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Richard Wagner, Hegel e Nietzsche

 
 

La musica di Richard Wagner è una porta drammaticamente aperta sulla filosofia dello spirito di Hegel e quella dell’eterno ritorno all’uguale di Nietzsche. Allo stesso modo, Hegel e Nietzsche ne sono i librettisti, i pilastri su cui poggiano le architetture, mistiche e immaginifiche, del castello di Neuschwanstein, in Baviera, che già si intravedono quando si ascolta Wagner raccontare le vicende dello spirito del popolo tedesco!

 

 

 

Sorrento. Lo scrittore Raffaele Lauro dedica una nuova canzone a Sorrento, dal titolo “Sorrente nostalgie”, musicata dal maestro sorrentino, Paolo Scibilia. Svelato il testo della composizione, che sarà eseguita, in anteprima nazionale, il prossimo 31 marzo, a Meta.

 

Dopo l’esordio, su You Tube, della canzone-omaggio a Lucio Dalla, nel V anniversario della scomparsa del grande artista (1 marzo 2012/1 marzo 2017), dal titolo “Uno straccione, un clown”, musicata dalla band musicale “The Sputos” (ascolta), Raffaele Lauro annunzia un nuova composizione, dal titolo “Sorrente Nostalgie”, dedicata alla sua amata Sorrento, città di origine, della quale svela il testo. La musica è stata curata dal maestro compositore, anch’egli sorrentino, Paolo Scibilia. La prima esecuzione, in anteprima nazionale, avverrà venerdì 31 marzo, nella Sala Consiliare del Palazzo Municipale di Meta, nel corso della manifestazione ufficiale di conferimento della cittadinanza onoraria allo scrittore.

“Come nel capolavoro di Dalla, ‘Caruso’ – ha dichiarato Lauro – anche in questa canzone domina il legame Eros-Thanatos, che viene sublimato nella magia immortale di Sorrento, magia celebrata da famosi poeti e musicisti. Mi sono ispirato ad una storia vera, che mi è stata narrata dallo stesso protagonista, un amico francese di Parigi. Un uomo riceve, negli ultimi istanti di vita della donna che ama follemente, come un mandato: non lasciarsi sconfiggere dalla disperazione, ma ritornare a Sorrento, semmai sentirà il bisogno di lei, se vorrà ritrovarla, cioè ritornare nel ‘paradiso’ (stagioni dolci, stelle luminose, tramonti accesi, profumi acri), dove si sono sposati, realizzando  e consacrando il loro sogno d’amore, dove hanno vissuto momenti indimenticabili. Pur affranto dall’angoscia, l’uomo promette che ritornerà nella terra incantata. Il refrain svela e sottolinea tutta la magia di Sorrento, che si trasforma, per chi l’ha vissuta, in perenne nostalgia, in nostalgia d’amore. Allo stesso modo, i ricordi diventano indimenticabili. L’uomo ritrova, spiritualmente, a Sorrento, la sua donna e rivivono, insieme, i momenti più belli della loro storia, sconfiggendo, in tal modo,  il dolore e vincendo l’oblio. Così il loro amore diventa emblematico e, nel nome di Sorrento, un amore eterno. I due ricordi più intensi, che rivivono al presente, sono: la celebrazione del loro matrimonio, nel Chiostro di San Francesco; la prima notte di nozze, che unisce i due corpi in un unico afflato. Spero che diventi presto la canzone-simbolo per chi sceglierà di sposarsi a Sorrento”.

 

 

 

Lucio Dalla. In anteprima nazionale, lanciata sul web, la canzone dedicata dallo scrittore Raffaele Lauro a Lucio Dalla, in occasione del V Anniversario della scomparsa del grande artista bolognese (1 marzo 2012/1 marzo 2017). Video su YouTube

 
 
 

In occasione del V Anniversario della scomparsa di Lucio Dalla (1 marzo 2012/1 marzo 2017), e dell’imminente gemellaggio tra Sorrento e San Martino Valle Caudina, luoghi amatissimi da Dalla e legati al suo capolavoro “Caruso”, lo scrittore Raffaele Lauro (www.raffaelelauro.it), autore di tre libri sul cantautore (“Caruso The Song – Lucio Dalla e Sorrento”, 2015; “Lucio Dalla e San Martino Valle Caudina – Negli occhi e nel cuore”, 2016, e “Lucio Dalla e Sorrento Tour – Le tappe, le immagini e le testimonianze”, 2016) e del docufilm (“Lucio Dalla e Sorrento – I luoghi dell’anima”, 2015), ha dedicato una canzone al grande artista bolognese, dal titolo “Uno straccione, un clown”, musicata da Giuliano Cardella, da Paolo Della Mora e da Alberto Lucerna ed eseguita, nel video in calce, presente su You Tube, dalla band musicale “The Sputos”. ”Anche questa canzone, come i libri e il docufilm – ha dichiarato Lauro- mi è stata ispirata da Dalla. Ho scritto il testo, di getto, di notte, in preda ad una grande emozione, dopo aver sognato Lucio, mentre cantava ‘sulla piazza più grande, dove luccica l’eterno e non cala mai l’inverno’. Vi ho inserito dei meravigliosi versi autografi, che donò al suo, ed ora anche mio,  grande amico di Barletta, il giornalista Giuseppe Dimiccoli. Ringrazio i maestri Cardella, Della Mora e Lucerna, che l’hanno musicata, con il cuore, e, per l’esecuzione, la band musicale, che mi ha accompagnato, nel 2015, in qualche tappa del ‘Lucio Dalla e Sorrento TOUR’. Le immagini del video, realizzato da Michele Martucci, non potevano essere che quelle dei suoi luoghi dell’anima, di Sorrento, l’angolo del suo paradiso. Confido che questa nuova prova di amore verso Lucio possa essere raccolta da un grande interprete della canzone italiana per continuare a celebrare degnamente un uomo, un poeta e un musicista, di cui tutti sentiamo la nostalgia e avvertiamo la mancanza”.

 

Ascolta la canzone

 

Lucio Dalla (a sinistra) con Raffaele Lauro (2006)

 

The Kills

 

 

La parabola artistica dei Kills è certamente tra le più singolari degli ultimi anni. Per gli amanti del rock puro, quello allo stato brado, senza se e senza ma, i Kills hanno rappresentato una vera e propria boccata d’ossigeno all’inizio del nuovo millennio. Ascoltandoli si ha l’impressione di una band senza tempo, figlia di nessun genere musicale, ma non per indexquesto priva di personalità e di sound originale. Il loro è un rock essenziale, nel suo sound volutamente scarno, senza astrusi ritocchi decorativi e virtuosismi strumentali. Ciò che principalmente cattura è il ritmo incalzante dei loro brani e quella rabbia sempre presente sullo sfondo. Le loro canzoni sono tutte di facili ascolto, pur non seguendo la definizione comunemente nota di “pezzi orecchiabili”. La storia dei Kills si potrebbe definire figlia del caso. Alison VV Mosshart iniziò la carriera di cantante e chitarrista in una punk band nella sua città natale, in Florida. Non ancora maggiorenne, la talentuosa ragazza partì per un tour europeo con la sua band. Fu proprio durante quel tour, mentre era in un appartamento di Londra, che udì della musica provenire dalla stanza accanto. Così avvenne il primo incontro con Jamie Hinche, il quale era, a sua volta, membro di spicco di una rock-band locale. Secondo la leggenda, Alison avrebbe avuto un colpo di fulmine così intenso per la musica di Jamie, da avviare una corrispondenza intercontinentale, finalizzata allo scambio di registrazioni musicali. Inizialmente, i due si mantennero in contatto solo a distanza. Poi, Alison lasciò la sua band e prese un volo per l’Inghilterra, allo scopo di collaborare di persona con Jamie e incidere un disco. Il duo vide la luce nel 2000, con le prime esibizioni in alcuni locali londinesi. Coi nomi d’arte di VV e Hotel, i futuri Kills, grazie al loro sound volutamente scarno ma, al contempo, The-Kills-the-kills-20193618-601-389trascinante, contraddistinto dalle straordinarie capacità vocali di lei e compositive di lui, conquistarono subito una buona parte di pubblico londinese. Passò poco tempo e la stampa inglese iniziò a interessarsi dei due ragazzi. In un articolo, furono addirittura paragonati ai primi Velvet Underground. Paragone probabilmente un po’ azzardato, ma giusto o errato che fosse, contribuì al loro successo. Nel 2002, la band pubblicò il primo EP, intitolato “Black Rooster“, Domino Records. Nel 2003, finalmente, il primo disco: “Keep On Your Mean Side“, Domino Records. E’ un album dal sound estremamente semplice, nel quale si possono ritrovare certe attitudini punk, evidentissime radici blues e strizzatine d’occhio all’elettronica minimale. Il successo non fu enorme, ma il disco ottenne svariate recensioni positive da parte della stampa e fu distribuitokills-midnight-boom anche negli Usa. Bisognerà attendere il 2005, con la pubblicazione di “No wow“, Domino Records (copertina a destra), per il successo planetario. “No wow” è un disco dall’atmosfera piuttosto cupa, spesso claustrofobica. La musica sembra essere perennemente trattenuta, sempre in procinto di esplodere ma mai in grado di farlo. La maturità artistica arriverà solo nel 2008, con la pubblicazione di “Midnight boom“, Domino Records, che è sicuramente il disco meglio riuscito della loro carriera. L’album apre in gran stile col singolo “U.R.A. Fever” (ascolta), in cui le voci dei due talentuosi musicisti si mescolano in un crescendo martellante ma per certi aspetti sensuale. La seconda traccia, “Cheep and cheerfull“(ascolta), è sfegatatamente dance, una filastrocca semplice e immediata, come nel prosieguo saranno anche “Hook and line” (ascolta) e “Alphabet pony” (ascolta). Ma il momento più alto del The_Kills_Heaven_March_2011disco, lo si raggiunge con “Last day of magic” (ascolta), una canzone dal sound gradevolissimo e accattivante, con la voce di Alison (e quella di Jamie che si presta sullo sfondo in un riuscitissimo inserto) che lascia di stucco, così suadente ma aggressiva al tempo stesso. In conclusione, “Midnight boom” non è di certo un capolavoro e di certo non passerà alla storia per aver creato generazioni di proseliti o inventato un nuovo sound, ma è un disco da ascoltare, un disco che ha comunque il grande merito di risultare godibile, trascinabile e mai stucchevole. Un disco che, nella sua semplicità, non scade mai nella banalità, da ascoltare per rilassarsi e trascorrere mezz’ora lontani dai troppi pensieri della quotidianità.

Pier Luigi Tizzano

 

 

 

Faust

 

 

Tra i maggiori esponenti del kraut rock tedesco degli anni ‘70, i Faust hanno avuto il grande merito di allargare i confini della musica tutta, proponendo un rock tanto folle quanto “tecnologico”, avanti di almeno un paio di decenni rispetto al sound dell’epoca. Faust_(early_1970s)I Faust sono stati tante cose insieme: tentazioni cosmiche, viaggi nello spazio, destrutturazione, sperimentazione oltraggiosa e anche rumore, tanto rumore. La band si formò ad Amburgo, nel 1969, e, ascoltandoli, si potrebbe dire che, forse, vendettero l’anima al diavolo. Ma è molto più probabile che l’avessero data in prestito al caos e alla follia, ricevendo, in cambio, il dono di creare una musica a dir poco terribile e anarchica, una miscela esplosiva di suoni folli e perversi. Non credo di esagerare nel ritenere i Faust una delle band più influenti di tutti i tempi, assieme a Pink Floyd e Velvet Underground. L’unico peccato è che, mentre questi ultimi sono conosciuti in ogni angolo del globo, i Faust restano ancora una realtà sconosciuta al grande pubblico. Il progetto iniziale della band fu un rock tecnologico, portato alle estreme conseguenze. “In ogni paese – raccontano i musicisti nelle interviste dell’epoca – le band stanno cominciando a sintetizzare nuovi suoni. Il problema è che non viene fatto abbastanza. Un musicista, oggi, deve avere delle conoscenze di elettronica, per costruire lo strumento in grado di produrre esattamente il suono che vuole. L’ideale, per ogni musicista, è sapersi costruire gli strumenti da solo”. Per mettere in pratica questa teoria, la band si ritirò in una sorta di isolamento monastico, in un piccolo paese di campagna, nel nord della Germania, utilizzando una vecchia scuola abbandonata come studio di registrazione, con innumerevoli equipaggiamenti elettronici all’avanguardia e un registratore a otto piste. Giornate su giornate di prove e jam session e prese vita il sound mostruoso e anarchico, destinato a Faustdivenire un vero e proprio marchio di fabbrica e influenzare una moltitudine di musicisti, fino ai nostri giorni. I testi, poi, surreali e sarcastici, erano in gran parte suggestionati dal pensiero hippie dell’epoca. Nacque così, nel 1971, il primo album della band, intitolato semplicemente “Faust“, Polydor (copertina a sinistra). L’opera è una magniloquente operazione di sperimentazione, in cui tutto venne spinto all’estremo, ed è suddivisa in tre lunghi brani: “Why don’t you eat carrots?”, “Meadow meal” e “Miss Fortune“. Si parte con un fischio assordante, sotto il quale si percepiscono alcune note di “All you need is love” dei Beatles e “Satisfaction” dei Rolling Stones. Più che un omaggio alla due band storiche, i Faust vollero lanciare un chiaro messaggio: decapitare la musica che il pubblico aveva sempre ascoltato. Si trattò di una chiara scelta stilistica con la quale i Faust dichiararono guerra all’orecchio. Intendevano stravolgere l’ascoltatore con un sound malato e ricco di rumore, caotico e confuso. “Why don’t you eat carrots?” (ascolta) comincia, poi, a destrutturarsi con dei cori strampalatiage-old-shot-of-the-early-members-of-can e alcune note di pianoforte sconnesse, che avviano un jazz-rock in stile Frank Zappa. Voci demoniache si rincorrono bloccando la marcia, che riprende con calma, ma sempre più malata e caotica. La tromba fischia un motivetto quasi demenziale, al quale si susseguono altri fischi e rumori di ogni tipo, creando un caos disumano che spiazza letteralmente l’ascoltatore il quale, confuso e disorientato, non capisce su cosa doversi soffermare. A cosa serve tutta questa confusione? Molto probabilmente, i Faust miravano a far perdere il contatto con la realtà al cervello, creando un trip malefico alla fine del quale non si poteva che rimanere perdutamente innamorati. Il secondo brano, “Meadow meal” (ascolta), inizia con rumori elettronici, sui quali si inseriscono suoni del tutto casuali, sparsi qua e là. Arriva, poi, il solito assordante sibilo, dopo il quale parte una chitarra che ricorda vagamente lo stile flamenco e accompagna un cantato che non riesce ad essere classico per più di qualche secondo, perché sussulta in continuazione, con dei botta e risposta, che fanno da apripista a una jam blues-rock, dominata da chitarre elettriche strampalate e sconnesse. Quando la jam finisce, riparte il tema iniziale, col suo arpeggio inquietante e i soliti rumori sparsi. Il terzo e ultimo brano, “Miss Fortune” (ascolta), parte con delle percussioni ossessive, una chitarra tanto acida quanto completamente sconnessa e il synth, che massacra letteralmente tutta la jam. Terminata questa, arrivano voci che sembrano quasi venire dall’aldilà, sostenute da una pigra Faust_03batteria. Si aumenta di ritmo pian piano e, infine, inevitabilmente si ritorna al caos puro, che si spegne lentamente, lasciando spazio a un coro che sembra cantato da zombie. Il brano si conclude simbolicamente con un “Nobody knows if it really happened”. Nessuno sa se sia davvero accaduto. E, in effetti, terminato l’ascolto, viene quasi da chiedersi se sia stato tutto sogno o realtà. Faust rimane, in assoluto, uno dei dischi più belli del filone kraut rock e della musica tutta, una vera e propria opera d’arte, avanti di almeno due decenni rispetto alla musica del tempo, un disco malato e ossessivo, astratto, confuso, anarchico, dal sound massiccio e fortemente psichedelico, un’esperienza musicale da vivere a pieno, magari chiusi in camera e a luci spente, per poterne assorbire a pieno l’immensa portata rivoluzionaria. Dopo “Faust” la band pubblicò vari dischi, tutti più o meno validi, fino allo scioglimento, avvenuto nel 2009.

Pier Luigi Tizzano

 

C.S.I.

 

Con il muro di Berlino non è caduto soltanto il comunismo, ma un’ideologia in cui hanno creduto o sperato milioni di persone nel mondo, tra cui, certamente, anche il gruppo rock italiano CCCP – Fedeli alla linea (leggi recensione). Fu proprio in seguito al crollo del muro, che Giovanni Lindo Ferretti e soci dichiararono finita l’esperienza CCCP. csi_1_1350747800La band, a cui ogni gruppo rock nato in Italia, dopo il 1990, deve almeno un grazie, si sciolse, passando alla storia. Dopo una lunga pausa, Ferretti e il chitarrista Massimo Zamboni decisero di cimentarsi in una ulteriore esperienza musicale e dare vita ad una nuova band, i C.S.I. (Consorzio Suonatori Indipendenti). Presero parte al progetto Gianni Maroccolo, Giorgio Canali (destinato a divenire una sorta di guru per il rock indipendente italiano), Francesco Magnelli e la cantante Ginevra Di Marco. Dei vecchi CCCP restarono fuori Fatur (artista del popolo) e Annarella (benemerita soubrette). Nel 1994, il disco d’esordio, “Ko’ de mondo“, I dischi del mulo (ascolta). Un po’ del vecchio punk filosovietico alla CCCP era ancora presente, ma, per il resto, ci si trova dinanzi a un’opera innovativa e sperimentale. Il disco suona deciso e asciutto, gli arrangiamenti delle chitarre precisi e ordinati, ben lontani dal grunge, che impazzava, proprio in quegli anni, in quel di Seattle. La voce di Ferretti è la solita si conosce, fin dei tempi dei CCCP. Dopo il primo lavoro in studio, la band decise di proseguire con “In quiete“, I dischi del mulo, un live acustico, sempre del 1994. Nel disco, brillano alcuni capolavori dei vecchi CCCP, riarrangiati in chiave acustica, che acquisiscono una nuova e indiscussa bellezza. Basti pensare allo timthumb.phpstupendo arrangiamento di “Allarme” (ascolta). Per il capolavoro della band bisogna, però, aspettare il 1996. Proprio in quell’anno, infatti, i C.S.I. diedero in pasto al pubblico “Linea gotica“, Polygram (copertina a sinistra), un album dedicato al mito della resistenza, in particolar modo, a quella bosniaca di Sarajevo. Significativa la scelta di mettere in copertina la foto della biblioteca di Sarajevo che brucia, simbolo di una cultura millenaria e della convivenza tra diversi popoli ed etnie. Il disco si caratterizza per una ricerca spasmodica dell’intimità, testimoniata dalla quasi totale assenza delle percussioni, dai ritmi lenti e dalla uniformità timbrica delle chitarre. Il punto di partenza dell’album è proprio Sarajevo, città assediata, dove si consuma una tragedia che riguarda l’Europa tutta. “Cupe Vampe” (ascolta), il primo brano del disco, trasporta nell’apocalisse della città bosniaca con il solenne, ma sofferto, cantato di Ferretti, la malinconica chitarra acustica e il violino, che risuona cupo e ostinato. Segue l’oscura e misteriosa “Sogni e sintomi” (ascolta), caratterizzata dal suono del basso, capace di inquietare l’ascoltatore 5a26396039c8eeeea93b200dbbe986a1_668x376per tutta la durata del brano. Non ci sono parole, poi, per descrivere “E ti vengo a cercare” (ascolta), realizzata in collaborazione con Franco Battiato. Ci si trova di fronte a una canzone d’amore, spiazzante, romantica e sensuale, introdotta da chitarre distorte, che si intrecciano magicamente, con Ferretti che duetta maestosamente con i cori di Ginevra Di Marco. “E ti vengo a cercare” è, senza ombra di dubbio, uno dei momenti più alti dell’album e della carriera dei C.S.I. Altra perla del disco è “Esco” (ascolta), la cui parte finale, in particolare, è magnifica: le chitarre dialogano perfettamente con la batteria e con il resto degli strumenti, a testimonianza dell’immensa professionalità dei musicisti. In “Blu” (ascolta), vi è la dimostrazione dell’importanza della voce secondaria di Ginevra, senza la quale, sicuramente, i C.S.I. non sarebbero stati così grandi. “Millenni” (ascolta) è un brano che analizza, in maniera molto critica, le religioni e le infinite contraddizioni che vi sono in esse. “L’ora delle tentazioni” (ascolta) è un altro pezzo stupendo, hqdefaultnove minuti in cui il pianoforte accompagna la delicatissima voce della Di Marco e un Ferretti più ispirato che mai. L’album chiude in bellezza con “Irata” (ascolta), brano molto ispirato e ricco di citazioni letterarie. “Linea Gotica” può, dunque, annoverarsi tra i dischi più belli della musica italiana e rappresenta, di sicuro, il capolavoro dei C.S.I. Un album intenso, struggente, maestoso, superbo, ma anche impegnato, dal punto di vista sociale, indimenticabile, fragile e maledettamente malinconico. Per usare le parole di Giovanni Lindo Ferretti, ‘’Linea Gotica è un disco di chitarre elettrificate. A conti fatti, è questo il suono del nostro tempo, per quanto detestabili possano essere questo tempo e questo suono“.

Pier Luigi Tizzano

 

 

Scorpions

 

Chi non conosce gli Scorpions? Forse in pochissimi. Sono una vera e propria leggenda del rock e, con ogni probabilità, dopo Led Zeppelin, Pink Floyd e Queen seguono proprio loro per fama e milioni di dischi venduti in tutto il mondo (oltre cento milioni). Purtroppo, però, non tutti, anzi, forse in pochi, li conoscono veramente bene. Per la maggior parte delle persone, gli scorpions-546614ff8e615-lScorpions sono quelli di “Wind of change” (ascolta), storica hit del 1991, che scalò le classifiche europee e non. Alcuni, poi, giusto un po’ più colti musicalmente, conoscono anche “Still loving you” (ascolta), storica ballata che, ancora oggi, continua a mettere i brividi. Per la maggior parte delle persone gli Scorpions sono soltanto una band hard rock degli anni ‘80. Ma non è così. Gli Scorpions, infatti, sono ben altro. La loro carriera comincia nei primi anni ‘70 e proprio nei ‘70 hanno dato alla luce i dischi più belli della loro saga (senza voler sminuire assolutamente quanto fatto negli ’80, nei ‘90 e tutt’ora). Essendo io un loro fan sin dall’adolescenza, voglio rendere giustizia a questa band e recensire il loro secondo semisconosciuto lavoro in studio (il mio preferito), datato 1974. Prima, però, voglio raccontare la storia del gruppo. Gli Scorpions sono una hard rock band, fondata nel 1965 ad Hannover (Germania), dal chitarrista Rudolf Schenker. Rimase nell’anonimato per circa quattro anni, poi, nel 1969, Rudolf ingaggiò suo fratello minore Micheal e il cantante Klaus Meine. La scelta si Scorpions-3-¸-Udo-Wegerdimostrò più che giusta e la band iniziò a riscuotere un discreto successo nei locali rock e nei circoli underground. Dopo svariati concerti e ore passate in sala prova, la band sembrò essere pronta per l’esordio. Nel 1972, il loro primo disco: “Lonesome crow“, Rhino Entertainment (ascolta). L’album, purtroppo, non è dei migliori, l’esordio passa inosservato e snobbato dalla critica. Il disco è piuttosto immaturo e chiaramente ispirato ai primi Led Zeppelin, anche se ci sono dei momenti di puro genio, che lasciano capire chiaramente di che pasta siano fatti i ragazzi. E’ chiaro, sin dal primo momento, che la band è composta da ottimi musicisti, ma ha solo bisogno di un po’ di tempo per affinarsi e mettere in chiaro le idee sullo stile da adottare. Gli Scorpions non si danno Scorpions-Fly_To_The_Rainbowper vinti e nel 1974 lanciano sul mercato il loro secondo (capo)lavoro: “Fly to the rainbow“, RCA Records (copertina a destra). Il disco (ascolta), a differenza del primo, viene accolto con molto entusiasmo da pubblico e critica, tanto che la band tedesca guadagna il titolo di “gruppo rock emergente dell’anno”. L’album è sicuramente uno dei migliori della band, ma sarà destinato a rimanere nell’ombra, soprattutto grazie al successo planetario che il gruppo avrà negli 80’ con un hard rock tanto duro quanto ballabile. Il brano di apertura, “Speedy’s coming” (ascolta), canzone breve e veloce, riassume tutto ciò che fanno gli Scorpions: un hard rock duro e fulmineo, ricco di assoli chitarristici, estremamente tecnici e virtuosi. In “They need a million” (ascolta), la band si calma un pochino e tira fuori atmosfere arabe ed esotiche, strizzando l’occhio alla psichedelia floydiana. La canzone racconta dell’irrefrenabile voglia delle persone di accumulare soldi, demonizzando e quasi indicando il denaro come il peggior male dell’umanità (in linea con l’ideologia hippie dominante all’epoca). “Drifting sun” (ascolta), permette al chitarrista di mostrarsi grande fan e allievo di Jimi Hendrix, usando tantissimo la leva del vibrato e vari pedali effettati. Non è sicuramente un brano di facile comprensione, soprattutto perché le ritmiche sono complesse ed elaborate. Molto interessante anche “Fly peolpe fly” (ascolta), ballata quasi strappalacrime, che parla di libertà e voglia di volare, volare verso l’infinito e in luoghi lontani dalla Terra e dai suoi abominevoli peccatori. Altra grande ballata è “Far away” (ascolta), dal ritmo lento e vagamente spagnoleggiante. In “This is my song” (ascolta)compare uno dei primi esempi di chitarra incrociata tra Schenker e Roth, tecnica che la band riproporrà in tantissime canzoni del futuro e ispirerà la musica di gruppi scorpionsimportanti come Judas Priest e Thin Lizzy. Il testo è quasi una filastrocca, basato su due singole frasi che si ripetono in continuazione per tutta la durata del brano e cantate da Klaus in maniera impeccabile. Il momento più alto del disco si ha alla fine, con “Fly to the rainbow“, capolavoro della band e del rock tutto. “Fly to the rainbow” (ascolta)inizia con un intro di chitarra acustica per poi sfociare in una vera e propria cavalcata, in cui dominano chitarre affilate come rasoi e distorte fin quasi all’inverosimile. Il tutto si chiude con un outro psichedelico che sembra un vero e proprio omaggio ai Pink Floyd e al kraut rock suonato da tanti connazionali della band e che proprio in quegli anni viveva in Germani il suo periodo d’oro. “Fly to the rainbow” è sicuramente uno dei capolavori degli Scorpions, un disco da ascoltare con la massima attenzione per non perdere nessun passaggio. Un disco da ascoltare se non altro per poter comprendere a pieno l’inizio della magnifica saga Scorpions. Al suo interno è custodito gelosamente il segreto per capire quella irrefrenabile voglia della band di fare musica “pensata” ma che, al tempo stesso, riesca ad entrare nella testa delle persone la prima volta che la si ascolta. Dopo “Fly to the rainbow” la band produrrà altri ottimi dischi (“In trance“, “Virgin Killer“, “Taken by force“) destinati, più o meno, a rimanere nell’ombra. Tutto il resto, dagli anni ‘80 ad oggi, è leggenda.

Pier Luigi Tizzano

 

Buon quarantesimo compleanno, Bohemian Rapsody

 

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31 ottobre 1975 – Bohemian Rapsody – 31 ottobre 2015

 

Ascolta Bohemian Rapsody

 

Is this the real life?
Is this just fantasy?

Caught in a landslide
No escape from reality.
Open your eyes,
Look up to the skies and see.
I’m just a poor boy, I need no sympathy,
Because I’m easy come, easy go,
Little high, little low,
Anyway the wind blows doesn’t really matter to me,
to me.

Mama just killed a man,
Put a gun against his head,
pulled my trigger, now he’s dead.
Mama, life had just begun,
But now I’ve gone and thrown it all away.
Mama, ooh,
Didn’t mean to make you cry,
If I’m not back again this time tomorrow,
Carry on, carry on as if nothing really matters.

Too late, my time has come,
Sends shivers down my spine,
body’s aching all the time.
Goodbye, ev’rybody, I’ve got to go,
Gotta leave you all behind and face the truth.
Mama, ooh,
I don’t want to die,
I sometimes wish I’d never been born at all.

I see a little silhouette of a man,
Scaramouche, Scaramouche, will you do the Fandango.
Thunderbolt and lightning, very, very fright’ning me.
(Galileo.) Galileo.
(Galileo.) Galileo,
Galileo figaro Magnifico.
I’m just a poor boy and nobody loves me.
He’s just a poor boy from a poor family,
Spare him his life from this monstrosity.
Easy come, easy go, will you let me go.
<Bismillah! No, we will not let you go.
(Let him go!) Bismillah! We will not let you go.
(Let him go!) Bismillah! We will not let you go.
(Let me go.) Will not let you go.
Will not let you go. (Let me go.) Ah.
No, no, no, no, no, no, no.
(Oh mama mia, mama mia.) Mama mia, let me go.
Beelzebub has a devil put aside for me, for me, for me.

So you think you can stone me and spit in my eye.
So you think you can love me and leave me to die.
Oh, baby, can’t do this to me, baby,
Just gotta get out, just gotta get right outta here.

Nothing really matters, anyone can see,
Nothing really matters,
Nothing really matters to me.

Any way the wind blows…

 

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Dødheimsgard

 

Sappiamo veramente poco della storia dei Dødheimsgard (DHG). Sono un fenomeno di nicchia a tutti gli effetti, con pochi ma buoni fans. Impossibile scriverne una biografia completa. DSC7966Tutto quello che si sa con certezza è che i DHG sono una band norvegese, nata nel 1994, e capitanata dal polistrumentista Vicotnik (nome di battesimo Yusaf Parvez). Inizialmente dediti a un black/death metal dal sapore tipicamente nordico, hanno, poi, virato verso sonorità più sperimentali e un’attitudine tipicamente progressive, con l’album “666 International”, Moonfog Production, 1999 (ascolta). La band ha pubblicato cinque dischi in vent’anni, e ciò, in fondo, è stato un bene, perché ha permesso ai ragazzi di mantenersi sempre su certi livelli e non scadere nella banalità, come spesso accade a
chi ha fretta di pubblicare un album o è pressato dai discografici per produrre musica quanto prima.p19bih03e71nfj1ktd6tn94g1e204 Dei cinque dischi, il più maturo, folle e sperimentale, è sicuramente l’ultimo, “A umbra omega”, Peaceville Records, 2015 (copertina a sinistra). Ci sono voluti otto lunghi anni per dare alla luce questo capolavoro. Un’eternità nell’ambiente discografico odierno, che divora emozioni alla velocità della luce e sforna dischi con impressionante velocità. Ma tutto ciò sembra non preoccupare minimamente i DHG, band troppo fuori dagli schemi, avanti e lontana da qualsiasi moda o modello preimpostato di musica. “A umbra omega” (ascolta) non è un disco dal facile ascolto, è tortuoso e per certi versi ostile, tenebroso e oscuro, maledettamente complicato nella sua intenzione (così come dichiarato dalla band in una delle rarissime interviste) di trasmettere all’ascoltatore il disagio e l’angoscia dell’essere umano al cospetto del proprio mistero. Definire “A umbra omega” un disco sarebbe un errore. Esso non è soltanto un disco, ma un’esperienza sonora allucinante e sontuosa, da vivere col fiato sospeso, da assorbire in ogni singola nota e lasciarsi travolgere. 1424_photoL’album si compone di cinque brani più una breve intro, per oltre un’ora di follia e sperimentazione, un’orgia di suoni e di emozioni difficilmente descrivibili con parole, dinanzi alla quale si annulla persino il concetto di recensione. Complesso nella struttura e vario nei generi in cui spazia, “A umbra omega” mantiene comunque salda una chiara impronta black metal, alla quale si uniscono, meticolosamente studiati in ogni dettaglio, pianoforti, sax, sonorità acustiche e industrial. Preannunciato dalla breve intro “The love divine” (ascolta), il capolavoro “Aphelion void” (ascolta) apre le danze all’insegna di un black metal brutale e claustrofobico, interrotto bruscamente da giri di pianoforte e carezze di sax, da momenti chitarristici melodici, ma mai dolci, quasi a disegnare uno scenario gelido e schizofrenico. La voce è tipica del metal più duro e, assieme agli strumenti, raffigura scenari oscuri e malinconici, capaci di soffocare l’ascoltatore. Momenti più introspettivi si alternano a brutali cavalcate metal, entrando in rotta di collisione e dando vita a un sound più unico che raro, geniale nella sua sfrontatezza. “God protocol axium” (ascolta), invece, si struttura intorno ad arpeggi di chitarra volutamente ossessivi, che sfociano in scenari tipicamente ambient e in cori a sfondo mistico. Di fondo, sempre un black metal possente, il cui compito sembra quello di dichiarare improvvisamente guerra ai momenti “leggeri” e catapultare gli strumenti verso la velocità, il rumore e la precisione quasi aritmetica. Altro picco di grande creatività lo si raggiunge in “Architect of darkness” (ascolta), in cui gli DHG si cimentanoddheimsgarddhg_live_band in un metal dal ritmo lento e quasi d’atmosfera, interrotto da cori cupi e maestosi. Il disco termina in bellezza con “Blue moon duel” (ascolta), quattordici minuti di evoluzioni sonore precise e meticolose, tra tempeste sinfoniche, cori come d’abitudine, trombe epiche e violentissime raffiche di adrenalina. “A umbra omega” è un disco decadente e devastante, anarchico, geniale ed estremo come pochi. E’ sicuramente uno dei momenti di maggiore creatività di questo acerbo 2015, probabilmente uno dei migliori dischi dell’anno, almeno per quel che riguarda il metal, ma (purtroppo?) destinato a un pubblico di pochi e raffinati ascoltatori. “A umbra omega” è pura arte, da ascoltare con meticolosità e attenzione, per comprendere a pieno le sue mille sfaccettature e influenze, la sua ambizione e mentalità d’avanguardia. Un disco che si può continuare ad ascoltare per mesi e trovare ad ogni ascolto nuovi aspetti e sonorità nascoste, tanto è terrificante in queste, quanto è avanti nella mentalità. Da comprare a scatola chiusa!

Pier Luigi Tizzano