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Il Flauto Magico

L’opera suprema di Mozart tra mistero, arte
e simbolismo massonico

 

 

 

 

Il Flauto Magico (Die Zauberflöte), composto nel 1791 da Wolfgang Amadeus Mozart su libretto di Emanuel Schikaneder, è una delle opere più celebri e complesse della storia della musica. Rappresentato per la prima volta il 30 settembre 1791, al Theater auf der Wieden di Vienna, questo singspiel (opera con dialoghi parlati e numeri musicali) fonde elementi di commedia popolare, allegoria morale e profondi riferimenti esoterici e massonici. È un’opera che si presta a molteplici livelli di lettura, offrendo sia una narrazione avvincente che una riflessione filosofica sull’umanità e sul progresso spirituale.
L’idea de Il Flauto Magico nacque dalla collaborazione tra Mozart e Schikaneder, impresario teatrale e attore, nonché massone come Mozart. Schikaneder aveva concepito l’opera come uno spettacolo popolare, capace di attirare un vasto pubblico, grazie al suo carattere leggero e accessibile, e, al tempo stesso, di veicolare i princìpi morali e filosofici dell’Illuminismo.
La stesura del libretto subì influenze sia dalla tradizione fiabesca tedesca, in particolare da opere come Lulu, oder die Zauberflöte di August Jacob Liebeskind, sia dal pensiero massonico e dalle correnti esoteriche diffuse nella Vienna del XVIII secolo. Mozart lavorò alla musica durante la primavera e l’estate del 1791, parallelamente alla composizione del Requiem. Questo periodo fu per il compositore carico di tensioni, ma anche di straordinaria creatività: nonostante i problemi finanziari e la salute precaria, Mozart portò avanti il progetto con dedizione, creando un’opera che sintetizza elementi popolari e complessi in una struttura musicale impeccabile.

La trama de Il Flauto Magico è un intreccio di componenti fiabesche, allegorie morali e simboli massonici. L’opera, ambientata in un immaginario antico Egitto, si apre con il principe Tamino, inseguito da un serpente e salvato da tre misteriose dame al servizio della Regina della Notte. Quest’ultima, incarica Tamino di salvare sua figlia, Pamina, tenuta prigioniera dal misterioso Sarastro. Accompagnato dal buffo uccellatore Papageno, Tamino intraprende un viaggio ricco di prove e rivelazioni. Tuttavia, le sue certezze iniziali vengono messe in discussione: Sarastro si rivela un saggio e benevolo sacerdote, mentre la Regina della Notte incarna l’oscurità e il caos. Attraverso prove di coraggio, silenzio e purezza d’animo, Tamino e Pamina dimostrano la loro virtù e ottengono l’ammissione alla comunità illuminata di Sarastro. L’opera culmina con la sconfitta della Regina della Notte e il trionfo della luce e della ragione.
Mozart percorre un’ampia gamma di stili musicali ne Il Flauto Magico, alternando momenti di leggerezza a sezioni di profonda solennità. L’ouverture, in tonalità di Mi bemolle maggiore, è un esempio di equilibrio perfetto tra contrappunto e forma sonata. I momenti salienti dell’opera includono le arie della Regina della Notte, tra cui la celeberrima Der Hölle Rache kocht in meinem Herzen, celebre per la difficoltà tecnica e la capacità di esprimere l’ira e la determinazione del personaggio; i cori di Sarastro, come O Isis und Osiris, che si distinguono per la loro atmosfera sacrale, sottolineando la dimensione trascendente del personaggio e della comunità che rappresenta; i duetti tra Papageno e Papagena, che aggiungono un tono giocoso e scanzonato, celebrando la semplicità della vita quotidiana e il desiderio umano di amore e compagnia. Ogni personaggio è caratterizzato musicalmente con grande finezza: mentre Tamino è associato a melodie nobili e idealistiche, Papageno ha un linguaggio musicale più semplice e orecchiabile, vicino al folklore.
L’intero Flauto Magico è impregnato di simbolismo massonico. L’opera si basa su princìpi fondamentali della tradizione massonica, come la ricerca della verità, l’elevazione spirituale e il dualismo tra luce e oscurità. Alcuni esempi significativi: il numero tre, ricorrente in tutta l’opera, è un simbolo fondamentale nella simbologia massonica (i tre accordi iniziali dell’ouverture, le tre dame, i tre geni e le tre prove sono tutti riferimenti a questo numero sacro); le prove iniziatiche di Tamino e Pamina rispecchiano i rituali massonici, in cui il neofita deve dimostrare il proprio valore per essere ammesso alla conoscenza e alla saggezza; la dualità luce-oscurità, incarnata da Sarastro e dalla Regina della Notte, rappresenta il conflitto eterno tra ignoranza e conoscenza, passione e razionalità; il flauto magico stesso, simbolo di armonia e potere spirituale, può essere visto come un riferimento alla musica quale strumento di elevazione dell’anima.
Il Flauto Magico non è soltanto un’opera lirica: è un’opera filosofica, un’allegoria morale e una celebrazione dell’ideale illuministico. Mozart riesce a creare un’opera che parla a pubblici diversi: è una fiaba avvincente per chi cerca intrattenimento, un dramma simbolico per chi desidera una riflessione più profonda e un capolavoro musicale per gli appassionati di musica. L’opera è altresì un manifesto dell’Illuminismo, celebrando valori come la razionalità, la giustizia e l’amore universale. La sua popolarità e il suo fascino senza tempo continuano a renderla una delle opere più rappresentate al mondo, una testimonianza dell’inesauribile genialità di Mozart.

 

 

 

 

 

Something

Quel qualcosa che sfugge

 

 

 

 

Something, pubblicata in UK il 31 ottobre del 1969, è una confessione intima, una finestra aperta sul cuore di George Harrison, molto più di una semplice canzone d’amore. In quei 3 minuti sospesi, Harrison dipinge il ritratto di un’emozione che non si lascia mai del tutto afferrare. Something cattura la delicatezza di un amore fatto di incertezze, di attese. È un inno a ciò che non può essere espresso con parole, a quel “qualcosa” che sfugge, persino quando sembra di tenerlo stretto tra le dita.
Quando Harrison canta “Something in the way she moves, attracts me like no other lover”, non sta raccontando solo una storia d’amore. Sta parlando del mistero stesso del sentimento, del modo in cui l’amore riesce a evocare il desiderio e la nostalgia, come il riflesso della luna sull’acqua. La musa ispiratrice, Pattie Boyd, sua moglie all’epoca, è una rappresentazione dell’eterno femminino, del fascino inafferrabile che Harrison non tenta nemmeno di definire. La sua bellezza è un’ombra danzante, una presenza che non si lascia rinchiudere nelle parole, eppure domina ogni nota, come un’eco che risuona nel vuoto.
Musicalmente, la composizione di Something è un capolavoro di equilibrio e armonia. Harrison si allontana dalle sperimentazioni ardite dei Beatles per abbracciare una struttura semplice ma perfetta, quasi come una preghiera recitata a bassa voce. Gli accordi di apertura, in tono maggiore, portano una dolcezza che sfiora la perfezione, mentre le variazioni minori suggeriscono un mesto retrogusto che accompagna ogni parola. L’uso sapiente della chitarra, il timbro leggero e vibrante, fa sì che ogni nota risuoni come una goccia d’acqua che cade su una superficie ferma, creando poi cerchi che si allargano verso l’infinito.
La melodia è un continuo avvicinamento e allontanamento, come un respiro trattenuto, una confessione mai completamente svelata. Le orchestrazioni, dolci e discrete, circondano la voce di Harrison senza mai sovrastarla, lasciando che ogni pausa, ogni sospensione, sia carica di significato. La musica stessa diventa una danza fragile, un tentativo di avvicinarsi a quel “qualcosa” senza mai sfiorarlo davvero.

Dietro la composizione, però, si nasconde una storia di vulnerabilità e desiderio irrisolto. Harrison, spesso descritto come il Beatle “silenzioso”, in Something lascia emergere una parte di sé che raramente si è concessa. Pattie Boyd è l’ispirazione, ma anche l’incarnazione di una bellezza sfuggente, quasi sovrumana. Lei, come il loro amore, diventa un simbolo della tensione tra il desiderio e la malinconia, tra il possesso e l’inevitabile perdita. Pattie rappresenta un amore che non può essere completamente vissuto, che sfugge, che svanisce. È il riflesso di un ideale che si dissolve appena ci si avvicina troppo.
È impossibile ascoltare Something senza percepire il conflitto interiore di Harrison, la sua consapevolezza che ciò che ama è destinato a restare un mistero. C’è una tristezza soave nelle sue parole, una rassegnazione davanti all’idea che certe bellezze non possono essere trattenute, solo osservate da lontano. La canzone si trasforma così in un atto di adorazione silenziosa, una resa alla meraviglia di un sentimento che non si può comprendere né possedere.
In Something, la musica diventa un ponte tra il finito e l’infinito, un filo invisibile che unisce ciò che è umano a ciò che è ineffabile. Ogni nota, ogni pausa sembra voler dire: “Non capirò mai del tutto ciò che amo, ma è proprio in questa incomprensibilità che risiede la sua compiutezza”. È una malinconia che non chiede consolazione, una bellezza che accetta il proprio destino di essere incompleta, ma proprio per questo, eterna.
Alla fine, Something è un pezzo d’arte che va oltre la sua stessa musica. È un tributo alla forza delle emozioni, alla vulnerabilità dell’amore, all’incapacità di afferrare il “qualcosa” che si ama di più. E in questo risiede la sua grandezza: nel suo saper rendere universale il personale, nel trasformare l’esperienza intima di un uomo in un’ode all’amore universale, a tutto ciò che non si può spiegare, ma solo sentire.

Ascolta Something

 

 

 

 

Il grido graffiante di una stella cadente

Ricordo di Janis Joplin

 

 

 

 

Janis Joplin, una voce venuta da un mondo che sembrava non essere il suo. Una voce graffiante, che portava con sé il peso di una vita troppo breve, troppo intensa. C’era una malinconia palpabile in ogni sua nota, un’urgenza di esprimere qualcosa che forse nemmeno lei riusciva a comprendere del tutto. Sul palco era travolgente, come se la musica fosse l’unico linguaggio in cui riuscisse a sentirsi veramente viva. Ogni sua esibizione era una confessione, una ferita aperta che mostrava al pubblico, senza filtri, come se non ci fosse altro modo di essere.
Era una ribelle, certo, ma anche una donna fragile, persa tra le contraddizioni della fama e della solitudine. Cresciuta in una cittadina del Texas, sembrava destinata a essere sempre un’outsider. Il blues, il rock, la sua voce piena di graffi e lacrime erano lo specchio del suo dolore interiore, della ricerca disperata di un posto nel mondo che non riusciva a trovare. Quando cantava Piece of My Heart, sembrava davvero che ogni volta stesse donando un pezzo di sé a chi l’ascoltava.

La sua carriera è stata breve, ma bruciò con la potenza di una stella cadente. Con la Big Brother and the Holding Company aveva dato vita a un suono nuovo, crudo, che mescolava psichedelia e blues, ma è stata la sua voce a renderla unico. Cheap Thrills divenne presto un album simbolo di un’epoca, e Janis la sacerdotessa di una generazione disillusa e in cerca di sé stessa.
Eppure, dietro l’energia esplosiva sul palco, c’era una ragazza che cercava amore in un mondo che non sapeva come darlo. Il suo stile unico, fatto di piume, vestiti colorati e stivali consumati, era quasi una maschera, una corazza per proteggersi dalle insicurezze profonde che la tormentavano. Il successo non la salvò mai dai suoi demoni: alcol, droghe e la sensazione di non essere mai abbastanza. Quello che restava era la sua musica, come un grido disperato, come l’ultimo tentativo di farsi ascoltare davvero.
Janis se n’è andata troppo presto, nel 1970, a 27 anni. La sua morte lasciò un vuoto profondo, un silenzio assordante per chi aveva sentito il potere della sua voce. Ma il suo ricordo è rimasto, incastonato in quelle canzoni che ancora oggi suonano come il lamento di un’anima libera, ma spezzata. Quando penso a Janis Joplin mi tornano sempre in mente le parole di una canzone di Kris Kristofferson, da lei interpretata: Freedom’s just another word for nothing left to lose. E mi rendo conto che, forse, è stato proprio questo il suo destino.

 

 

 

 

La musica di fra Giovanni da Verona:

tra preghiere e canti alla Madonna

 

 

di Carmela Puntillo

 

 

Una cortina scarsamente penetrabile rende purtroppo ardua la ricostruzione della biografia e della formazione di fra Giovanni, nato a Verona intorno al 1457 e qui sicuramente morto nel 1525. I suoi spostamenti fisici, i suoi incarichi come religioso e le sue commissioni come intarsiatore, intagliatore ed architetto si evincono soprattutto dalle Familiarum Tabulae, registri conservati nell’archivio dell’archicenobio di Monte Oliveto Maggiore contenenti i nominativi degli olivetani presenti annualmente nei monasteri della congregazione…

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Il battito inarrestabile che ha scolpito il suono del rock

John Henry Bonham

(25 settembre 1980)

 

 

 

John Henry Bonham, conosciuto anche come “Bonzo”, è stato uno dei batteristi più influenti e rivoluzionari nella storia del rock, grazie soprattutto alla sua militanza nei Led Zeppelin. Nato il 31 maggio 1948 a Redditch, Inghilterra, sviluppò un interesse precoce per la batteria, affinando il suo talento suonando con vari gruppi locali prima di entrare a far parte dei Led Zeppelin, nel 1968.
Il suo stile distintivo si basava su una combinazione unica di potenza, velocità, precisione e creatività, caratteristiche che gli hanno permesso di ridefinire il ruolo della batteria nel rock. Bonham era noto per i suoi ritmi forti e complessi, capaci di spaziare da groove essenziali a strutture più intricate, spesso influenzate dal blues, dal jazz e dal funk. Aveva una padronanza unica delle dinamiche e della tecnica del single-stroke roll, che eseguiva con una forza sorprendente e con la stessa agilità che altri batteristi riservavano a stili più leggeri.
Tra i suoi marchi di fabbrica ci sono la doppia cassa suonata con un singolo pedale, con cui riusciva a riprodurre potenti e veloci pattern di cassa, una tecnica che rimane impressionante ancora oggi; l’uso creativo del tempo, perché amava giocare con tempi dispari e variazioni ritmiche, un tratto evidente in canzoni come Kashmir e The Ocean; il feeling spontaneo, nonostante la sua tecnica impeccabile, da un batterista istintivo, che preferiva suonare “sentendo” la musica piuttosto che attenendosi rigorosamente a partiture.
Quando si unì ai Led Zeppelin, la sua potente batteria divenne una delle colonne portanti del loro sound. Il suo stile travolgente si fondeva alla perfezione con i riff di chitarra di Jimmy Page e il basso di John Paul Jones, contribuendo a creare il suono esplosivo e innovativo per cui la band è ancora oggi famosa.


Alcuni dei momenti più iconici della sua carriera con i Led Zeppelin includono Good times bad times, il brano di apertura dell’album di debutto del 1969, che mette immediatamente in mostra il suo talento, con la velocità delle sue battute sul pedale singolo della cassa; Moby Dick, uno dei suoi assoli di batteria più celebri, in cui mostra tutta la sua forza e inventiva, spesso prolungando l’esibizione live fino a più di 20 minuti; When the levee breaks, dove la sua batteria è quasi ipnotica, con un groove possente che è stato campionato innumerevoli volte da artisti di diversi generi.
John Bonham ha avuto un impatto incancellabile sul mondo della musica. Il suo approccio potente e innovativo alla batteria ha condizionato generazioni di batteristi, dai musicisti rock agli artisti di generi più moderni. Bonham è celebrato per aver dimostrato che la batteria, oltre a fornire il ritmo, può essere uno strumento melodico e dinamico, in grado di guidare e definire il suono di una band.
La sua tragica morte, il 25 settembre 1980, a soli 32 anni, segnò la fine dei Led Zeppelin, poiché i membri della band dichiararono che nessun altro batterista avrebbe potuto prendere il suo posto. Tuttavia, la sua eredità continua a vivere attraverso la musica della band e l’influenza che ha avuto su batteristi di tutto il mondo. Bonham non era solo un batterista virtuoso, ma un vero visionario che ha ampliato le possibilità del suo strumento, lasciando un segno indelebile nella storia del rock.

John Henry Bonham’s “Moby Dick” 

 

 

 

La fida ninfa: letteratura, musica e scenografia
per un grande capolavoro

 

 

di Carmela Puntillo

 

 

Una cronaca manoscritta delle “Cose e fatti accaduti a Verona fra il 1731 e il 1734” ricorda la creazione sulle scene del “Nuovo teatro Filarmonico” de La fida ninfa di Vivaldi e del Gianguir di Geminiano Giacomelli. La nuova opera vivaldiana rendeva omaggio a un evento maggiore per Verona, inaugurando il suo nuovo teatro d’opera, realizzato sui piani del famoso architetto Bibiena e la cui apertura era attesa. La pazienza dei veronesi era stata messa a dura prova per tutto il tempo trascorso fra la chiusura del Teatro del Capitano nel 1715 e l’inaugurazione del Nuovo teatro Filarmonico con La fida ninfa…

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Antonio Vivaldi (1678-1741)

 

 

 

 

Maria Callas

Il canto struggente dell’eterno

 

16 settembre 1977

 

 

Maria Callas, la Divina, non è stata soltanto una cantante: era un’anima intrappolata tra il mondo mortale e quello dell’eterno, capace di far vibrare il cuore umano come se fosse parte di un’orchestra d’archi invisibile. La sua voce è stata un paesaggio vasto e sconfinato di emozioni: talvolta ruvido, altre volte dolce, sempre intenso. Ogni sua interpretazione sembrava un rito antico, un sacrificio d’amore che consumava l’artista e l’ascoltatore in un unico abbraccio di dolore e bellezza.
Nata nel 1923, a New York, da genitori greci, era destinata fin dalla nascita a un cammino solitario, fatto di gloria e tormento. Come una fenice, rinacque dall’anonimato per brillare nei più grandi teatri del mondo, ma dietro quel fulgore si nascondeva sempre un’ombra, un’irrequietezza che l’ha accompagnata fino alla fine. La sua carriera è stata una parabola splendente eppure straziata, un continuo oscillare tra il trionfo e la caduta.
Con il suo talento senza pari, Maria Callas ha ridefinito l’opera. La sua capacità di coniugare una tecnica vocale impeccabile con una profondità interpretativa disarmante l’ha rese unica. Quando interpretava ruoli come Norma, Tosca o Violetta, non era più solo una cantante: lei era il personaggio. Ogni gesto, ogni sguardo, ogni nota erano immersi in un’autenticità così dolorosa che gli spettatori si ritrovavano a vivere, a soffrire, a morire insieme a lei.


Non era perfetta, Maria. La sua voce, a tratti aspra, quasi spezzata, era spesso criticata. Ma è proprio questa imperfezione a renderla immortale. Era la sua vulnerabilità a fare della sua arte un’esperienza trascendentale. Come il marmo che porta le cicatrici del tempo, la sua voce, segnata dalle ferite della vita, raccontava storie che nessuna tecnica impeccabile avrebbe potuto narrare. Lei stessa era solita dire: “Il mio segreto? Forse la mia infelicità”.
L’infelicità era l’ombra che non l’abbandonava mai. Nonostante il successo, è stata una donna divisa tra il desiderio d’amore e l’inesorabile solitudine che il destino le aveva riservato. La sua tormentata relazione con Aristotele Onassis, l’uomo che le spezzò il cuore, rappresenta un capitolo doloroso, forse il più doloroso, nella sua biografia. Era come se ogni trionfo sul palco fosse pagato con una perdita nella vita reale. Un sacrificio necessario per donare al mondo quella bellezza struggente, quell’arte sublime che solo il dolore poteva alimentare.
Negli ultimi anni, la sua voce iniziò a spegnersi, come una candela consumata dal vento della sua stessa passione. Si ritirò dal palcoscenico, ma il mondo non la dimenticò. Il suo canto continuava – e continua – a risuonare nell’anima di chiunque l’aveva ascoltata, come un’eco che attraversa i secoli, un grido che non si spegnerà mai.
Maria Callas visse e morì come un’opera lirica: tragica, passionale, ineluttabile. La sua arte, intessuta di sacrifici e gloria, dolore e bellezza, è un dono che seguiterà a vivere, come una fiamma eterna, nelle note che volano leggere e nei cuori che battono al suono del suo nome.

 

 

 

La notte e i notturni nella letteratura e nella musica

 

 

di Carmela Puntillo

 

 

La notte è uno dei temi più ricorrenti nella letteratura e nella musica: ne hanno subito il fascino sia la prosa che la poesia (che hanno dato parole ai suoi paesaggi interiori), sia le composizioni di musicisti rinomati dall’Ottocento ai giorni nostri. Questi autori hanno descritto gli aspetti, le caratteristiche che le sono proprie ed i sentimenti che essa suscita…

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Sfumature di pallido

Musica e poesia in A Whiter Shade of Pale

 

 

Un commento critico

 

 

A Whiter Shade of Pale è una delle canzoni più iconiche degli anni ‘60 e rappresenta un perfetto esempio di come la musica pop rock possa fondersi con la musica classica e la poesia, creando un’opera unica e senza tempo. Pubblicata nel 1967 dai Procol Harum, è nota per il suo suono organistico e per il testo enigmatico, che ha ispirato interpretazioni diverse nel corso degli anni.
L’aspetto più distintivo di A Whiter Shade of Pale è l’uso dell’organo Hammond, suonato da Matthew Fisher, che domina l’introduzione e gran parte della canzone. Questa melodia ricorda chiaramente Bach, in particolare il suo Oratorio di Natale e il Preludio n. 1 in Do maggiore dal Clavicembalo ben temperato. Tuttavia, Fisher ha spesso dichiarato che l’intenzione non era quella di copiare direttamente il grande compositore tedesco, ma di ispirarsi alla sua struttura armonica per creare un sound sofisticato e classico.
La progressione degli accordi della canzone segue un ciclo che richiama le composizioni barocche, creando un’atmosfera solenne e, al tempo stesso, nostalgica. L’uso dell’organo è accompagnato da un arrangiamento strumentale minimale, che lascia spazio alle note delicate e all’effetto ipnotico del brano. Questo tipo di approccio compositivo ha segnato una delle prime fusioni tra rock e musica classica, una tendenza che sarebbe poi cresciuta durante gli anni ‘70 con il progressive rock.
Dal punto di vista strumentale, uno degli elementi chiave della canzone è la semplicità e l’efficacia dell’arrangiamento. L’organo Hammond B3 è lo strumento principale e Fisher lo suona in modo magistrale. La melodia si basa su accordi ampi, con l’uso di riverbero e sustain per creare un effetto maestoso e quasi liturgico. Anche la linea di basso (David Knights), gioca un ruolo importante, fornendo una struttura armonica stabile su cui poggia l’intero brano. La chitarra elettrica (Robin Trower), pur non essendo centrale, appare discretamente a tratti, offrendo un’ulteriore texture sonora, mentre la batteria di B.J. Wilson resta quasi sommessa, accompagnando senza dominare. Questo minimalismo strumentale contribuisce all’atmosfera sospesa e onirica della canzone. E, poi, la voce di Gary Brooker, che si distingue per il suo timbro caldo e profondo, conferendo alla canzone un senso di solennità, sposandosi perfettamente con il suono dell’organo Hammond e con l’influenza classica della melodia. L’uso di dinamiche sottili, crescendo e diminuendo in determinati punti della canzone, sottolinea i momenti di tensione emotiva e rende ogni frase più carica di significato. Ad esempio, nel verso Her face, at first just ghostly, Brooker pronuncia le parole con delicatezza, per poi crescere d’intensità su turned a whiter shade of pale, creando, così, un effetto narrativo che accompagna l’evoluzione del testo. La voce di Brooker è uno strumento perfetto per mantenere l’equilibrio tra il lirismo del testo e il mistero che lo avvolge. Nonostante il testo di Keith Reid sia complesso e aperto a diverse interpretazioni, Brooker lo canta in modo naturale e credibile, senza forzare spiegazioni o emozioni. Questo lascia spazio all’ascoltatore per interpretare la canzone a livello personale, senza che la voce guidi troppo pesantemente in una direzione.


Uno degli aspetti più discussi di A Whiter Shade of Pale è proprio il suo testo, che risulta profondamente simbolico e aperto a diverse interpretazioni. Alcuni lo hanno visto come un riferimento alla cultura psichedelica degli anni ‘60, mentre altri vi leggono un’allegoria di esperienze esistenziali o spirituali.
We skipped the light fandango
Il brano si apre con questo verso, che introduce immediatamente un senso di movimento caotico e surreale. Il fandango è una danza vivace spagnola, e skipped the light fandango potrebbe suggerire un ballo frenetico, un’esperienza disorientante o un passaggio oltre i limiti della realtà. Alcuni lo vedono come una metafora per una serata selvaggia o un viaggio psichedelico, tipico della cultura degli anni ‘60. Il verbo skipped (saltammo) potrebbe indicare una deviazione dai comportamenti normali, un tentativo di evadere la realtà o una fuga mentale.
Turning cartwheels ‘cross the floor
Questo verso rafforza l’immagine di un ambiente scomposto e caotico. Le capriole (cartwheels) evocano l’idea di movimento incontrollato, forse legato a uno stato di confusione mentale. Questa scena potrebbe essere intesa come la rappresentazione di un’esperienza psichedelica, in cui la percezione della realtà si distorce, o come un’allegoria di una situazione in cui il narratore sente che il mondo attorno a lui è fuori controllo.
The room was humming harder
Il “ronzio” nella stanza suggerisce una crescente tensione o ansia, come se il mondo esterno stesse diventando sempre più opprimente. Ciò può essere interpretato in vari modi: come una sensazione fisica e mentale di perdita di controllo (ancora una volta, collegata all’esperienza psichedelica) oppure come un simbolo di disagio emotivo e confusione.
As the miller told his tale
Questo riferimento a un mugnaio che racconta una storia è uno dei passaggi più enigmatici del testo. La figura del mugnaio potrebbe essere un riferimento letterario o simbolico. Alcuni critici lo collegano alla poesia The Miller’s Tale dai Racconti di Canterbury di Geoffrey Chaucer, che tratta di inganno e amore illecito. Tuttavia, Reid ha dichiarato che non c’era un intento specifico di rifarsi a Chaucer. Potrebbe, quindi, trattarsi di una figura archetipica, un narratore che introduce un senso di fatalismo o di ciclicità nella vita, come il mugnaio che macina continuamente il grano.
Her face, at first just ghostly, turned a whiter shade of pale
Questa è forse la frase più famosa e discussa della canzone. Il “viso spettrale” che diventa ancora più pallido richiama un’immagine di malattia, morte o shock emotivo. Il pallore potrebbe simboleggiare una perdita: di innocenza, di amore, di speranza o, persino, della vita stessa. Alcuni hanno interpretato questo come un riferimento a una relazione che si sta spegnendo, dove l’amore un tempo vibrante diventa sempre più distante e insipido.
One of sixteen vestal virgins who were leaving for the coast
Il riferimento alle “sedici vestali” introduce un’immagine classica. Le vestali erano sacerdotesse nell’antica Roma, votate alla castità e incaricate di mantenere il fuoco sacro acceso. Il fatto che “stiano partendo per la costa” può essere visto come un abbandono del loro dovere o un allontanamento dai loro princìpi sacri e potrebbe simboleggiare una perdita di purezza, di dedizione o di scopo. Alcuni hanno ipotizzato che le vestali rappresentino un gruppo di persone in cerca di una nuova direzione spirituale o esistenziale, mentre coast (costa) potrebbe alludere a una transizione o a un viaggio verso l’ignoto.
Il tema centrale di A Whiter Shade of Pale sembra comunque essere quello della perdita. Che si tratti di una perdita emotiva (come la fine di una relazione), spirituale (la ricerca di un significato più profondo nella vita) o psicologica (la perdita di contatto con la realtà), il testo suggerisce uno stato di disorientamento e di riflessione interiore.
L’alienazione è un altro tema importante. Le immagini di persone che ballano capriole attraverso la stanza o di vestali che abbandonano il loro compito tradizionale evocano un senso di estraniamento dal mondo e dalle norme consuete. Il narratore sembra essere un osservatore passivo, incapace di fermare il declino che vede intorno a sé.
Infine, c’è un elemento di trascendenza. Molte interpretazioni vedono nel pallore crescente e nell’atmosfera surreale della canzone un tentativo di superare i limiti della realtà materiale. In questo contesto, la canzone potrebbe essere letta come un viaggio verso una forma di realizzazione spirituale o di accettazione dell’inevitabile.
Un’altra interpretazione comune è che il testo sia un’allegoria di una relazione amorosa in crisi. L’amore iniziale, rappresentato dal ballo e dall’energia dei primi versi, si spegne gradualmente, come indicato dal pallore crescente e dal tono sempre più malinconico del testo. La “vestale” potrebbe rappresentare la donna amata, che si allontana (partendo per la costa), mentre il narratore si sente impotente di fronte a questo cambiamento.
Non si può ignorare il fatto che A Whiter Shade of Pale sia stata scritta, come detto, durante l’epoca della controcultura e della sperimentazione psichedelica. Molti vedono nel testo un riferimento a esperienze con sostanze psichedeliche, con le immagini surreali e i cambiamenti di prospettiva tipici di quel tipo di esperienza. Versi come the room was humming harder e turned a whiter shade of pale potrebbero quindi facilmente adattarsi alla descrizione di un viaggio lisergico.
In definitiva, il testo di A Whiter Shade of Pale è un mosaico di immagini poetiche e simboli, che lascia spazio a una vasta gamma di interpretazioni. Che si tratti di una riflessione sulla perdita dell’innocenza, di una metafora di una relazione fallita o di un commento sull’alienazione moderna, la canzone rimane un enigma affascinante. Il suo linguaggio ricco e allusivo ha contribuito a renderla un classico senza tempo, permettendo agli ascoltatori di trovarvi significati personali e di rivisitarla continuamente con nuove prospettive.

Ascolta la canzone

 

 

 

 

 

L’eco delle ombre

La melodia eterna di Jon Lord

 

(nell’anniversario della morte)

 

 

 

Jon Lord, tastierista dei leggendari Deep Purple, la cui presenza, a metà tra il mistico e l’eterno, si fondeva con le note pesanti e malinconiche del suo Hammond e creava un’aura che avvolgeva chiunque lo ascoltasse.
Con le dita che danzavano sulle tastiere come farfalle su fiori di mezzanotte, Lord evocava spiriti antichi e melodie dimenticate. Ogni tocco era un sussurro di storie mai raccontate, di amori perduti e sogni infranti. Era un mago del suono, capace di trasformare l’avorio freddo dei tasti in un canto caldo e avvolgente, che sembrava nascere dalle profondità della terra stessa.
Gli occhi di Jon, spesso nascosti dietro occhiali scuri, erano finestre su un’anima tormentata e ricca di introspezione. Portavano i segni di notti insonni passate a cercare la nota perfetta, la sinfonia sovrumana che avrebbe potuto dare voce al tumulto del suo cuore. E in quelle rare occasioni in cui lo sguardo emergeva, rivelava un mare di emozioni intense e inespresse, come un cielo notturno tempestato di stelle che brilla di una luce triste e misteriosa.


La sua musica, fusione di rock, blues e musica classica, era un viaggio attraverso i meandri più profondi dell’esistenza umana. Ogni accordo, ogni nota, era un frammento di un’anima che lottava per esprimere la bellezza nella sofferenza, la luce nell’oscurità. Ascoltare Jon Lord suonare era come camminare in un bosco autunnale, con le foglie che cadono silenziosamente intorno, portando con sé il profumo dolceamaro del passato e la promessa di un inverno inevitabile.
E ora, nel silenzio che segue la sua dipartita, resta solo l’eco delle sue note, che risuonano nel cuore di chi ha avuto il privilegio di ascoltarlo. Jon Lord, il tastierista dei Deep Purple, è diventato un’ombra musicale, un ricordo malinconico che fluttua tra i venti del tempo, sussurrando la sua eterna melodia a coloro che sanno ancora ascoltare con l’anima.