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Il Fedro di Platone

L’anima ricorda e vola

 

 

 

Il Fedro, dialogo sublime di Platone, presumibilmente composto nel 370 a.C., si erge come una maestosa colonna nell’atrio del tempio della filosofia antica, intrecciando, con sapiente ardire, pensiero filosofico, religioso e mitologico. Tra le sue pagine, come in un giardino di allori divini, si passeggia fra discorsi sull’amore, sulla conoscenza e sull’arte retorica.
Platone vi dipana la trama dell’eros, il desiderio d’amore che muove l’anima verso il bello assoluto. Con slancio poetico, il filosofo eleva questo sentimento dal terreno fisico a quello delle Idee pure, dove l’amore si trasfigura in veicolo di ascensione filosofica. Questa visione è intimamente connessa alla teoria platonica delle Idee, secondo cui la conoscenza vera si raggiunge contemplando tali forme pure, accessibili solamente attraverso un processo di reminiscenza intellettuale. Questo processo, tema caro alla dottrina platonica, qui si colora di toni mistici: il ricordo delle verità eterne diventa un rito di passaggio, una rinascita dello spirito che ascende al cielo delle idee immutabili e può essere interpretato anche come un ritorno all’origine divina dell’anima, una sorta di pellegrinaggio spirituale verso la purificazione e l’illuminazione.
Il dialogo insinua l’idea che l’anima umana possa essere migliorata e redenta attraverso il potere dell’eros filosofico, che spinge l’individuo a una comprensione più profonda della realtà e della propria natura spirituale. Questo processo di ascesa è intricatamente legato al concetto di dialettica, un metodo di questionamento e argomentazione che Socrate, personaggio del dialogo, utilizza per guidare il suo interlocutore verso la verità, innalzando l’intelletto di questi dalla conoscenza sensibile a quella intellegibile.
Il Fedro è impregnato anche di riferimenti e simbolismi religiosi, che richiamano le credenze e le pratiche cultuali dell’antica Grecia. La preghiera iniziale a Pan e alle Naiadi serve sì da omaggio formale alle divinità, ma stabilisce altresì un contesto in cui il discorso può essere visto come un’offerta spirituale. Inoltre, il concetto di anima che Platone sviluppa riflette la visione religiosa greca dell’immortalità e della metempsicosi, ovvero la trasmigrazione delle anime.
Il mito della biga alata è forse l’immagine più potente e incisiva del dialogo. Questa allegoria riferisce di un auriga divino che guida due cavalli: uno nobile e l’altro ribelle, simbolo del conflitto interno tra ragione e desiderio, mentre l’auriga rappresenta l’elemento spirituale, il logistikon, che deve controllare i cavalli per mantenere la biga sulla giusta strada verso il cielo delle Idee, l’Iperuranio. La narrazione incanta per la sua vivida carica immaginifica e si spinge oltre, fungendo da metafora del viaggio dell’anima verso la conoscenza e la divinità. Il mito, così, non è semplice racconto ma epifania filosofica, che svela l’incessante lotta dell’essere per raggiungere l’armonia celeste. Tale mito sottolinea anche la tensione tra il destino divino dell’anima e le sue inclinazioni terrene. La biga alata, infatti, simboleggia il viaggio ascensionale dell’anima verso il divino, sforzandosi di superare l’attrazione gravitazionale delle passioni basse per ritornare alla sfera delle forme pure.


Nel Fedro, Platone non esplora solo tematiche filosofiche e mitologiche profonde, ma si immerge anche nella natura e nel valore dell’arte retorica. Attraverso il dialogo tra Socrate e Fedro, il filosofo ateniese critica le pratiche retoriche a lui coeve, spesso vuote e manipolative, proponendo un modello di retorica basato sulla verità e sulla giusta conoscenza. Due concetti fondamentali in questo contesto sono la synopsis e la dihairesis, ovvero la visione d’insieme e l’arte di dividere correttamente i concetti.
La synopsis rappresenta la capacità di vedere l’argomento nella sua interezza, di comprendere il quadro generale prima di procedere con un’analisi dettagliata. Per Platone è essenziale, perché permette all’oratore di non perdere di vista il contesto più ampio in cui si inserisce il discorso. Una vera comprensione degli argomenti richiede una visione olistica che colleghi le parti al tutto, assicurando che ogni pezzo del discorso sia allineato con il principio guida o la verità fondamentale che si vuol comunicare. La synopsis aiuta a evitare manipolazioni e sofismi, promuovendo una retorica persuasiva, eticamente fondata e intellettualmente rigorosa. La diairesis, invece, è il processo di suddivisione accurata di un argomento in categorie e sottocategorie, che permette di trattare ogni parte con precisione e dettaglio. Questa tecnica è cruciale per affrontare qualsiasi tema complesso, poiché organizza il materiale in modo che ogni elemento sia esaminato secondo criteri chiari e razionali. Nel dialogo, Platone usa la diairesis per distinguere tra diverse forme di amore, evidenziando come una vera comprensione dell’eros non possa prescindere dalla capacità di discernere i suoi aspetti nobili da quelli bassi. Analogamente, una retorica efficace deve poter identificare e isolare i diversi aspetti di un argomento per trattarli con la specificità che meritano. La combinazione di synopsis e diairesis forma la base di ciò che Platone considera l’arte della vera retorica: una disciplina che persuade, educa e migliora chi ascolta. Tale approccio eleva la retorica da semplice tecnica di persuasione a strumento di verità e giustizia, facendo dell’oratore non un mero istigatore, ma un maestro, un guidatore di anime. In questo modo, la retorica acquisisce un valore etico ed epistemologico: da arte di parlare bene, ad arte di pensare e agire correttamente.
Il Fedro, velo iridescente di parole e concetti, dove il filosofico, il religioso e il mitico danzano in un balletto celestiale, non è solo un trattato sull’amore o un manuale di retorica, ma un viaggio dell’anima che, tra le spirali dell’ascensione spirituale e i vortici del discorso logico, cerca di raggiungere la verità ultima. Lettura indispensabile per chi anela a comprendere non solo Platone ma la natura stessa del pensiero umano, rimane una stella polare nel firmamento della letteratura filosofica, guidando gli “astronauti del pensiero” attraverso i cieli tumultuosi della vita verso ciò che è al di là del cielo, l’Iperuranio della saggezza eterna.

 

 

 

Aspetta che arrivi il mio corpo per farti donna.
Aspetta che arrivi il mio dio per farti madre!

 

 

 

Desidero invitarvi a una riflessione, un po’ lunga ma valevole, spero, di lettura. Mi sono sempre accostato ai racconti della Bibbia, Vecchio e Nuovo Testamento, col medesimo distacco e la stessa curiosità intellettuale che manifesto verso altre “mitologie”, da quella greca a quella cinese, da quella egizia a quella degli indiani d’America. Nello specifico della “mitologia” cristiana”, è chiaro come l’impianto dottrinale del Cristianesimo, così come stabilito dai Padri della Chiesa, Agostino in primis, ma anche Origene, Ireneo e altri, sia essenzialmente platonico-neoplatonico. Chi si intende anche poco di filosofia sa esattamente di cosa parlo. Un esempio su tutti: il dogma della Trinità cristiana (Padre, Figlio e Spirito Santo) altro non è che la teoria delle tre ipostasi (Uno, Intelletto e Anima) di Plotino e potrei continuare così con altri esempi.
C’è un “racconto” nella religione cristiana che mi affascina, che amo, come amo il mito di Orfeo ed Euridice o le narrazioni della dea egizia Hathor: quello della madonna. Mi affascina e lo amo perché vi vedo la più meravigliosa celebrazione della donna e della donna-madre che sia mai stata elaborata nella storia del pensiero umano. Dal concepimento per intervento divino, e non per lo sfregamento del budello maschile (aspetta che arrivi il mio corpo per farti donna, aspetta che arrivi il mio dio per farti madre), fino all’assunzione in cielo, che la eleva al di sopra di tutte le creature viventi. La madonna, una donna “mortale”, che partorisce il dio che ha creato il mondo e anche lei medesima (Dante lo ha espresso benissimo: “tu sei colei che l’umana natura/ nobilitasti sì, che il suo fattore/ non disdegnò di farsi sua fattura”, Par. XXXIII, 4-6). La “mitologia” cristiana, attraverso la madonna, ha così reso poesia ciò che nella realtà pochissimi maschi riescono a comprendere e, ancor peggio, ahimè, molte donne stesse non ne sono capaci.
Ho sempre sostenuto e scritto che ogni donna sia il mondo e che nel cuore di ciascuna vi sia la storia del mondo. La donna-madre, invece, è l’Universo, è la Dea sive Natura. Credo fermamente nel principio femminile di creazione della realtà, che vogliate chiamarlo Dea-madre, femminino sacro, matriarcato, eccetera.
Cos’è una divinità creatrice se non la donna che partorisce la realtà così come partorisce un figlio? Quale occasione ha il maschio di prendere parte alla creazione, divenendo dio egli stesso, se non nell’atto sessuale del concepimento? Il sesso è lo spirito della divinità che si umanizza materializzandosi. Afrodite Pandemia per il maschio, Afrodite Urania è la donna, per dirla con Platone.
La donna-madre rende tutto un unicum, ecco perché il mio appellativo di derivazione spinoziana Dea sive Natura, Dea che è la Natura, il Mondo, l’Universo creato.
La donna-madre deifica il maschio, deifica la creatura che partorisce, deifica l’esistente.
Alla fine, c’è chi crede in dio, nel dio dei preti. Lasciate, dunque, che io creda in questa donna, che, forse, esiste soltanto nella mia mente e nel mio desiderio!

 

 

 

 

Aiace Telamonio e l’uomo che trionfa sul destino

 

 

Tra gli eroi della mitologia classica che amo maggiormente c’è Aiace Telamonio. Sentite la storia della sua fine e capirete perché.

Siamo a Troia, sul campo di battaglia. Aiace si prepara a contrattaccare i Troiani, allorché, guidati dalla regina Pentesilea e dalle Amazzoni, avanzano sul campo di battaglia, riempiendo la pianura di cadaveri. Sfiorato da un dardo di Pentesilea, che gli scalfisce appena l’elmo, l’eroe rinuncia a scontrarsi con la donna. Achille, dopo aver ucciso Ettore in duello, per vendicare Patroclo, cade per mano di Paride. Aiace e Odisseo combattono, quindi, contro i troiani per strappare loro il corpo dell’eroe ucciso. Aiace, roteando la sua immensa ascia, si occupa di tenere lontani i troiani, mentre Odisseo carica Achille sul suo carro e lo porta via. Durante questa battaglia, Aiace compie sanguinosi prodigi, massacrando Glauco, figlio di Ippoloco e sovrano licio, e ferendo gravemente Enea e Paride. Dopo la cerimonia funebre, entrambi gli eroi reclamano il diritto di tenere per sé le armi di Achille, come riconoscimento del loro valore. Alla fine, dopo alcune discussioni, è Odisseo a spuntarla e Aiace, accecato dal dolore, decide di vendicarsi dei responsabili del verdetto. Agamennone e Menelao. Si addormenta e al suo risveglio, impazzito a causa di un incantesimo lanciatogli dalla dea  Atena, si lancia contro un gregge di pecore e le massacra, credendo di uccidere i due Atridi. Rientrato in sé, si vede coperto di sangue, rendendosi conto di che cosa abbia in realtà fatto: perduto in questo modo l’onore, preferisce suicidarsi piuttosto che continuare a vivere nella vergogna, lanciandosi sulla spada che Ettore gli aveva donato alla fine del loro duello.

La storia di Aiace diviene, nella mia interpretazione, metafora dell’esistenza di tutti quegli esseri umani derisi dalle “circostanze della vita”. La derisione figura gli impedimenti, di natura esterna, all’agire come esso vorrebbe. Ecco il motivo per il quale amo questo eroe: ciascun uomo ha il dovere di abbandonare la vita quando è impossibilitato a realizzare quello che desidera!
Una istigazione al facile suicidio? Forse. Certo è che la decisione di abbandonare volontariamente la vita rappresenta l’unico colpo in canna che l’uomo possiede per sconfiggere e trionfare sul destino avverso!

 

 

 

 

 

Orfeo ed Euridice. Nessuna morale, solo dolore!

 

 

 

Orfeo si girò troppo presto perchè Euridice continuava a chiamarlo. La naiade non sapeva dell’ordine che l’aedo aveva ricevuto da Ade: poterla riportare nel mondo dei vivi dopo l’anabasi dagl’Inferi, accompagnati dal dio Hermes, il controllore, senza mai potersi girare a guardarla prima dell’uscita. Continuava malinconicamente a chiamarlo. Pensava che il suo amato non si voltasse perché era brutta. Appena vide finalmente la luce, Orfeo credette di essere ormai fuori dagl’Inferi e si girò. La caviglia di Euridice, quella morsa a morte dal serpente mentre fuggiva dal bruto Aristeo che voleva possederla, le doleva ancora. Per questo si era attardata. Orfeo aveva trasgredito il comando di Ade. Si disperò. Euridice intese tutto e gli sussurrò parole struggenti: “Grazie, amore mio. Hai fatto tutto quello che potevi per salvarmi!”. Gli tenne entrambe le mani, consapevole che quella sarebbe stata l’ultima volta. Hermes pianse, ma dovette riportarla da Ade. Euridice scomparve negl’Inferi. Orfeo era distrutto. Sarebbe morto poco dopo, fatto a pezzi da alcune baccanti ubriache alle quali, per rimanere fedele alla memoria dell’amata, non aveva voluto concedersi.
La favola di Orfeo ed Euridice non è didascalica. Non ha alcuna morale, solo dolore. Solo dolore!