“Vedrà, vedrà. Qualcuno ogni tanto si perde. E non si può neanche telefonare e dire: mi sono perso al bar. Perché dentro, come punto di riferimento, non c’è neanche la capanna di Tarzan. Ma è questo il divertimento, no? Io non ci sono ancora stato ma la mia famiglia sì. È un capolavoro. Ci hanno messo quindici anni a costruirlo”. “Quindici anni?”. “Be, non so. Ma più o meno”…
La terribile ombra d’un invisibile Potere fluttua in mezzo a noi, benché non vista – e visita questo svariato mondo con incostante ala, come le brezze dell’estate che strisciano di fiore in fiore. Come raggi di luna che dietro una montagna fitta di pini scrosciano, visita con sguardo incostante il cuore e il volto di ogni uomo; come colori e armonie la sera, come nuvole disperse nel chiarore delle stelle, come il ricordo d’una musica fuggita, come qualcosa che per sua grazia possa essere cara, e tuttavia più cara per il suo mistero.
II
Spirito di bellezza, che consacri coi tuoi colori ogni pensiero e ogni forma umana su cui splendi – dove te ne sei andato? perché trascorri e lasci il nostro stato, questa oscura e vasta valle di lacrime, deserta e desolata? Chiedi perché per sempre il sole non tessa arcobaleni sul torrente, perché quello che appare, scolori e si dissolva, – perché paura e sogno e morte e nascita sulla giornata della terra gettino un’ombra tale, – e all’uomo venga dato tanto d’amore e d’odio, e di sconforto e di speranza?
III
Da mondi più sublimi nessuna voce ha mai dato ai poeti o ai saggi la risposta – perciò i nomi di Dio, dei demoni e del Cielo, non sono che tracce del loro vano sforzo, incanti fragili, che recitati non aiutano a staccare da tutto quello che sentiamo e vediamo il dubbio, il caso e la mutevolezza. Soltanto la tua luce – come una nebbia sopra i monti, o musica che il vento della notte manda attraverso uno strumento immoto, o il chiaro della luna sulle acque, dà grazia e verità al sogno inquieto della vita.
IV
Speranza, Amore, e Orgoglio, passano come nuvole e ritornano, per qualche incerto attimo concessi. L’uomo sarebbe immortale, e onnipotente, se tu, ignota e terribile, fissassi col tuo glorioso seguito dimora nel suo cuore. Tu messaggero degli affetti che crescono e declinano negli occhi degli amanti – tu – che alimenti il pensiero umano, come l’oscurità una fiamma morente! non ti partire come la tua ombra venne, non ti partire – o la tomba sarà come la vita e la paura, un’oscura realtà.
V
Fanciullo ancora, andavo in cerca di spettri e attraversavo fugace stanze vigili, rovine e anfratti, e boschi al chiarore delle stelle, con timorosi passi perseguendo speranze d’alto conversar coi morti. E invocavo i nomi velenosi che nutrono la nostra giovinezza; non fui ascoltato – non li vidi – quando, mentre ero assorto sul destino del vivere, nel dolce tempo in cui i venti corteggiano tutte le cose vive che si destano per recare nuove gemme e fiori, – all’improvviso, la tua ombra cadde sopra di me; io detti un grido, e giunsi le mani in rapimento!
VI
Allora feci il voto di consacrare le mie forze a te e a ciò che t’appartiene – non l’ho mantenuto? Con cuore palpitante e occhi in lacrime, adesso dai loro taciti sepolcri invoco i fantasmi di mille ore, che in pergolati chiari di visioni, d’ardente studio o dilettoso amore, hanno vegliato con me l’invida notte – e sanno che mai gioia illuminò questa mia fronte non giunta alla speranza che tu avresti liberato il mondo dalla sua oscura schiavitù che tu – terribile splendore, avresti dato ciò che la parola non può esprimere.
VII
Il giorno diventa più solenne e più sereno, trascorso il meriggio – c’è un’armonia in autunno, e una luce nel suo cielo, che nell’estate non si sente e non si vede, come se non potesse esserci, come se non ci fosse stata! Così il tuo potere, che come la verità della natura sulla mia inerte giovinezza discese, alla mia vita d’ora innanzi doni la sua calma – a uno che ti adora, e venera le forme in cui sei infuso, e che i tuoi incanti, spirito bello, spinsero a temere se stesso, e amare tutti gli uomini.
(Percy Bysshe Shelley, Inno alla bellezza intellettuale, 1816)
Sandro Botticelli, “La nascita di Venere” (1482-1485) tempera su tela di lino (172×278 cm), Firenze, Galleria degli Uffizi (video da www.restaurars.altervista.org)
(Un accenno di rilettura, in chiave poetico-letteraria, dell’attuale situazione greca)
Nella storia della letteratura mondiale vi è un capolavoro assoluto, scritto e pubblicato tra il 1797 e il 1799 da Johann Christian Friedrich Hölderlin (foto a sinistra). Un testo la cui tensione poetica non è inferiore a quella di opere di autori come Dante Alighieri e William Shakespeare, considerati, dai più, insuperabili. Si tratta di Iperione o l’eremita in Grecia (Hyperion oder der Eremit in Griechenland). In esso, è narrata la storia del giovane eponimo greco il quale, tornato nella sua terra e trovatavi una situazione sociale e politica catastrofica, scrive all’amico Bellarmino, rimasto in Germania, raccontandogli le sue esperienze. Iperione vive nella metà del XVIII secolo nella Grecia Meridionale, immerso nella natura, dove, introdotto dal saggio pedagogo Adamas al mondo eroico di Plutarco e a quello incantato delle divinità greche, si appassiona alle antichità del suo Paese. Più tardi, conosce Alabanda, unico a condividere le idee riguardo un progetto di liberazione della sua patria, pur non accettandone, tuttavia, la visione sul ruolo dello Stato. A Kalaurea, incontra, poi, Diotima, della quale finisce per innamorarsi e che, durante un viaggio, di fronte alle rovine di Atene, gli infonde la forza per tramutare i suoi ideali in azione. Il giovane, così, partecipa alla guerra di liberazione della Grecia dai turchi. Le battaglie, però, lo cambiano nel profondo: viene ferito gravemente, Alabanda è costretto a fuggire perché ricercato e una lettera gli annuncia la morte di Diotima, consunta dal dolore, avendolo creduto morto. Iperione vaga senza meta e senza piani. In Sicilia, alle pendici dell’Etna e, poi, in Germania. Decide, infine, di tornare in Grecia, dove vive in eremitaggio, riscoprendo, malinconicamente, quella bellezza della natura, nella quale, adesso, risuona la voce dell’amata Diotima. Riesce, così, a superare la tragicità della sua solitudine. La meravigliosa poesia di quest’opera insegna ad amare la Grecia, terra dal cui spirito e da quello del cui popolo, parafrasando un altro grande connazionale di Hölderlin, Georg Wilhelm Friedrich Hegel, è nata tutta la nostra civiltà occidentale. È chiaro come i tedeschi dell’XVIII-XIX secolo amassero tanto la Grecia. Perché, mi chiedo, non fanno lo stesso quelli di oggi, a cominciare dalla loro Cancelliera?
Nella storia della letteratura mondiale vi è un capolavoro assoluto, scritto in tedesco, nel 1797, da Johann Christian Friedrich Hölderlin (immagine a sinistra), un testo in cui la tensione poetica non è inferiore a quella di autori considerati insuperabili, come Dante Alighieri e William Shakespeare. Quest’opera è Hyperion oder der Eremit in Griechenland (Iperione o l’eremita in Grecia). In essa, è narrata la storia del giovane eponimo greco il quale, tornato nella sua terra e trovatavi una situazione politica catastrofica, scrive all’amico Bellarmino, rimasto in Germania, raccontandogli le sue esperienze. Iperione vive nella metà del XVIII secolo nella Grecia Meridionale, immerso nella natura, dove, introdotto dal saggio pedagogo Adamas al mondo eroico di Plutarco e a quello incantato delle divinità greche, si appassiona alle antichità del suo Paese. Più tardi, conosce Alabanda, unico a condividere i suoi ideali riguardo un progetto di liberazione della sua patria, pur non condividendone la visione sul ruolo dello Stato. Poi, l’incontro con Diotima, a Kalaurea, della quale finisce per innamorarsi e che durante un viaggio, di fronte alle rovine di Atene, gli infonde la forza per tramutare i suoi ideali in azione. Il giovane, così, partecipa alla guerra di liberazione della Grecia dai turchi. La lotta, però, lo cambia profondamente: viene ferito gravemente, Alabanda deve fuggire perché ricercato e una lettera gli annuncia la morte di Diotima, consunta dal dolore perché lo crede morto. Iperione comincia a vagare senza meta e senza scopo. In Sicilia, alle pendici dell’Etna e, poi, in Germania. Decide, infine, di tornare in Grecia, dove inizia una vita di eremitaggio, scoprendo, ancora una volta, la bellezza della natura, nella quale risuona la voce della sua amata Diotima. Riesce, così, a superare la tragicità della sua solitudine. La poesia di quest’opera insegna ad amare la Grecia, terra dal cui spirito e da quello del cui popolo, parafrasando un altro grande connazionale di Hölderlin, Georg Wilhelm Friedrich Hegel, è nata tutta la nostra civiltà occidentale.