Terza puntata
La letteratura religiosa e i santi scrittori
I Francescani, i Domenicani, Bonaventura da Bagnoregio e Jacopone da Todi
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VideoStoria della Letteratura Italiana
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Dante Alighieri: il fabbro fiorentino della lingua italiana
Il sommo Dante è stato, senza dubbio alcuno, avanti Francesco Petrarca, Pietro Bembo e Alessandro Manzoni, il primo e più abile fabbro della nostra lingua. Proprio a lui, infatti, si deve la forgiatura dei caratteri della parlata italiana. Voglio fornirvi degli incredibili dati numerici, tratti dalla mitica enciclopedia multimediale Treccani.it: è stato calcolato che il 90% del lessico fondamentale dell’italiano oggi in uso (cioè, il 90% delle 2000 parole più frequenti, che a loro volta costituiscono il 90% di tutto ciò che diciamo, leggiamo o scriviamo ogni giorno), sia già nella Divina Commedia. La sua opera principale è invero a tal punto vasta, da potersi considerare un’epitome dell’intero sapere antico e medievale. E’ così piena di parole, anche specialistiche, che Dante ha temprato, non solo la nostra parlata comune, ma anche quelle tecniche. Lungo le tre cantiche del divino poema, infatti, sono molte le micro lingue presenti, come si definiscono, in linguistica, i lessici propri di una specifica disciplina, che, ad elencarli tutti, riempirei qualche pagina. Anche parolacce e bestemmie non mancano, appunto per non lasciar fuori nulla. Eccovi qualche esempio: Inferno, canto XVIII, vv. 133: “Taide è, la puttana che rispuose”; Inferno, canto XXI, v. 139: “Ed elli avea del cul fatto trombetta”; Inferno, canto XXV, vv. 1-3: “Al fine de le sue parole il ladro/ le mani alzò con amendue le fiche,/ gridando: “Togli, Dio, ch’a te le squadro!”). Prima di Dante, il vocabolario italiano era alquanto povero ma dopo di lui, è diventato tra i più ricchi al mondo. Prima, si poteva parlare soltanto di poche cose. Dopo, di quasi tutto. Anzi, di tutto! Pose le basi, inoltre, affinché il latino, presto o tardi, fosse messo in soffitta, soprattutto come registro scritto per la trasmissione della cultura, tanto buono era stato, nella sua opera, il lavoro compiuto sul linguaggio. Grazie al sommo poeta (immagine a sinistra) e alla lingua della Divina Commedia, noi tutti, ancora oggi, possiamo affermare: “Il fiorentino è il dialetto che di più si avvicina all’italiano perfetto!”. Ciò è accaduto perché la vastissima diffusione del sublime poema, già immediatamente dopo la morte del suo Autore, veicolò anche la lingua con il quale era stato composto. Quest’ultima, infatti, funse da modello linguistico per tutti coloro che lo lessero. La Divina Commedia ha insegnato agli italiani a leggere e a scrivere correttamente, permettendo loro, dalle Alpi alla Sicilia, di comprendersi reciprocamente. Potrei, dunque, proclamare che l’Italia sia stata unita da Dante più di cinquecento anni prima di Garibaldi, Cavour e i Savoia, ma questa, per chi come me è meridionale, è un’altra storia!
Con gli occhi chiusi: Federigo Tozzi e la sofferenza del mondo moderno
di
Mattia Bonasia
C’è dell’autobiografismo in ogni opera di Federigo Tozzi. Ma forse è proprio in Con gli occhi chiusi (1919), il romanzo che l’ha accompagnato per una vita, l’opera nella quale riusciamo ad apprezzare al meglio il vero Tozzi, dallo stile alle tematiche affrontate…
Luisa Casati Stampa, la marchesa che spezzò il cuore a Gabriele D’Annunzio
di
Giuseppe Scaraffia
Più vecchio di lei, già calvo e tarchiato, il Vate non riuscì a sottrarsi al fascino di una donna che era “un’opera d’arte vivente”. Eccentrica, mondana e animatrice di sedute spiritiche, in un gioco di passione teneva sulle spine l’egocentrico poeta, lasciandolo solo al Vittoriale, in attesa di un languido cenno…
Luisa Casati Stampa (1881-1957)
L’effimero e la poesia crepuscolare
Effimero è qualcosa di fugace e passeggero. E’ ciò che è fragile nel suo essere nel tempo. La sua attrattiva e la sua bellezza, quella che seduce e che si vorrebbe poter fissare, trova la propria ragion d’essere nell’incostanza. Nella mancanza di continuità. Nella negazione dell’eternità e, persino, nella deliberata rinunzia all’Assoluto. Proprio lì, in quell’attimo di non perpetuo, davanti alla vacuità del tempo, saltano gli schemi, i piani e tutte le certezze. Si annullano le distinzioni e le consuetudini. Si mandano all’aria le regole. Si sovverte lo status quo ante. I poeti crepuscolari, Guido Gozzano (immagine a destra) (1883-1916), Corrado Govoni (1885-1965), Tito Marrone (1882-1967) e Sergio Corazzini (1886-1907), massimi cantori dell’effimero nella storia della Letteratura italiana, dopo la stagione della poesia celebrativa di Giosuè Carducci e dell’estetismo superomistico di Gabriele D’Annunzio, con il mito del poeta, come animatore della storia e creatore delle forze del futuro, avevano ripiegato su temi e movimenti più semplici, declinanti, smorzati e quasi spenti. Il loro verso si presenta privo di qualsiasi ornamento e fluttua libero dal peso della tradizione formalistica. Tutto è accomunato dal bisogno del compianto e della confessione, nonché da una sorta di rimpianto pascoliano per un tempo che non c’è più e che diviene, giocoforza, fonte di perenne insoddisfazione: un’insoddisfazione che non si trasforma, giammai, in ribellione, piuttosto in rifugio dell’anima. La poesia crepuscolare evoca la tristezza e canta la coscienza infelice, la musica raminga, le canzoni d’amore del tempo perduto, le suppellettili che sanno di polvere, le luci soffuse nelle chiese, dove le candele si consumano lente, gli autunni nostalgici, fatti di addii e, persino, le primavere disadorne, senza alberi in fiore e senza profumi di vita rinnovata. Un lirismo della malinconia, la cui bellezza diventa canto dell’illusione. Quell’illusione che, seppure concepita in un momento di entusiasmo o di disperazione, si trasforma, poi, in verità, in realtà, disvelando, come un lampo improvviso, i misteri più nascosti, gli abissi più cupi della natura, i rapporti più lontani e segreti, le cause più inaspettate e remote, le astrazioni più sublimi, nei confronti delle quali la poetessa, paziente tessitrice di stati dell’animo, per dirla leopardianamente: “si affatica indarno per tutta la vita, a forza di analisi e di sintesi”.
“Quantunque la bellezza brilli,
essa cade. Così
in questo mondo chi
potrebbe essere in eterno?
Valicando oggi
le profonde valli dell’esistenza
non farò più vani sogni
né mai più m’illuderò!”.
Così, il monaco buddhista giapponese Kobo Daishi, vissuto tra l’ottavo e il nono secolo d. C., medita sulla fugacità della bellezza. “Cosa bella e mortal passa e non dura”, scrive Francesco Petrarca nel sonetto 248 del “Canzoniere”. E Molière, nel terzo atto della commedia “Le donne sapienti”, ricorda come “La bellezza del viso è un fragile ornamento, un fiore che appassisce presto, il bagliore di un istante”. Il bardo immortale William Shakespeare, in “Sogno di una notte di mezza estate”, si presenta sulla stessa lunghezza d’onda: “Tanto presto, quel che risplende è pronto a sparire”. Riecheggia anche “La canzone di Marinella” di Fabrizio De André: “E come tutte le più belle cose, vivesti solo un giorno, come le rose”. Non valgono patti faustiani con il demonio, oppure trasferimenti wildiani su tavole dipinte! La parola diviene tutto quello che resta. “Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus”, recita l’excipit del romanzo di Umberto Eco, “Il nome della rosa”. La rosa, che era, ora esiste solo nel nome, noi possediamo soltanto nudi nomi! Nomi, parole, versi, specula dell’ispirazione poetica, cifre del vissuto dei poeti crepuscolari, pendoli silenti che oscillano tra la realtà e l’immaginazione, tra l’illusione e il disincanto.
Cino da Pistoia e la discriminazione territoriale contro i napoletani
Esistesse una Commissione Disciplinare anche nella Letteratura Italiana, Cino da Pistoia dovrebbe essere sanzionato pesantemente per discriminazione territoriale! Guittoncino, detto Cino, della nobile famiglia dei Sighibuldi, nacque a Pistoia nel 1270. Studiò legge all’estero, prima a Bologna (per un pistoiese del XIII secolo, Bologna era all’estero!), poi, a Orleans, in Francia. Tornato in patria, esercitò l’avvocatura ma pochissimo tempo dopo, nel 1303, fu costretto a lasciare Pistoia perché i guelfi avevano cacciato i ghibellini dalla città. Rientratovi dopo tre anni, si dedicò alla scrittura di opere giuridiche, guadagnandosi, così, molti apprezzamenti e la cattedra di diritto presso le Università di Siena, di Perugia e di Napoli. All’ombra del Vesuvio conobbe e frequentò Giovanni Boccaccio, col quale, molto probabilmente, ragionava di donne e di poesia d’amore. L’insegnamento accademico, comunque, non gli impedì di celebrare, in versi, la sua amata, Selvaggia. Compose venti canzoni, undici ballate e centotrentaquattro sonetti (dopo Dante è lo stilonovista di cui ci sono giunte più rime). Quando morì, nel 1337, Francesco Petrarca, suo allievo di stile, gli dedicò un sonetto, Piangete, donne, e con voi pianga Amore. Se lo scontroso, geloso e un po’ invidioso letterato aretino si scomodò per Cino, è la prova che questi era stato un uomo e un poeta di grande valore. Quando lo incontrai al Liceo per la prima volta, mi fu subito simpatico perché il suo nome mi faceva tornare alla mente quello di un personaggio che ho molto amato durante la mia infanzia: il mago Zurlì, il cui vero nome è, appunto, Cino Tortorella. Mia madre aveva regalato a me e a mia sorella Tiziana un cofanetto di musicassette con le più famose fiabe, raccontate proprio dal mago dello Zecchino d’Oro. Ricordo ancora il mangianastri nero con i pulsanti rossi e i pomeriggi trascorsi insieme con Anna, la nostra babysitter, ascoltando Pollicino, La bella addormentata nel bosco, Cenerentola, Biancaneve e i sette nani, Heidi, Lutra la lontra e Raperonzolo. Quando, però, cominciai a ricercare materiali per la mia Storia della Letteratura Italiana, il pistoiese si rese antipatico perché scoprii che aveva scritto, non un semplice sonetto, ma una lunga canzone contro i napoletani, Deh, quando rivedrò ‘l dolce paese, in cui ci conciò davvero male:
“Deh, quando rivedrò ‘l dolce paese
di Toscana gentile,
dove ‘l bel fior si mostra d’ogni mese,
e partiròmmi del regno servile
ch’anticamente prese
per ragion nome d’animal sì vile?
Ove a bon grado nullo ben si face,
ove ogni senso fallace – e bugiardo
senza riguardo – di virtù si trova,
però ch’è cosa nova,
straniera e peregrina
di così fatta gente balduina.
O sommo vate, quanto mal facesti
(non t’era me’ morire
a Piettola, colà dove nascesti?),
quando la mosca, per laltre fuggire, i
n tal loco ponesti,
ove ogni vespa deveria venire
a punger que’ che su ne’ tocchi stanno,
come simie in iscranno – senza lingua
la qual distingua – pregio o ben alcuno.
Riguarda ciascheduno:
tutti compar’ li vedi,
degni de li antichi viri eredi.
O gente senza alcuna cortesia,
la cu’ ‘nvidia punge
l’altrui valor, ed ogni ben s’oblia;
o vil malizia, a te, perché t’allunge
di bella leggiadria,
la penna e l’orinal teco s’aggiunge.
O sòlo, solo voto di vertute,
perché trasforme e mute – la natura,
già bella e pura – del gran sangue altero?
A te converria Nero
o Totila flagello”.
Concluse, poi, passando la palla agli juventini, ai milanisti, agli interisti, agli atalantini e ai veronesi, anche se, oggi, da Roma in su, non c’è tifoseria, tranne quella genoana, che non canti, quasi ogni domenica, “Noi non siamo Napoletani!” o “Vesuvio lavali col fuoco!”:
“Vera satira mia, va’ per lo mondo,
e de Napoli conta
che ritén quel che ‘l mare non vole a fondo”.
Ad ogni modo, a parte la discriminazione territoriale contro i miei conterranei dell’epoca, Cino fu un rimatore molto bravo che seppe cantare il dolore e l’inquietudine per la mancanza d’amore, in uno stile dolce e armonioso, malinconico e mesto, espresso con un’accuratezza linguistica da grande poeta. Il pistoiese era capace di arrivare al cuore delle donne, di tutte le donne, tranne, evidentemente, a quello della donna bramata (succede sempre così!).
“La dolce vista e ‘l bel guardo soave
de’ più begli occhi che lucesser mai,
c’ho perduto, mi fa parer sì grave
la vita mia ch’i vo traendo guai”.
E ancora:
“Angel di Deo simiglia in ciascun atto
questa giovane bella
che m’ha con gli occhi suoi lo cor disfatto”.
Che tenerezza, poi, la canzone Oïmè lasso, quelle trezze bionde, composta quando l’amata Selvaggia morì. Le bionde trecce, gli occhi azzurri e poi… il viso, il suo sorriso, la morte s’era portata via tutto, pure le sue calzette rosse (W Mogol-Battisti!).
L’inutilità di mandare a memoria le poesie
Riflettendo su La pioggia nel pineto di Gabriele D’Annunzio, pensavo alla sostanziale inutilità di quella pratica, in voga quando io ero studente elementare, di far imparare a memoria le poesie più famose della Letteratura Italiana. Ecco quanto scrivevo, qualche anno fa, a proposito del mandare le cose a memoria, in una mia pubblicazione sulla Letteratura Italiana: “Che sia maledetto! (riferito a Carducci e alla sua San Martino). Mi ricordo, quando frequentavo la quarta elementare, di aver passato un pomeriggio ad imparare a memoria questa poesia, di essermi svegliato un’ora prima la mattina dopo per ripassarla e, nonostante ciò, davanti alla maestra, piansi perché non la ricordavo tutta. Ho sempre odiato dover imparare le cose a memoria. Che vantaggio c’è a conoscere il testo di una poesia senza poi riconoscerne e capirne i temi?” Per tornare al Vate ed a La pioggia nel pineto, qualcuno riesce a spiegarmi cosa può capirne un bambino dei “freschi pensieri/ che l’anima schiude/ novella,/ su la favola bella/ che ieri/ t’illuse, che oggi m’illude”, oppure, è in grado di sapere che si possa piangere anche di piacere? “Piove su le tue ciglia nere/ sì che par tu pianga/ ma di piacere”. E tantissimi altri esempi potrei addurre, non soltanto relativi a questa poesia. Ecco, allora, a cosa serve la memoria di una poesia se, poi, non se ne capisce il senso? Pensate che un poeta abbia appagamento a che i suoi versi siano mandati a memoria senza intenderne il significato? Non credo proprio!
L’Ulisse dantesco oggi
Dante Alighieri ha fornito alla storia della letteratura mondiale il ritratto meglio raffigurato di Ulisse, collocato, insieme con Diomene, del girone infernale dei consiglieri fraudolenti, nell’immortale capolavoro Divina Commedia. L’Ulisse dantesco vive per sottoporre continuamente se stesso a fatiche d’ingegno, un volontario Ercole d’intelletto più che di forza fisica, in costante misura col proprio vigore spirituale, così tanto da rinunciare alle gioie del ritorno per amore di “virtute e canoscenza”. Ulisse decide di varcare le Colonne d’Ercole, poste dal semidio per segnare il confine tra la civiltà e l’ignoto, quest’ultimo metafora, sin dall’antichità, anche di non conoscenza e, quindi, di ignoranza. Io e’ compagni eravam vecchi e tardi / quando venimmo a quella foce stretta / dov’Ercule segnò li suoi riguardi / acciò che l’uom più oltre non si metta (Inf., XXVI, 106-109). Un’ultima impresa, dunque, principiata in tarda età, una sorta di testamento-azione.
Ed ecco che il celeberrimo eroe diviene emblema dell’anelito, tipico dell’uomo in quanto essere pensante, di varcare i propri limiti, di raggiungere, parafrasando Aristotele, la perfezione dell’anima, pervenendo alla conoscenza assoluta. Tale conoscenza, però, appartiene soltanto alla divinità e, quindi, non è perseguibile dall’uomo, il quale può soltanto avvicinarsi alla sapienza (divenir del mondo esperto, Inf. XXVI, 98).
Nel mondo contemporaneo, i limiti dell’uomo sono molto mutati rispetto ai tempi di Dante, a causa dell’evoluzione del pensiero verso orizzonti liberamente, totalmente laici, e per il progresso tecnologico spintosi a tal punto avanti, osando la messa in discussione di quelle che fino a qualche decennio fa apparivano granitiche certezze. La figura di Ulisse, quindi, e il suo varcare le colonne d’Ercole, a livello simbolico, è adesso più pregnante che mai.
Se, dunque, l’Ulisse dantesco soccombe ai limiti imposti da Dio, con la tragica fine del suo ultimo viaggio, a quali pene e a quale destino deve prepararsi l’uomo che, oggi, intende percorrere il medesimo cammino? Riuscirà a varcare indenne le Colonne d’Ercole?