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Il dilemma del solipsismo

La solitudine della coscienza e la sfida dell’intersoggettività

 

 

 

 

Il concetto di solipsismo, centrale nella riflessione filosofica, viene affrontato da diversi pensatori con sfumature e prospettive differenti, portando a sviluppi teorici che variano dal riconoscimento dell’altro fino alla negazione di una realtà condivisa.
Innanzi tutto, il solipsismo è una teoria filosofica che sostiene che l’unica realtà certa e conoscibile sia quella della propria mente. Secondo tale posizione, tutto ciò che esiste al di fuori della propria coscienza potrebbe essere illusorio o inaccessibile. In altre parole, non possiamo avere una conoscenza diretta del mondo esterno o delle menti altrui, ma solo delle nostre percezioni ed esperienze soggettive. Questa teoria pone domande profonde sulla natura della realtà, della conoscenza e della coscienza e porta a riflettere sui limiti della nostra capacità di comprendere l’esistenza oltre il nostro punto di vista individuale. Sebbene il solipsismo sia raramente adottato come una visione globale del mondo, viene spesso utilizzato come strumento filosofico per esplorare i confini della percezione e della conoscenza umana.
Cartesio si confronta con il problema del solipsismo all’interno del suo progetto di fondazione della conoscenza sulla certezza indubitabile. Il celebre Cogito ergo sum (Penso, dunque sono) costituisce il punto di partenza per Descartes, poiché l’esistenza del pensiero proprio è l’unica verità immediata e autoevidente a cui il soggetto può arrivare senza possibilità di errore. Tuttavia, Cartesio si scontra con il limite di questo principio: se l’esistenza del proprio pensiero può essere affermata con certezza, non altrettanto può dirsi dell’esistenza degli altri. Il pensiero altrui, infatti, non può essere conosciuto con la stessa immediatezza e chiarezza con cui il soggetto conosce il proprio. Questo conduce a un solipsismo problematico in Descartes: se la certezza dell’esistenza è legata alla sola auto-coscienza, l’esistenza degli altri non può essere dimostrata con lo stesso rigore. Nonostante Cartesio tenti di uscire da questo vicolo cieco attraverso l’affermazione dell’esistenza di Dio come garante della realtà del mondo esterno, il problema resta irrisolto. L’Io cartesiano rimane, in una certa misura, prigioniero della propria soggettività, poiché non può accedere all’esperienza altrui con lo stesso grado di evidenza. Di qui, la tentazione del solipsismo, che non viene completamente eliminata dal progetto cartesiano.
Friedrich Nietzsche, invece, porta il discorso sul solipsismo verso un estremo esistenzialista. Nella sua visione nichilista, il solipsismo non è solo una condizione filosofica ma diventa una realtà esistenziale. La “morte di Dio”, ossia la crisi dei valori tradizionali e la perdita di ogni fondamento metafisico, porta all’annullamento di ogni verità comune e condivisa. In questo contesto, il soggetto si ritrova solo con se stesso, senza più una rete di significati comuni che possa mediare il suo rapporto con gli altri o con il mondo. Nietzsche arriva a un solipsismo radicale, dove l’individuo è costretto a costruire la propria realtà in assenza di verità universali. La solidarietà umana e la possibilità di una comune intesa vengono distrutte, poiché l’esistenza si riduce a una lotta per l’affermazione della propria volontà e dei propri valori. Il solipsismo nietzschiano è dunque una condizione di isolamento assoluto, in cui l’unica certezza è il proprio esistere come volontà di potenza. Questo annullamento di ogni traccia di natura comune porta, secondo Nietzsche, alla rivolta contro qualsiasi idea di universalità e alla glorificazione di un individualismo estremo, in cui non esiste altro che l’autorealizzazione dell’individuo.


Edmund Husserl, fondatore della fenomenologia, ha elaborato una riflessione approfondita sul tema del solipsismo, rivedendolo in una chiave che potrei definire “solipsismo trascendentale”. Secondo Husserl, il solipsismo non va inteso come una negazione dell’esistenza degli altri, ma piuttosto come un punto di partenza necessario per comprendere l’intersoggettività. Nel suo metodo fenomenologico, il ritorno dell’Io su se stesso (la reductio fenomenologica) è un passo fondamentale per cogliere la struttura della coscienza e l’originaria relazione del soggetto con il mondo. Questo movimento di ritorno, però, non chiude l’Io in un’autoreferenzialità assoluta; al contrario, proprio nel momento in cui l’Io si riflette su di sé scopre che la sua esperienza è sempre relazionale e aperta agli altri. Husserl sostiene che l’altro è costitutivo della soggettività individuale. La consapevolezza della propria esistenza è inseparabile dal riconoscimento dell’esistenza degli altri e solo attraverso l’incontro con l’altro l’Io può completare la propria esperienza del mondo. In questo senso, l’intersoggettività non è una semplice aggiunta alla soggettività singola, ma la sua condizione di possibilità: senza la presenza di altri Io, l’individuo non potrebbe formare una coscienza autentica di sé stesso. Si supera così il solipsismo per arrivare a una forma di intersoggettività più profonda e autentica, che costituisce la base della comunità umana.
Il solipsismo, tuttavia, ha implicazioni non solo epistemologiche ma anche etiche: se non posso affermare con certezza l’esistenza degli altri, che ruolo gioca la relazione interpersonale nella mia vita? Questo problema è stato affrontato da vari filosofi, da Kant, che cerca di superare il solipsismo con il concetto di dovere morale, fino a filosofi esistenzialisti come Sartre, che cercano di risolvere la questione attraverso l’esperienza concreta del conflitto e dell’incontro con l’altro.
A breve, percorrerò, in un articolo dedicato, anche questa variante etica del solipsismo.

 

 

 

I postulati in filosofia

Fondamenti ineludibili del pensiero razionale e morale
da Aristotele a Kant

 

 

 

 

Il concetto di postulato riveste un ruolo fondamentale nel pensiero filosofico e scientifico, sebbene assuma significati diversi a seconda del contesto e dell’autore di riferimento. Nella riflessione filosofica, i postulati si configurano come assunzioni di base che, pur non essendo direttamente dimostrabili, sono necessarie per la costruzione di teorie e per la comprensione di alcune realtà che, altrimenti, rimarrebbero problematiche o inaccessibili.
Aristotele utilizza il termine postulato (in greco, aitêma) in riferimento ai princìpi che, pur non essendo dimostrabili, devono essere accettati come veri per poter spiegare determinati fenomeni o per fondare una teoria. Per Aristotele, i postulati sono premesse autoevidenti o che si accettano sulla base dell’esperienza e costituiscono il punto di partenza per l’indagine filosofica o scientifica. Nei suoi Analitici Secondi, il filosofo greco discute dei princìpi primi, ovvero quelle verità che non possono essere dimostrate a partire da altre premesse, ma che sono necessarie per poter formulare ulteriori dimostrazioni. Tra questi princìpi vi sono il principio di non contraddizione, che afferma che una proposizione non può essere vera e falsa allo stesso tempo ed è considerato uno dei postulati più basilari della logica aristotelica; il principio di identità, secondo cui ogni cosa è identica a se stessa (anche questo principio non è dimostrabile, ma viene accettato come evidente e necessario per la comprensione della realtà); il principio del terzo escluso, con il quale Aristotele afferma che, per ogni proposizione, o essa è vera, o il suo contrario è vero (questo principio è fondamentale per la logica e per il discorso scientifico, sebbene non possa essere dimostrato attraverso ulteriori ragionamenti). Per Aristotele, dunque, i postulati costituiscono le fondamenta stesse del pensiero razionale. Senza di essi, non sarebbe possibile alcuna dimostrazione scientifica o filosofica e devono essere accettati come veri, in quanto autoevidenti o comunque necessari per procedere nell’indagine della realtà.
Immanuel Kant, invece, introduce il concetto di postulato nell’ambito della sua filosofia pratica, in particolare nella Critica della ragion pratica. Secondo Kant, i postulati sono presupposti necessari, legati alle esigenze della moralità e della pratica, che permettono di ammettere ciò che la ragione teoretica non è in grado di dimostrare con certezza. In questo contesto, Kant afferma che esistono tre postulati fondamentali, che non possono essere provati dalla ragione pura, ossia dalla ragione teoretica e conoscitiva, ma devono essere accettati in quanto funzionali all’agire morale: l’immortalità dell’anima, secondo cui l’uomo deve poter presupporre l’immortalità dell’anima per giustificare la possibilità di una crescita morale infinita, un’idea che non può essere dimostrata ma che è necessaria per un sistema etico coerente; l’esistenza di Dio, postulato connesso alla necessità di una giustizia perfetta nell’universo morale (se Dio non esistesse, non vi sarebbe alcuna garanzia che la virtù e la felicità si congiungano necessariamente, il che renderebbe l’agire morale privo di una finalità ultima); la libertà, che è il presupposto dell’agire morale, senza il quale l’etica kantiana, basata sull’autonomia e sulla responsabilità dell’individuo, non avrebbe senso (anche se non è possibile dimostrare con certezza la libertà dell’uomo dal punto di vista teoretico, dobbiamo ammetterla come un presupposto pratico per giustificare la possibilità di un agire etico). Per Kant, dunque, i postulati sono strumenti attraverso cui la ragione pratica colma i limiti della ragione teoretica, permettendo di accettare l’esistenza di realtà come Dio, l’anima e la libertà. Questi non sono dimostrabili attraverso l’esperienza, ma sono indispensabili per giustificare la moralità e il senso della vita umana.
In un senso più generale, i postulati, sia in Aristotele che in Kant, svolgono una funzione epistemologica fondamentale: costituiscono le basi per giustificare altre realtà o tesi che, senza di essi, risulterebbero ingiustificabili. Che si tratti di princìpi logici e scientifici, come in Aristotele, o di presupposti morali, come in Kant, essi fungono da punti di partenza irrinunciabili per il pensiero umano. Pur non potendo essere dimostrati, non possono nemmeno essere negati senza compromettere l’intero sistema teoretico o pratico che ne dipende.
I postulati, pertanto, mettono in luce la necessità di accettare determinati princìpi non dimostrabili per poter sviluppare sistemi di pensiero coerenti e funzionali, svolgendo la funzione di presupposti ineludibili per la giustificazione di altre realtà o tesi, rappresentando, così, una componente essenziale del pensiero umano.

 

 

 

 

Falsificare per conoscere

Il metodo popperiano e la razionalità critica

 

 

 

 

Il principio di falsificabilità, proposto dal filosofo austriaco-britannico Karl Popper (1902-1994), costituisce uno dei contributi più ragguardevoli alla filosofia della scienza del XX secolo. Non si tratta solo di un criterio tecnico, quanto di una vera e propria visione della razionalità scientifica, del ruolo del dubbio e del modo in cui costruiamo conoscenza in un mondo complesso e incerto.
Popper elaborò il principio di falsificabilità nel periodo tra le due guerre mondiali, in un clima intellettuale dominato dal positivismo logico e da un crescente interesse per il metodo scientifico. I filosofi del Circolo di Vienna, ad esempio, cercavano di fondare la scienza su basi logiche e verificabili: secondo loro, solo le proposizioni empiricamente verificabili potevano essere considerate significative. Popper ruppe con questa impostazione. Criticò l’idea che la scienza si basasse sull’osservazione neutra e sull’induzione: nessuna quantità di osservazioni avrebbe mai potuto garantire definitivamente la verità di una teoria generale. Al contrario, anche un solo controesempio avrebbe potuto metterla in crisi. Da lì la sua proposta: una teoria è scientifica se è esposta al rischio di essere falsificata, cioè se fa previsioni che possono essere smentite dai dati. Questo criterio risponde al cosiddetto problema della demarcazione, ovvero la distinzione tra scienza e non-scienza. Non tutto ciò che appare “razionale” o “coerente” è scientifico. Una teoria può essere internamente logica ma non scientifica se non è esposta alla possibilità di essere confutata dai fatti.
Una teoria falsificabile è una teoria che esclude certi scenari: se questi scenari si verificano, la teoria cade. È, per così dire, una teoria “a rischio”. Questo non significa che la teoria sia falsa, ma che è aperta alla revisione. Più una teoria è audace nelle sue previsioni, più è testabile e, in caso positivo, più significativo sarà il fatto che ha superato le prove. Un esempio classico è la teoria gravitazionale di Newton. Essa prevede con precisione il moto dei pianeti, la caduta dei corpi, il comportamento dei pendoli, ecc. Se un oggetto lasciato cadere in assenza di resistenze non accelerasse verso il centro della Terra, la teoria risulterebbe falsificata. Lo stesso vale per la teoria della relatività generale di Einstein, che si espone a verifiche rigorose e proprio per questo gode di grande credibilità. Al contrario, teorie come l’astrologia o certe interpretazioni della psicoanalisi sono troppo vaghe o elastiche per essere falsificate. Ogni evento può essere reinterpretato per farlo rientrare nel sistema. Questo atteggiamento – spiega il filosofo – è più simile alla fede che alla scienza.

Popper descrive il metodo scientifico come un processo di congetture e confutazioni: gli scienziati propongono teorie (congetture) e le sottopongono a test rigorosi. Se le teorie resistono, vengono mantenute; se falliscono, vengono scartate o modificate. Questo metodo non porta mai alla verità assoluta ma a una conoscenza sempre più raffinata e affidabile. Secondo Popper, la scienza non cerca conferme ma errori. Un buon scienziato è colui che cerca di falsificare le proprie ipotesi, non di confermarle a tutti i costi. In questo senso, la scienza è un’impresa umile: riconosce i propri limiti e costruisce il sapere passo dopo passo, attraverso l’errore.
Il principio di falsificabilità ha anche una forte valenza culturale. Propone un modello di razionalità aperto, critico, antidogmatico. L’idea che nessuna teoria sia sacra, che tutto possa essere messo in discussione, è alla base non solo della scienza moderna ma di un certo modo di intendere la democrazia, il pluralismo e la libertà di pensiero. Per Popper, la società aperta è quella che adotta lo stesso atteggiamento della scienza: è disposta a rivedere le proprie idee, a correggere gli errori, a convivere con l’incertezza. In questo senso, il principio di falsificabilità va ben oltre la scienza: diventa un’etica della responsabilità intellettuale.
Nonostante la sua influenza, il falsificazionismo di Popper è stato oggetto di critiche. Thomas Kuhn, nel suo libro La struttura delle rivoluzioni scientifiche (1962), osservò che nella pratica gli scienziati non abbandonano subito una teoria quando emergono anomalie. Spesso, anzi, le “falsificazioni” vengono ignorate, attribuite a errori sperimentali o affrontate modificando elementi secondari della teoria. Imre Lakatos, allievo di Popper, cercò un compromesso: distinse tra programmi di ricerca scientifici progressivi e degenerativi, proponendo un modello più dinamico della scienza. Anche Paul Feyerabend criticò l’idea di un metodo scientifico unico, sostenendo che la scienza fosse più anarchica e creativa di quanto Popper descrivesse. Tuttavia, la proposta popperiana rimane un punto di riferimento imprescindibile: non come dogma, ma come invito permanente alla vigilanza critica.
Il principio di falsificabilità, pertanto, è molto più di un criterio tecnico per giudicare le teorie: è una filosofia della conoscenza. In un’epoca in cui le informazioni circolano ovunque e spesso si confonde l’opinione con il sapere, il pensiero di Popper rammenta che il vero spirito scientifico non è quello che cerca conferme, ma quello che accetta il rischio del dubbio. La scienza non è una raccolta di certezze ma un processo continuo di revisione, correzione e miglioramento. E questo vale anche fuori dai laboratori: nel pensiero critico, nel confronto democratico, nella cultura della responsabilità.