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L’armonia dell’universo

Il De institutione musica di Severino Boezio

 

 

 

 

Il De institutione musica di Severino Boezio costituisce una delle opere più notevoli nel pensiero musicale medievale e un fondamentale punto di riferimento per la trasmissione della tradizione musicale dell’antichità. Redatto nel VI secolo d.C., il trattato si inserisce all’interno del più ampio progetto boeziano di rendere accessibile la conoscenza greca ai lettori latini, consolidando il legame tra la speculazione pitagorico-platonica e la visione cristiana del mondo. L’opera non è concepita come un manuale pratico destinato ai musicisti, bensì come un’indagine filosofica sulla natura della musica, sul suo rapporto con la matematica e sui suoi condizionamenti dell’animo umano. La composizione del De institutione musica si sviluppa attraverso un’attenta sintesi delle fonti greche, tra cui emergono Platone, Aristotele, Tolomeo e Nicomaco di Gerasa. Boezio si impegna nella sistemazione teorica della disciplina musicale, collocandola all’interno delle arti liberali del quadrivio, ovvero il sistema delle quattro artes reales che comprendono aritmetica, geometria, astronomia e musica. Quest’ultima, secondo la sua prospettiva, non è meramente un’arte legata alla produzione sonora, ma una scienza che si fonda su princìpi numerici e matematici, in grado di spiegare l’armonia dell’universo.
L’opera è articolata in cinque libri, ciascuno dedicato a differenti aspetti della teoria musicale. Nel primo libro Boezio introduce la definizione di musica e ne stabilisce il carattere scientifico, ponendo in evidenza il suo legame con la matematica. Nel secondo e nel terzo approfondisce i princìpi teorici dell’armonia e degli intervalli musicali, sempre secondo una prospettiva aritmetica, riprendendo la concezione pitagorica che individua nei rapporti numerici la chiave per comprendere la struttura del suono. Infine, negli ultimi due libri, si concentra sulle implicazioni filosofiche ed etiche della musica, sottolineandone la capacità di influenzare l’anima e il comportamento umano.
Uno degli aspetti più rilevanti del De institutione musica è la tripartizione della musica, concetto che diventerà fondamentale nel pensiero medievale. Boezio distingue tre livelli di musica: la musica mundana, la musica humana e la musica instrumentalis. La musica mundana è quella che regola l’armonia cosmica, riflettendo l’ordine dell’universo attraverso proporzioni numeriche che governano il movimento degli astri e l’equilibrio della natura. Questa concezione, profondamente debitrice della teoria pitagorica delle sfere celesti, interpreta il cosmo come un sistema musicale in cui ogni elemento si relaziona secondo un principio di armonia universale. La musica humana riguarda invece l’armonia interiore dell’essere umano, ponendo l’accento sulla relazione tra anima e corpo. Boezio sostiene che la musica abbia un effetto profondo sullo stato psicologico e morale dell’individuo, condizionandone il carattere e la condotta. Tale visione riprende il pensiero di Platone, secondo il quale l’educazione musicale è essenziale per la formazione dell’uomo virtuoso e per la stabilità della società. Infine, la musica instrumentalis è quella che si manifesta attraverso gli strumenti musicali e la voce umana. Essa è l’unica forma di musica percepibile direttamente dai sensi, ma per Boezio rappresenta il livello più basso della gerarchia musicale, poiché dipende esclusivamente dall’esecuzione pratica e non dalla comprensione dei princìpi teorici e filosofici che ne regolano l’essenza.

Il legame tra musica e numeri è un altro pilastro del pensiero boeziano. Seguendo la tradizione pitagorica, l’autore dimostra come le consonanze musicali derivino da precisi rapporti matematici, illustrando le proporzioni che definiscono gli intervalli armonici. Questa impostazione aritmetica della musica verrà ripresa nel Medioevo e costituirà la base del pensiero musicale scolastico, in cui la disciplina musicale sarà studiata non come un’arte performativa, ma come una scienza speculativa.
Il portato del De institutione musica non si esaurisce nella sua analisi teorica, ma si estende alla funzione educativa e morale della musica. Boezio insiste sul fatto che la musica, oltre a essere un riflesso dell’armonia cosmica, eserciti un’influenza diretta sull’anima umana, potendo elevare l’individuo alla contemplazione della verità o, al contrario, corromperlo se mal utilizzata. Questa concezione etica della musica deriva direttamente dalla filosofia platonica, in particolare dai dialoghi Repubblica e Timeo, nei quali Platone assegna alla musica un ruolo determinante nella formazione del cittadino ideale.
Il trattato boeziano si inserisce in un solido contesto di tradizione greca, ma si distingue per la sua capacità di sistematizzare le conoscenze precedenti e renderle accessibili alla cultura latina. Da Pitagora riprende la concezione dell’universo come armonia regolata da proporzioni numeriche e la teoria degli intervalli musicali basata su rapporti matematici. Da Platone eredita l’idea che la musica abbia una funzione educativa e morale, mentre da Aristotele mutua la riflessione sugli effetti psicologici ed etici della musica sull’individuo. Il contributo di Tolomeo e Nicomaco di Gerasa si manifesta nella trattazione della teoria musicale dal punto di vista matematico e cosmologico, con particolare attenzione ai rapporti tra suoni e numeri.
L’importanza del De institutione musica risiede nella sua capacità di preservare e trasmettere la tradizione musicale dell’antichità al Medioevo, ispirando in modo decisivo il pensiero musicale scolastico e l’intera concezione della musica nel mondo cristiano. Attraverso la sua visione della musica come scienza speculativa e come strumento educativo e morale, Boezio contribuisce a consolidare l’idea che la musica non sia soltanto un’arte, ma una disciplina essenziale per comprendere l’ordine dell’universo e la natura umana. Grazie alla sua opera, la musica viene riconosciuta come un elemento imprescindibile del sapere filosofico e teologico, assumendo un ruolo centrale nella cultura medievale e, poi, rinascimentale.

 

 

 

 

 

Franco Battiato e il richiamo universale all’equilibrio interiore

Alla ricerca del centro di gravità permanente

 

 

 

 

Cerco un centro di gravità permanente che non mi faccia mai cambiare idea sulle cose, sulla gente…”.

Queste parole, tratte da uno dei brani più iconici di Franco Battiato, costituiscono non solo il fulcro del pezzo, ma anche una riflessione universale sulla condizione umana e sulla necessità di trovare equilibrio. La profondità e la complessità del testo, tuttavia, vanno ben oltre la semplice musicalità del ritornello. Per comprendere appieno il concetto di “centro di gravità permanente”, è necessario esaminare il contesto filosofico, spirituale e culturale che permea le opere dell’artista.
Battiato non è stato solo un musicista, ma un pensatore, un poeta che ha fatto della musica uno strumento per comunicare concetti profondi e universali. Il suo approccio ai testi era spesso ermetico, caratterizzato da un uso simbolico delle parole, che richiede un’interpretazione approfondita. A una lettura superficiale, le sue canzoni possono sembrare frammenti di pensieri sparsi o giochi di parole senza senso. Tuttavia, un’analisi più attenta rivela un filo conduttore che attraversa temi come la spiritualità, la crescita interiore, il rapporto tra uomo e universo e l’esplorazione della coscienza.
Il riferimento al “centro di gravità permanente” non è casuale, ma parte di un percorso di ricerca spirituale, che Battiato intraprese attraverso lo studio di diverse tradizioni filosofiche e mistiche, tra cui la filosofia orientale, l’esoterismo occidentale e le dottrine di maestri spirituali come Georges Ivanovič Gurdjieff. Quest’ultimo, in particolare, ha influenzato profondamente il pensiero dell’artista, introducendolo ai concetti di auto-osservazione e di risveglio interiore.
Contrariamente a quanto il termine potrebbe suggerire, il centro di gravità permanente non ha nulla a che vedere con un luogo fisico né con la legge gravitazionale. Si tratta, invece, di uno stato interiore, una centratura dell’essere che permette di osservare la realtà con chiarezza e distacco. È uno stato di consapevolezza che consente di superare i condizionamenti esterni e le reazioni automatiche, permettendo all’individuo di vivere in armonia con sé stesso e con il mondo.

Questo stato può essere descritto come un “Io osservatore”, una parte di noi che si limita a osservare senza giudizio sia ciò che accade nel mondo esterno, sia le dinamiche del nostro mondo interiore. Quando siamo centrati, diventiamo spettatori consapevoli delle nostre emozioni, dei nostri pensieri e delle nostre azioni. Questo ci permette di liberarci dalle identificazioni con i nostri molteplici “io” – quegli aspetti frammentati della nostra personalità che spesso agiscono in modo contraddittorio.
L’idea che l’essere umano non sia un’entità unica ma un insieme di personalità multiple è un tema trattato anche nella letteratura, in particolare da Luigi Pirandello. In Uno, Nessuno e Centomila, il drammaturgo descrive la molteplicità dell’io, mostrando come ognuno di noi cambi a seconda del contesto e delle relazioni. La frase: “Ciascuno di noi si crede ‘uno’, ma non è vero: è ‘tanti’” riflette perfettamente questa realtà.
Battiato, con il concetto di centro di gravità permanente, propone una via d’uscita da questa frammentazione: la costruzione di un unico centro stabile che unifichi le nostre molteplici personalità. Questo centro, però, non si costruisce spontaneamente; richiede consapevolezza, presenza e un profondo lavoro su di sé.
Il raggiungimento del centro di gravità permanente è un processo trasformativo che si basa sull’auto-osservazione e sulla presenza mentale. Gurdjieff descrive questa pratica come la “Quarta Via”, un percorso che combina elementi della mente, del corpo e dello spirito per ottenere il risveglio interiore.
L’auto-osservazione è il primo passo: significa prendere coscienza di sé stessi in ogni momento, osservando i propri pensieri, emozioni e comportamenti senza identificarvisi. Questo processo richiede disciplina e volontà, poiché implica il superamento delle abitudini meccaniche che governano la nostra vita quotidiana.
La presenza, invece, è la capacità di vivere nel “qui e ora”, senza essere distratti dal passato o proiettati nel futuro. Solo attraverso la presenza possiamo costruire quel centro stabile che ci permette di affrontare la vita con equilibrio e coerenza. Raggiungere il centro di gravità permanente non significa eliminare le difficoltà o i problemi della vita, ma imparare a viverli con distacco e consapevolezza. Questo stato di coscienza permette di vedere oltre le apparenze, di comprendere la vera natura delle cose e di liberarsi dai condizionamenti mentali ed emotivi che spesso ci intrappolano.
In questo senso, il messaggio di Battiato è profondamente rivoluzionario: ci invita a un viaggio interiore che non solo ci libera dalla frammentazione dell’io, ma ci apre a una dimensione più ampia della realtà. È un appello a risvegliarsi, a trovare un equilibrio stabile che ci permetta di vivere in armonia con noi stessi e con il mondo.

 

 

 

 

Il sistro

L’armonia sacra tra suono e divinità

 

 

 

 

Il sistro è uno strumento musicale dalle origini antichissime, il cui suono tintinnante ha accompagnato rituali religiosi, celebrazioni sacre e momenti di vita quotidiana nella storia culturale e artistica di molte civiltà. Nato nell’antico Egitto, si è diffuso nel Mediterraneo e oltre, divenendo un simbolo potente di spiritualità e armonia cosmica. Esaminandone le caratteristiche, il significato simbolico e i riferimenti letterari, se ne comprende l’importanza nella storia dell’umanità.
Il sistro è formato da un telaio metallico arcuato o a forma di manico, spesso decorato con immagini e simboli sacri. Attraverso il telaio passano asticelle orizzontali, che reggono dischi metallici o anelli mobili. Il movimento di queste parti, generato agitando lo strumento, produce un suono ritmico e vibrante.
Due tipologie principali se ne distinguono: il sistro arcaico egizio, spesso decorato con immagini della dea Hathor, caratterizzato da una struttura semplice e simbolica, e il sistro romano, più elaborato, introdotto a Roma attraverso il culto di Iside e associato a rituali complessi e misterici. Il bronzo, il rame o l’argento erano usati per la sua realizzazione e la decorazione era parte integrante del valore rituale e artistico dello strumento.
Il sistro era un elemento fondamentale nei rituali religiosi egizi, specialmente in quelli dedicati a divinità femminili come Hathor, Iside e Bastet. Hathor, dea della musica, della fertilità e della gioia, era spesso raffigurata con il sistro, simbolo della sua capacità di armonizzare il mondo. Il tintinnio evocava la vibrazione primordiale che, secondo la cosmogonia egizia, aveva dato origine alla creazione. Al suono del sistro erano anche attribuiti poteri apotropaici: scacciava le forze negative e ristabiliva l’equilibrio universale. Era spesso utilizzato nelle processioni, accompagnando danze e canti, per invocare la protezione divina e celebrare la fecondità della terra e delle acque. Nella tradizione greco-romana, poi, il sistro divenne un elemento centrale nei misteri isiaci, rituali iniziatici che celebravano la rinascita spirituale e il potere rigenerante della dea.

Il fascino esercitato dal sistro attraversa secoli di letteratura, dalle descrizioni degli antichi storici fino alle opere di epoche successive. I testi letterari non solo ne testimoniano l’uso, ma ne rimarcano anche il significato simbolico e rituale. Nella sua opera Storie, Erodoto descrive in dettaglio i rituali in onore di Iside, evidenziando l’uso del sistro come elemento essenziale. La sua cronaca testimonia il legame indissolubile tra musica e religione nell’antico Egitto, rilevando il ruolo del sistro nella celebrazione della fertilità e della vita. Nel romanzo Le Metamorfosi (o L’asino d’oro), Apuleio riporta una delle più suggestive rappresentazioni del culto di Iside. Nella visione mistica del protagonista Lucio, i sacerdoti agitano i sistri durante una solenne processione, evocando il potere della dea e la trasformazione spirituale. Virgilio, nell’Eneide, descrive Cleopatra, regina d’Egitto, che porta il sistro come segno della sua identità e dei suoi legami religiosi con il mondo egizio. Nel Medioevo, il sistro appare in descrizioni di fonti arabe e bizantine come simbolo esotico, legato all’antico Egitto. Durante il Rinascimento, con il rinnovato interesse per l’antichità, lo strumento fu citato da scrittori e artisti, spesso per evocare atmosfere misteriose o per rappresentare la sapienza e la spiritualità orientale.
Oltre che nella letteratura, il sistro appare frequentemente nell’arte. Affreschi, bassorilievi e statuette raffigurano sacerdotesse e musicisti che lo suonano. Notevole è la rappresentazione del sistro nei templi egizi, come a Dendera, dove scene di culto mostrano l’importanza di questo strumento nei rituali sacri. In epoca romana, il sistro è presente su monete e rilievi dedicati a Iside, a sottolineare l’universalità del suo significato.
Sebbene oggi il sistro non sia più utilizzato come in passato, esso sopravvive in strumenti musicali simili, come alcuni tipi di sonagli e tamburelli. Inoltre, il suo significato simbolico continua a essere approfondito in studi accademici, opere letterarie e performance artistiche che celebrano il legame tra musica, religione e cultura.

 

 

 

 

L’estetica del suono e del silenzio

John Cage ed Ennio Morricone

 

 

 

 

Quando si pensa a 4’33” di John Cage e alla lunga sequenza iniziale di C’era una volta il West di Sergio Leone, ci si trova davanti a due opere che sembrano appartenere a mondi creativi agli antipodi. La prima è una composizione di musica “silenziosa” appartenente all’avanguardia sperimentale del XX secolo; l’altra è un’apertura cinematografica orchestrata da Ennio Morricone per evocare tensione ed emozione. Tuttavia, nonostante le differenze evidenti, entrambe percorrono in modo innovativo il concetto di suono e silenzio, sfidando le convenzioni tradizionali della musica e della narrazione.
4’33” (1952) è un manifesto radicale dell’arte sonora. In questa composizione, John Cage elimina l’intervento attivo dei musicisti: gli esecutori si limitano a segnare i movimenti senza suonare una singola nota, lasciando che il “silenzio” e i suoni accidentali circostanti prendano il centro della scena. Cage non definisce il silenzio come un’assenza, ma come uno spazio di ascolto attivo. Ogni esecuzione è diversa, perché i suoni ambientali – il tossire del pubblico, il fruscio di una pagina, il rumore lontano di una strada – diventano parte integrante dell’opera.
Nella sequenza iniziale di C’era una volta il West (1968), Ennio Morricone utilizza suoni ambientali con un approccio opposto: ogni rumore è calcolato, coreografato e integrato in una narrazione precisa. In questa scena d’apertura, tre uomini attendono l’arrivo di un treno in una stazione deserta. Il cigolio di una ruota, lo scricchiolio del legno, il gocciolio dell’acqua e il frinire delle cicale sono orchestrati per costruire un crescendo di tensione emotiva. Qui non c’è spazio per l’imprevisto: i suoni non sono casuali, ma costruiti con una precisione quasi musicale, trasformandosi in una sinfonia di rumori.
Pur nelle loro differenze, 4’33” e la sequenza iniziale di C’era una volta il West condividono un aspetto fondamentale: il ruolo dei suoni ambientali. Entrambe le opere si sottraggono alla tradizionale distinzione tra musica e rumore, valorizzando i suoni del mondo circostante.
In 4’33”, Cage invita l’ascoltatore a scoprire la musica intrinseca nei suoni che lo circondano. L’opera non è solo un esercizio concettuale, ma un’esperienza che cambia il modo di percepire il quotidiano: l’atto stesso dell’ascolto diventa creativo. Morricone, invece, non lascia nulla al caso. Organizza i rumori come fossero strumenti di un’orchestra, sfruttandoli per evocare un senso di attesa e suspense che culmina con l’arrivo del treno e l’inizio dell’azione.
In entrambi i casi, l’ascoltatore diventa partecipante attivo. Nel caso di Cage, è l’ambiente a modellare l’esperienza sonora; nel caso di Morricone, è lo spettatore a “interpretare” emotivamente i suoni. Entrambi i lavori richiedono un ascolto consapevole e rivelano che il confine tra suono e musica non è mai assoluto.


 

La genesi di queste opere riflette le loro diverse funzioni e radici culturali. 4’33” è profondamente influenzata dalla filosofia zen, che invita a considerare il vuoto e il silenzio come pieni di significato. Cage, all’interno dell’avanguardia del dopoguerra, sfida le concezioni occidentali di arte e musica, proponendo una visione più ampia e inclusiva. Per Cage, il silenzio non esiste: il mondo è sempre pieno di suoni, e la musica consiste nell’aprirsi a essi senza giudizi.
L’introduzione di Morricone, invece, nasce nel contesto del cinema western all’italiana, dove il suono ha una funzione narrativa fondamentale. Sergio Leone e Morricone avevano una visione comune del rapporto tra musica e immagini: il suono non è mai un semplice accompagnamento, ma un protagonista che racconta la storia. In questo caso, il silenzio sonoro – l’assenza di dialoghi e l’uso minimale di strumenti – amplifica la tensione emotiva, lasciando che siano i rumori a “parlare”.
Un altro aspetto che accomuna queste opere è la loro capacità di ridefinire il ruolo dell’ascoltatore. Cage e Morricone, pur con mezzi diversi, mettono in discussione il rapporto tradizionale tra musicista, opera e pubblico. 4’33” è un invito esplicito a rompere le barriere tra artista e spettatore: chi ascolta diventa co-creatore, portando i propri suoni e la propria percezione. La sequenza iniziale di C’era una volta il West, invece, immerge lo spettatore in un’esperienza sonora totale, dove ogni dettaglio acustico è studiato per suscitare una risposta emotiva.
Entrambe le opere pongono una domanda fondamentale: cos’è la musica? Per Cage, la musica è ovunque; per Morricone, la musica può anche risiedere nei dettagli più semplici e quotidiani, trasformati dall’intento artistico.
In definitiva, 4’33” di John Cage e La sequenza iniziale di C’era una volta il West di Ennio Morricone rappresentano due facce complementari della stessa medaglia. Il primo celebra il silenzio come una forma di ascolto radicale e inclusivo, aprendo uno spazio per l’imprevisto e l’inaspettato. Il secondo utilizza il suono come uno strumento narrativo, mostrando che anche il più piccolo rumore può diventare musica se inserito in un contesto significativo. Entrambe le opere ci invitano a riflettere sul valore del suono e del silenzio, ampliando i confini della nostra percezione e ridefinendo il nostro rapporto con ciò che ascoltiamo. Che si tratti di un momento di quiete assoluta o di un crescendo di rumori orchestrati, il messaggio è chiaro: il suono è ovunque e ogni suono può raccontare una storia.

 

 

 

 

Il Flauto Magico

L’opera suprema di Mozart tra mistero, arte
e simbolismo massonico

 

 

 

 

Il Flauto Magico (Die Zauberflöte), composto nel 1791 da Wolfgang Amadeus Mozart su libretto di Emanuel Schikaneder, è una delle opere più celebri e complesse della storia della musica. Rappresentato per la prima volta il 30 settembre 1791, al Theater auf der Wieden di Vienna, questo singspiel (opera con dialoghi parlati e numeri musicali) fonde elementi di commedia popolare, allegoria morale e profondi riferimenti esoterici e massonici. È un’opera che si presta a molteplici livelli di lettura, offrendo sia una narrazione avvincente che una riflessione filosofica sull’umanità e sul progresso spirituale.
L’idea de Il Flauto Magico nacque dalla collaborazione tra Mozart e Schikaneder, impresario teatrale e attore, nonché massone come Mozart. Schikaneder aveva concepito l’opera come uno spettacolo popolare, capace di attirare un vasto pubblico, grazie al suo carattere leggero e accessibile, e, al tempo stesso, di veicolare i princìpi morali e filosofici dell’Illuminismo.
La stesura del libretto subì influenze sia dalla tradizione fiabesca tedesca, in particolare da opere come Lulu, oder die Zauberflöte di August Jacob Liebeskind, sia dal pensiero massonico e dalle correnti esoteriche diffuse nella Vienna del XVIII secolo. Mozart lavorò alla musica durante la primavera e l’estate del 1791, parallelamente alla composizione del Requiem. Questo periodo fu per il compositore carico di tensioni, ma anche di straordinaria creatività: nonostante i problemi finanziari e la salute precaria, Mozart portò avanti il progetto con dedizione, creando un’opera che sintetizza elementi popolari e complessi in una struttura musicale impeccabile.

La trama de Il Flauto Magico è un intreccio di componenti fiabesche, allegorie morali e simboli massonici. L’opera, ambientata in un immaginario antico Egitto, si apre con il principe Tamino, inseguito da un serpente e salvato da tre misteriose dame al servizio della Regina della Notte. Quest’ultima, incarica Tamino di salvare sua figlia, Pamina, tenuta prigioniera dal misterioso Sarastro. Accompagnato dal buffo uccellatore Papageno, Tamino intraprende un viaggio ricco di prove e rivelazioni. Tuttavia, le sue certezze iniziali vengono messe in discussione: Sarastro si rivela un saggio e benevolo sacerdote, mentre la Regina della Notte incarna l’oscurità e il caos. Attraverso prove di coraggio, silenzio e purezza d’animo, Tamino e Pamina dimostrano la loro virtù e ottengono l’ammissione alla comunità illuminata di Sarastro. L’opera culmina con la sconfitta della Regina della Notte e il trionfo della luce e della ragione.
Mozart percorre un’ampia gamma di stili musicali ne Il Flauto Magico, alternando momenti di leggerezza a sezioni di profonda solennità. L’ouverture, in tonalità di Mi bemolle maggiore, è un esempio di equilibrio perfetto tra contrappunto e forma sonata. I momenti salienti dell’opera includono le arie della Regina della Notte, tra cui la celeberrima Der Hölle Rache kocht in meinem Herzen, celebre per la difficoltà tecnica e la capacità di esprimere l’ira e la determinazione del personaggio; i cori di Sarastro, come O Isis und Osiris, che si distinguono per la loro atmosfera sacrale, sottolineando la dimensione trascendente del personaggio e della comunità che rappresenta; i duetti tra Papageno e Papagena, che aggiungono un tono giocoso e scanzonato, celebrando la semplicità della vita quotidiana e il desiderio umano di amore e compagnia. Ogni personaggio è caratterizzato musicalmente con grande finezza: mentre Tamino è associato a melodie nobili e idealistiche, Papageno ha un linguaggio musicale più semplice e orecchiabile, vicino al folklore.
L’intero Flauto Magico è impregnato di simbolismo massonico. L’opera si basa su princìpi fondamentali della tradizione massonica, come la ricerca della verità, l’elevazione spirituale e il dualismo tra luce e oscurità. Alcuni esempi significativi: il numero tre, ricorrente in tutta l’opera, è un simbolo fondamentale nella simbologia massonica (i tre accordi iniziali dell’ouverture, le tre dame, i tre geni e le tre prove sono tutti riferimenti a questo numero sacro); le prove iniziatiche di Tamino e Pamina rispecchiano i rituali massonici, in cui il neofita deve dimostrare il proprio valore per essere ammesso alla conoscenza e alla saggezza; la dualità luce-oscurità, incarnata da Sarastro e dalla Regina della Notte, rappresenta il conflitto eterno tra ignoranza e conoscenza, passione e razionalità; il flauto magico stesso, simbolo di armonia e potere spirituale, può essere visto come un riferimento alla musica quale strumento di elevazione dell’anima.
Il Flauto Magico non è soltanto un’opera lirica: è un’opera filosofica, un’allegoria morale e una celebrazione dell’ideale illuministico. Mozart riesce a creare un’opera che parla a pubblici diversi: è una fiaba avvincente per chi cerca intrattenimento, un dramma simbolico per chi desidera una riflessione più profonda e un capolavoro musicale per gli appassionati di musica. L’opera è altresì un manifesto dell’Illuminismo, celebrando valori come la razionalità, la giustizia e l’amore universale. La sua popolarità e il suo fascino senza tempo continuano a renderla una delle opere più rappresentate al mondo, una testimonianza dell’inesauribile genialità di Mozart.

 

 

 

 

 

Something

Quel qualcosa che sfugge

 

 

 

 

Something, pubblicata in UK il 31 ottobre del 1969, è una confessione intima, una finestra aperta sul cuore di George Harrison, molto più di una semplice canzone d’amore. In quei 3 minuti sospesi, Harrison dipinge il ritratto di un’emozione che non si lascia mai del tutto afferrare. Something cattura la delicatezza di un amore fatto di incertezze, di attese. È un inno a ciò che non può essere espresso con parole, a quel “qualcosa” che sfugge, persino quando sembra di tenerlo stretto tra le dita.
Quando Harrison canta “Something in the way she moves, attracts me like no other lover”, non sta raccontando solo una storia d’amore. Sta parlando del mistero stesso del sentimento, del modo in cui l’amore riesce a evocare il desiderio e la nostalgia, come il riflesso della luna sull’acqua. La musa ispiratrice, Pattie Boyd, sua moglie all’epoca, è una rappresentazione dell’eterno femminino, del fascino inafferrabile che Harrison non tenta nemmeno di definire. La sua bellezza è un’ombra danzante, una presenza che non si lascia rinchiudere nelle parole, eppure domina ogni nota, come un’eco che risuona nel vuoto.
Musicalmente, la composizione di Something è un capolavoro di equilibrio e armonia. Harrison si allontana dalle sperimentazioni ardite dei Beatles per abbracciare una struttura semplice ma perfetta, quasi come una preghiera recitata a bassa voce. Gli accordi di apertura, in tono maggiore, portano una dolcezza che sfiora la perfezione, mentre le variazioni minori suggeriscono un mesto retrogusto che accompagna ogni parola. L’uso sapiente della chitarra, il timbro leggero e vibrante, fa sì che ogni nota risuoni come una goccia d’acqua che cade su una superficie ferma, creando poi cerchi che si allargano verso l’infinito.
La melodia è un continuo avvicinamento e allontanamento, come un respiro trattenuto, una confessione mai completamente svelata. Le orchestrazioni, dolci e discrete, circondano la voce di Harrison senza mai sovrastarla, lasciando che ogni pausa, ogni sospensione, sia carica di significato. La musica stessa diventa una danza fragile, un tentativo di avvicinarsi a quel “qualcosa” senza mai sfiorarlo davvero.

Dietro la composizione, però, si nasconde una storia di vulnerabilità e desiderio irrisolto. Harrison, spesso descritto come il Beatle “silenzioso”, in Something lascia emergere una parte di sé che raramente si è concessa. Pattie Boyd è l’ispirazione, ma anche l’incarnazione di una bellezza sfuggente, quasi sovrumana. Lei, come il loro amore, diventa un simbolo della tensione tra il desiderio e la malinconia, tra il possesso e l’inevitabile perdita. Pattie rappresenta un amore che non può essere completamente vissuto, che sfugge, che svanisce. È il riflesso di un ideale che si dissolve appena ci si avvicina troppo.
È impossibile ascoltare Something senza percepire il conflitto interiore di Harrison, la sua consapevolezza che ciò che ama è destinato a restare un mistero. C’è una tristezza soave nelle sue parole, una rassegnazione davanti all’idea che certe bellezze non possono essere trattenute, solo osservate da lontano. La canzone si trasforma così in un atto di adorazione silenziosa, una resa alla meraviglia di un sentimento che non si può comprendere né possedere.
In Something, la musica diventa un ponte tra il finito e l’infinito, un filo invisibile che unisce ciò che è umano a ciò che è ineffabile. Ogni nota, ogni pausa sembra voler dire: “Non capirò mai del tutto ciò che amo, ma è proprio in questa incomprensibilità che risiede la sua compiutezza”. È una malinconia che non chiede consolazione, una bellezza che accetta il proprio destino di essere incompleta, ma proprio per questo, eterna.
Alla fine, Something è un pezzo d’arte che va oltre la sua stessa musica. È un tributo alla forza delle emozioni, alla vulnerabilità dell’amore, all’incapacità di afferrare il “qualcosa” che si ama di più. E in questo risiede la sua grandezza: nel suo saper rendere universale il personale, nel trasformare l’esperienza intima di un uomo in un’ode all’amore universale, a tutto ciò che non si può spiegare, ma solo sentire.

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Il grido graffiante di una stella cadente

Ricordo di Janis Joplin

 

 

 

 

Janis Joplin, una voce venuta da un mondo che sembrava non essere il suo. Una voce graffiante, che portava con sé il peso di una vita troppo breve, troppo intensa. C’era una malinconia palpabile in ogni sua nota, un’urgenza di esprimere qualcosa che forse nemmeno lei riusciva a comprendere del tutto. Sul palco era travolgente, come se la musica fosse l’unico linguaggio in cui riuscisse a sentirsi veramente viva. Ogni sua esibizione era una confessione, una ferita aperta che mostrava al pubblico, senza filtri, come se non ci fosse altro modo di essere.
Era una ribelle, certo, ma anche una donna fragile, persa tra le contraddizioni della fama e della solitudine. Cresciuta in una cittadina del Texas, sembrava destinata a essere sempre un’outsider. Il blues, il rock, la sua voce piena di graffi e lacrime erano lo specchio del suo dolore interiore, della ricerca disperata di un posto nel mondo che non riusciva a trovare. Quando cantava Piece of My Heart, sembrava davvero che ogni volta stesse donando un pezzo di sé a chi l’ascoltava.

La sua carriera è stata breve, ma bruciò con la potenza di una stella cadente. Con la Big Brother and the Holding Company aveva dato vita a un suono nuovo, crudo, che mescolava psichedelia e blues, ma è stata la sua voce a renderla unico. Cheap Thrills divenne presto un album simbolo di un’epoca, e Janis la sacerdotessa di una generazione disillusa e in cerca di sé stessa.
Eppure, dietro l’energia esplosiva sul palco, c’era una ragazza che cercava amore in un mondo che non sapeva come darlo. Il suo stile unico, fatto di piume, vestiti colorati e stivali consumati, era quasi una maschera, una corazza per proteggersi dalle insicurezze profonde che la tormentavano. Il successo non la salvò mai dai suoi demoni: alcol, droghe e la sensazione di non essere mai abbastanza. Quello che restava era la sua musica, come un grido disperato, come l’ultimo tentativo di farsi ascoltare davvero.
Janis se n’è andata troppo presto, nel 1970, a 27 anni. La sua morte lasciò un vuoto profondo, un silenzio assordante per chi aveva sentito il potere della sua voce. Ma il suo ricordo è rimasto, incastonato in quelle canzoni che ancora oggi suonano come il lamento di un’anima libera, ma spezzata. Quando penso a Janis Joplin mi tornano sempre in mente le parole di una canzone di Kris Kristofferson, da lei interpretata: Freedom’s just another word for nothing left to lose. E mi rendo conto che, forse, è stato proprio questo il suo destino.

 

 

 

 

La musica di fra Giovanni da Verona:

tra preghiere e canti alla Madonna

 

 

di Carmela Puntillo

 

 

Una cortina scarsamente penetrabile rende purtroppo ardua la ricostruzione della biografia e della formazione di fra Giovanni, nato a Verona intorno al 1457 e qui sicuramente morto nel 1525. I suoi spostamenti fisici, i suoi incarichi come religioso e le sue commissioni come intarsiatore, intagliatore ed architetto si evincono soprattutto dalle Familiarum Tabulae, registri conservati nell’archivio dell’archicenobio di Monte Oliveto Maggiore contenenti i nominativi degli olivetani presenti annualmente nei monasteri della congregazione…

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Il battito inarrestabile che ha scolpito il suono del rock

John Henry Bonham

(25 settembre 1980)

 

 

 

John Henry Bonham, conosciuto anche come “Bonzo”, è stato uno dei batteristi più influenti e rivoluzionari nella storia del rock, grazie soprattutto alla sua militanza nei Led Zeppelin. Nato il 31 maggio 1948 a Redditch, Inghilterra, sviluppò un interesse precoce per la batteria, affinando il suo talento suonando con vari gruppi locali prima di entrare a far parte dei Led Zeppelin, nel 1968.
Il suo stile distintivo si basava su una combinazione unica di potenza, velocità, precisione e creatività, caratteristiche che gli hanno permesso di ridefinire il ruolo della batteria nel rock. Bonham era noto per i suoi ritmi forti e complessi, capaci di spaziare da groove essenziali a strutture più intricate, spesso influenzate dal blues, dal jazz e dal funk. Aveva una padronanza unica delle dinamiche e della tecnica del single-stroke roll, che eseguiva con una forza sorprendente e con la stessa agilità che altri batteristi riservavano a stili più leggeri.
Tra i suoi marchi di fabbrica ci sono la doppia cassa suonata con un singolo pedale, con cui riusciva a riprodurre potenti e veloci pattern di cassa, una tecnica che rimane impressionante ancora oggi; l’uso creativo del tempo, perché amava giocare con tempi dispari e variazioni ritmiche, un tratto evidente in canzoni come Kashmir e The Ocean; il feeling spontaneo, nonostante la sua tecnica impeccabile, da un batterista istintivo, che preferiva suonare “sentendo” la musica piuttosto che attenendosi rigorosamente a partiture.
Quando si unì ai Led Zeppelin, la sua potente batteria divenne una delle colonne portanti del loro sound. Il suo stile travolgente si fondeva alla perfezione con i riff di chitarra di Jimmy Page e il basso di John Paul Jones, contribuendo a creare il suono esplosivo e innovativo per cui la band è ancora oggi famosa.


Alcuni dei momenti più iconici della sua carriera con i Led Zeppelin includono Good times bad times, il brano di apertura dell’album di debutto del 1969, che mette immediatamente in mostra il suo talento, con la velocità delle sue battute sul pedale singolo della cassa; Moby Dick, uno dei suoi assoli di batteria più celebri, in cui mostra tutta la sua forza e inventiva, spesso prolungando l’esibizione live fino a più di 20 minuti; When the levee breaks, dove la sua batteria è quasi ipnotica, con un groove possente che è stato campionato innumerevoli volte da artisti di diversi generi.
John Bonham ha avuto un impatto incancellabile sul mondo della musica. Il suo approccio potente e innovativo alla batteria ha condizionato generazioni di batteristi, dai musicisti rock agli artisti di generi più moderni. Bonham è celebrato per aver dimostrato che la batteria, oltre a fornire il ritmo, può essere uno strumento melodico e dinamico, in grado di guidare e definire il suono di una band.
La sua tragica morte, il 25 settembre 1980, a soli 32 anni, segnò la fine dei Led Zeppelin, poiché i membri della band dichiararono che nessun altro batterista avrebbe potuto prendere il suo posto. Tuttavia, la sua eredità continua a vivere attraverso la musica della band e l’influenza che ha avuto su batteristi di tutto il mondo. Bonham non era solo un batterista virtuoso, ma un vero visionario che ha ampliato le possibilità del suo strumento, lasciando un segno indelebile nella storia del rock.

John Henry Bonham’s “Moby Dick” 

 

 

 

La fida ninfa: letteratura, musica e scenografia
per un grande capolavoro

 

 

di Carmela Puntillo

 

 

Una cronaca manoscritta delle “Cose e fatti accaduti a Verona fra il 1731 e il 1734” ricorda la creazione sulle scene del “Nuovo teatro Filarmonico” de La fida ninfa di Vivaldi e del Gianguir di Geminiano Giacomelli. La nuova opera vivaldiana rendeva omaggio a un evento maggiore per Verona, inaugurando il suo nuovo teatro d’opera, realizzato sui piani del famoso architetto Bibiena e la cui apertura era attesa. La pazienza dei veronesi era stata messa a dura prova per tutto il tempo trascorso fra la chiusura del Teatro del Capitano nel 1715 e l’inaugurazione del Nuovo teatro Filarmonico con La fida ninfa…

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Antonio Vivaldi (1678-1741)