunicano, oltre a tutti gli altri mali che el sapersi può portare; e se pure la necessitá vi strigne a dirgli, metteteli in altri per manco tempo potete, perché nel tempo assai nascono mille pensamenti cattivi.

CLXXIV. Non mancate di fare le cose che vi diano riputazione, per desiderio di fare piacere e acquistare amici; perché a chi si mantiene o accresce la riputazione, corrono gli amici e le benivolenzie drieto; ma chi pretermette di fare quello che debbe, ne è stimato manco; e a chi manca la riputazione, mancano poi gli amici e la grazia. 

È chiaro come questa sia una vera lezione di opportunismo, egoismo e cinismo, comprensibile, certamente, se si tiene conto del contesto storico e familiare in cui visse l’Autore: per un aristocratico impegnato in politica, in un’epoca dove, d’improvviso, ci si poteva trovare con la testa avvoltolata in un cappio o con un pugnale piantato dietro la schiena, era necessario usare qualsiasi mezzo per riuscire a rimanere in auge, evitando di essere travolti dagli eventi.

Storia d’Italia

Quando Guicciardini cominciò a stendere quest’opera, era ormai in pensione. In gioventù, aveva scritto le Storie fiorentine dal 1378 al 1509, per cui, l’argomentazione storica e la sua metodologia non gli erano affatto sconosciute. 70231AnobilE’ stato questo il suo unico scritto elaborato per la pubblicazione, che, però, fu postuma, del 1561. L’esposizione include gli eventi compresi tra la morte di Lorenzo il Magnifico (1492) e quella di papa Clemente VII (1534). Lo scrittore ragiona della rovina dei principi e dei principati italiani, i quali sono passati dalla libertà della fine del ‘400 al dominio straniero, francese e spagnolo, del ‘500. Questi poco sagaci signori, a detta dell’Autore, credendo di essere assennati e prudenti, si sono fidati troppo degli stranieri, venendone, poi, travolti. Con impassibile distacco e cruda ironia, Guicciardini indaga le cause di questo decadimento italiano, il tutto seguito in maniera molto scrupolosa e dettagliata, grazie alle testimonianze di numerosi protagonisti e alla consultazione di materiali d’archivio (esaminò gran parte dell’archivio della Magistratura fiorentina). Proprio per questo, per il metodo che adoperò nella stesura della sua opera, Guicciardini può, a buon diritto, essere definito il padre della storiografia moderna.

 

Le Operette morali di Giacomo Leopardi

 

Le Operette morali sono un’opera strettamente collegata, per quando riguarda i contenuti, allo Zibaldone di pensieri. 950a4152c2b4aa3ad78bdd6b366cc179Sono una raccolta di ventiquattro tra dialoghi e prose, più o meno lunghi, ed esprimono bene la visione delle cose del loro Autore. Furono composte tra il 1824 e il 1832 e pubblicate, in diverse edizioni, dello stesso Leopardi, e in un’ultima postuma, a cura del fido amico Antonio Ranieri, nel 1845. Il poeta vi fa largo uso della satira per dimostrare, in fondo, quanto misera e disgraziata sia la condizione degli uomini. Lungo l’intero loro svolgimento, esse potrebbero rappresentare una storia dell’infelicità umana, in tutte le sue manifestazioni, cause ed effetti. Approfondiamone qualcuna un po’ più dettagliatamente.

Dialogo di Malambruno e di Farfarello.

Il mago Malambruno invoca i demoni dall’Inferno. Come il genio della lampada di Aladino, gli appare Farfarello, al suo completo servizio, promettendogli fama, soldi e belle donne. Andrea_di_Bonaiuto,_Cappellone_degli_Spagnoli_(SMN),_dettaglio_diavoliNiente di tutto questo! Il mago gli chiede soltanto di poter essere felice per un momento. Il diavolo risponde: “Mi dispiace, non ti posso aiutare!”. “Almeno liberami dall’infelicità”, lo incalza Malambruno. “Mi dispiace. Non si può fare nemmeno questo e sai perché?”. “No, dimmelo tu!”. “Perché, mio caro, è la tua natura che è così, così da non farti essere mai felice. Ho una soluzione, però: la morte. Questa, almeno, smetterà di farti penare. Adesso faccio il logico, senti questa: se la vita è sofferenza, cosa è meglio vivere o non vivere?”. “Questo è il problema”, risponde il mago. “No, questo è Shakespeare. Comunque – continua il demonio – se vivere significa essere infelice e non vivere significa non essere infelice, che cosa è meglio?”. “La calibro 9”. “Forse!” conclude Farfarello.

Dialogo di un folletto e di uno gnomo.

Uno gnomo sale in superficie dalle profondità della Terra per vedere dove siano finiti gli uomini.
Qui, incontra un folletto e con lui comincia a parlare: “E adesso che questi sono spariti, come faremo a misurare il tempo?”. Eh sì, tu pensi al tempo? La Natura se ne frega degli uomini, segue il suo di tempo”, risponde il folletto. “Ma tu sai perché sono tutti scomparsi?”, chiede lo gnomo. “Certo che lo so. Quei fessi si son fatti guerra tra loro, si sono ammazzati, si sono mangiati a vicenda e chi non ha fatto questo, è marcito nell’ozio e nei vizi. Praticamente, le hanno studiate tutte per andare contro la Natura e la loro sorte!”. “Sai che penso?”, dice lo gnomo. Penso che questi uomini credevano di essere al centro dell’Universo, che senza di loro si sarebbe fermato tutto e tutto sarebbe finito, e invece? Ogni cosa continua come prima, i pianeti a girare, il vento a soffiare…”. “I fiumi a scorrere”, lo interrompe il folletto. “E gli uomini ad essere cretini!” convengono entrambi.

Dialogo d’Ercole e di Atlante

Ercole deve sostituire Atlante a reggere il mondo. Il figlio di Zeus, però, si accorge che la Terra si è fatta leggera e 8950muta e propone al titano di legarsela a un pelo della barba, facendola penzolare come un ciondolo. Continuando a non sentire nessun rumore, suggerisce ad Atlante: “Colpiscila con la tua mazza, così scopriamo cosa succede”. “No, potrebbe rompersi in due come un uovo e gli uomini morirebbero tutti. Facciamo una cosa: giochiamoci a pallavolo, così vediamo pure chi è più bravo”. “Sì, infatti, poi, magari, si svegliano ‘sti uomini”, aggiunge Ercole. “Chi la fa cadere a terra per primo perde, ok? Aspetta però – dice Atlante – non ci dobbiamo far scoprire da tuo padre altrimenti sono cavoli amari!”.

Proposta di premi fatta dall’Accademia dei Sillografi

L’Accademia dei Sillografi, visti i progressi delle scienze meccaniche, propone un concorso per inventori. Ecco il bando: “In quest’era delle macchine così ben costruite e funzionanti, la nostra gloriosa Accademia propone la creazione di tre automi che passano caricarsi di tutta la miseria e dei lavori degli uomini, siccome è impossibile inventarne un rimedio. fluteplayerManzettiAl concorso potranno esser presentati tre robot:
– il primo, deve fare le parti e la persona di un amico perfetto, che non parli dietro, che non rompa più di tanto, che si faccia gli affari suoi senza andare a raccontare in giro i segreti confidatigli, che non si prenda troppa confidenza solo perché è amico, che non sia invidioso, che voglia bene all’altro e che per qualsiasi cosa sia sempre a disposizione;
– il secondo, sia un uomo artificiale a vapore, atto e ordinato a fare opere virtuose e magnanime, perché solo il vapore può permettere ad un automa di fare cose belle e buone;
– il terzo, deve essere disposto a fare gli uffici di una donna così come immaginata da Castiglione nel suo Cortegiano. Se ci riuscì Pigmalione a farsi una donna con le sue mani, ci potrete riuscire anche voi.
I premi consisteranno in tre medaglie d’oro del peso di 400 zecchini, ognuna con immagini e diciture adeguate a celebrare il particolare vincitore. La gloriosa Accademia concorrerà alle spese per l’acquisto delle medaglie con i danari ritrovati nella sacchetta di Diogene, ex segretario dell’Accademia, o con uno dei tre asini d’oro degli accademici Apuleio, Fiorenzuola e Machiavelli”.

Dialogo della Natura e di un islandese

Un islandese va errando per l’Africa. All’improvviso, scorge un busto così grande da sembrargli una collina. Avvicinatosi, vede una donna enorme, seduta per terra, con la schiena e il braccio poggiati su una montagna. Questa, dopo aver taciuto per un po’, gli dice: download-1“Chi sei e che sei venuto a fare da queste parti?”. “Sono un povero islandese e sto fuggendo la Natura”. “Bravo! Sono io la Natura”, risponde minacciosa. L’islandese prende coraggio e le urla: “Ah sì, e allora sappi che sei la nemica giurata degli uomini e degli animali, non sai fare altro che ingannarci, minacciarci, perseguitarci, renderci la vita impossibile e io, guardami, tra poco diventerò vecchio e che mi aspetta? Quante ancora me ne farai passare, brutta infame?”. La Natura non si cura di tutti i suoi lamenti e, impassibile, gli risponde: “Povero stolto, ma non hai ancora capito che il mondo non è stato creato per voi uomini e che io non mi occupo della vostra felicità o infelicità? Anzi, ti dirò di più: se pure vi estingueste, io neanche me ne accorgerei, ho altro a cui pensare, cose che tu e tutti quelli come te non sarete mai in grado di capire”. Mentre l’islandese tenta di replicare, sopraggiungono due leoni brutti, magri ed emaciati da far paura. Con le poche forze rimaste loro, riescono appena a saltargli addosso e a mangiarselo, potendo, così, a restare in vita per un altro giorno.