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Buon compleanno, Killer!

 

Se devo andare all’inferno, ci andrò col mio pianoforte!” (J. L. Lewis)

Oggi, 29 settembre, Jerry Lee Lewis compie ottant’anni. Pochi avrebbero scommesso che sarebbe vissuto così a lungo, visti gli eccessi che si concedeva.
Musicalmente è (perché fa ancora tournèes) un concentrato di ego e presunzione, oramai seppellite dall’età, ma, soprattutto, di genio e di talento ancor più grandi. Si fosse “prostituito” come tanti suoi colleghi…

Remigio Colonna

 

Scena dal film “Great Balls of Fire! – Vampate di fuoco”, di Jim McBride, 1989
(guarda)

 

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Baustelle

 

I Baustelle sono una piccola rivoluzione tutta italiana. Sono la pop band che più di tutte ha fatto e continua a fare pop nel belpaese, quello con la P maiuscola, vero, genuino, ispirato principalmente ai grandi compositori degli anni ‘60 e ben lontano dalle logiche commerciali delle case discografiche, che sfornano fenomeni da baraccone e ritornelli demenziali dell’estate al mare e nelle disco. La band nasce nel 1994 a Siena, come classica formazione di studenti universitari, che cercano di suonare in qualche locale per sbarcare il lunarioBaustelle - XL e finanziarsi gli studi. Sin dal primo momento, è chiaro che l’anima del gruppo sia Francesco Bianconi, talentuoso e passionale musicista toscano, innamorato dei grandi autori degli anni ‘60 e ‘70, in primis De Andrè, ma anche Piero Ciampi, Battisti, Battiato e soci. Gli altri membri sono Rachele Bastreghi, cantante e tastierista, Fabrizio Massara, arrangiatore e tastierista, e Claudio Brasini, chitarrista. Dopo vari ep piuttosto noiosi e snobbati dal pubblico, la svolta avviene nel 2000, con il primo disco autoprodotto, dal titolo “Il sussidiario illustrato della giovinezza” Baracca&Burattini. Si tratta di un album molto particolare, quasi una sorta di concept, che narra di un’adolescenza spensierata e tutta italiana. Il disco ha immediatamente successo, anche grazie ai duetti vocali Bianconi – Rastreghi, divenendo in breve un vero e proprio album di culto per quella generazione che non si rispecchia nelle classifiche nazionali e cerca nella musica indipendente la sua identità perduta. Nel 2003, arriva “La moda del lento”, Mimo Sound Records, in un momento molto particolare per la band, che sta quasi per sciogliersi per problemi economici e per le incertezze sul futuro. “La moda del lento” è un disco accattivante e un po’ diverso rispetto al primo. Meno Baustelle-La_Malavita-Frontalchitarre elettriche e più elettronica e atmosfere dal gusto retrò, per un pop ben più raffinato rispetto al “Sussidiario”. Dopo “La moda del lento”, la band ottiene finalmente un contratto con la Warner Records e dà in pasto al pubblico “La malavita”, 2005 (copertina a sinistra). “La malavita(ascolta) è l’album per eccellenza dei Baustelle, non solo per via del loro passaggio ad una major (la Warner), ma perché segna le definitive scelte stilistiche e musicali della band. Nel disco si avverte, innanzitutto, una decisa svolta in senso cantautoriale. Bianconi abbandona il carattere personale dei testi per gettarsi su temi esistenziali e ben più profondi. “La malavita” è un disco drammaticamente romantico e dal gusto dolce-amaro. Tema dominante di tutte le tracce è il mal di vivere. Su 11 brani, infatti, due parlano di suicidio e i restanti nove narrano degli esclusi della società. “La malavita” inizia con una intro strumentale, “Cronaca nera(ascolta), in cui la Bastreghi si cimenta in un lungo assolo sul suo strumento, a cui seguono basso chitarra e batteria. Un’apertura che si sposa perfettamente con la seconda traccia del disco, “La guerra è finita“, estratta, poi, come singolo. “La guerra è finita(ascolta) è in assoluto il capolavoro del disco e della band. La melodia pop è perfetta e orecchiabile, la voce di Bianconi retrò e il testo, di una bellezza disarmante e ricco di rime originali, narra la storia di un’adolescente che finisce col suicidarsi dopo essere caduta nella trappola Baustelle-verticaledella tossicodipendenza. “La guerra è finita” è una vera e propria anomalia nel panorama pop italiano, quasi una piccola rivoluzione. E’ il modo con cui Bianconi e soci annunciano al belpaese che la musica made in Italy non è morta, che ancora c’è spazio per testi profondi e realistici ed è possibile farli apprezzare al grande pubblico. Altra grande canzone è “Revolver” (ascolta), cantata da Rachele Batreghi, con voce fredda ma decisa. Poi, “I provinciali(ascolta), perfetto connubio tra elementi orchestrali e rock, che narra dell’alienazione e dell’arretratezza delle provincia italiana. “Un romantico a Milano(ascolta), invece, tratta dello smarrimento della figura del romantico nella fredda e apatica metropoli settentrionale. In “Sergio(ascolta), Bianconi racconta dello scemo del villaggio, mente in “Il corvo Joe(ascolta) il volatile diventa metafora degli esclusi e dei derelitti. Il finale del disco è affidato a “Cuore di tenebra“, lampante citazione del romanziere Joseph Conrad, in cui i Baustelle, forse un po’ banalmente, suggeriscono l’amore come il miglior antidoto al mal di vivere. “La malavita” è un ottimo disco pop, con canzoni ben fatte e dai temi affascinanti e profondi, in controtendenza rispetto al resto della musica italiana, che anno dopo anno cade sempre più in basso. I Baustelle sono musicalmente attivi tutt’ora e dopo “La malavita” hanno pubblicato diversi album validi e ottimi singoli (“Colombo“, “L’aereoplano“, “Gli spietati“, “La morte non esiste più“) cimentandosi con temi sempre più complessi e a volte schierandosi politicamente. L’ultimo album si intitola “Fantasma“, Warner Atlantic, datato 2013.

Pier Luigi Tizzano

Mercury Rev

 

Il percorso artistico dei Mercury Rev, eroi della psichedelia contemporanea, è stato tanto poliedrico quanto spericolato, iniziato, coi primi lavori, all’insegna di una psichedelia caotica e delirante e continuato con la riscoperta di un certo pop genuino e orchestrale, condito con atmosfere barocche. I Mercury Rev rappresentano una delle più importanti mercuryrev_1_1354103595realtà dell’underground negli ultimi due decenni. La loro musica affonda le radici nel più glorioso passato. In essa, sono riconoscibili sicuramente influenze beatlesiane, tenue psichedelia stile Velvet Underground e atteggiamenti tipici del progressive. I Mercury Rev nascono nel 1989 a Buffalo, Stati Uniti, e, dopo qualche anno di gavetta e creazioni di colonne sonore per film minori, si ritrovano con la formazione definitiva. Il nucleo iniziale comprende l’originale ed eccentrico David Baker alla voce, il chitarrista Sean “Grasshopper” Mackiowiak, la flautista Suzanne Thorpe, Jimmy Chambers alla batteria, Jonathan Donahue alla chitarra e seconda voce e il bassista Dave Fridmann, già produttore e ingegnere del suono per i Flaming Lips. La storia del gruppo può essenzialmente suddividersi in due grandi fasi: una prima, in cui a farla da padrone è certa psichedelia delirante e drogata, a tratti demente e spesso molto caotica, e una seconda, in cui la band “riscopre” la canzone classica, fatta di strofa e ritornello, e condita da orchestre barocche e atmosfere degne del pop più genuino. Capolavoro della prima fase è “Yerself is steam“, Columbia Records, 1991. Il disco è talmente originale che riesce ad emanciparsi da qualsiasi forma di rock in voga all’epoca. E’ naturalmente lontano anni luce dal grunge (genere che non mai avuto nulla a che vedere con la psichedelia), ma anche da certa psichedelia tipicamente statunitense e dal sound shoegaze. “Yerself is steam” (ascolta) è essenzialmente un disco anarchico, che gioca tutto, o quasi, sulle dissonanze delle chitarre e su dolci melodie di flauto, che creano una atmosfera stralunata e delirante, a volte persino romantica. Dal disco viene Mercury+Revestratto come singolo “Chasing a bee” (ascolta), una ballata malata e decadente, in cui chiaramente si intuisce il devastante uso di droga della band. Da menzionare anche “Blue and black” (ascolta), agghiacciante melodia, retta da piano e orchestra, e cantata da un Baker più stravolto che mai. Degna di nota, anche “Sweet oddysee of a Cancer Cell T’ Th’ Center Of Yer Heart” (ascolta), pura sinfonia di rock psichedelico che accumula, per tre minuti, una tensione in grado di snervare l’ascoltatore, per poi esplodere in uno tsunami di distorsioni ululanti. Il pezzo è uno dei capolavori della band, una sintesi perfetta e cinica del loro modo di fare musica. L’apoteosi del loro rock è, però, nel pezzo finale, “Very sleepy rivers“, (ascolta) una ballata spettrale, dall’atmosfera opprimente e claustrofobica, dove la chitarra ripete in continuazione una melodia svogliata e Baker, come in preda a un bad trip, canta in modo delirante, prima biascicando, poi urlando come un indemoniato. Il disco è un fulmine a ciel sereno, una sorta di anomalia nel panorama rock dell’epoca. Poche band riescono a suonare un rock così rumoroso ma condito da arrangiamenti curatissimi nei dettagli e melodici. Purtroppo, per una serie di vicissitudini discografiche, e a causa di Baker, che suona sempre imbottito di droghe, rovinando spesso le esibizioni live, l’album non avrà un gran successo e sarà snobbato da gran parte della critica. Dopo “Yerself is stem“, è la volta di “Boces” Beggars Banquet Records, 1993, secondo disco del primo corso psichedelico della band. “Boces” è, però, meno estremo e più dolce nelle melodie, ben lontano, quindi, dall’essere il clone del primo disco.Mercury_Rev_Lo_Res_Album_Art Dopo “Boces“, inizia la seconda fase della loro carriera musicale, all’insegna della riscoperta della canzone classica e del pop barocco e orchestrale. Simbolo per eccellenza di questo nuovo corso è “Deserter’s song“, V2 Records, 1998 (copertina a destra). “Deserter’s song” è un album elegante e dall’orchestrazione magniloquente, dalle atmosfere che richiamano la Belle Époque e dal cantato dolce e aggraziato. In quasi ogni pezzo del disco è presente una sorta di progressione per accumulazione, in base alla quale le canzoni iniziano con arrangiamenti scarni, eseguiti da pochi strumenti, per sfociare, pian piano, in un’apoteosi di suoni, che creano atmosfere sognanti. L’apertura è affidata a “Holes” (ascolta), canzone fiabesca e incantata, che sembra quasi aver la capacità di fermare il tempo. Poi, il capolavoro “Tonite it shows” (ascolta), introdotto da xilofono e fiati, cui seguono arie fantasy che accompagnano l’ascoltatore in un mondo di fiabe e folletti. “I collect coins” (ascolta), invece, spiazza tutti. Dopo aver messo in mostra la loro abilità di arrangiatori classici, i Mercury Rev, con questa mini ballata di piano, sembrano portare indietro nel tempo, per far assaporare la bellezza della musica anni ‘30. “Opus 40” (ascolta) è il pezzo più melodico del disco, un’orgia di suoni, colori e vitalità, un ritornello dalla spontaneità disarmante. “Hudson line” (ascolta) è una melodia hqdefaultingenua e infantile, puntellata dal sassofono e da sporche chitarre elettriche. “Goddess on a Highway” (ascolta) è il pezzo più rock del disco, anche se mantiene costante spensieratezza e ingenuità. “Deserter’s song” è, in conclusione, un capolavoro in cui tutto è perfetto, lussuoso e trasognante. Un’opera maestosa che non si può ascoltare con leggerezza, ma viverla e starci dentro. E’ un disco che chiede intimità, da ascoltare in solitudine, per poter essere apprezzato a fondo e capirne la grandezza. “Deserter’s song” è un disco assolutamente privo di tempo e avulso dal suo tempo, che si eleva fino ad altezze irraggiungibili per la maggior parte delle band anni ‘90. E’ forse la più bella esperienza musicale dei ‘90.

Pier Luigi Tizzano

 

Slowdive

 

La straordinaria intuizione di fondere le atmosfere eteree del dream pop coi riverberi distorti degli shoegazer, ha fatto degli Slowdive una delle band più originali sulla scena underground dei primi anni ‘90. Il loro sound, suggestivo ed evocativo, pieno di colore e fantasia,slowdive_1 ha colpito dritto al cuore gli appassionati di rock e non solo. Gli Slowdive rappresentano, senza ombra di dubbio, l’ala più romantica del movimento shoegaze. Anzi, essi sono la band più significativa di questa particolare corrente, che caratterizzò la scena britannica, tra il finire degli ‘80 e gli inizi ’90, ancor più dei My Bloody Valentine (leggi articolo), band troppo originale e fuori dagli schemi, per poter essere inquadrata con facilità in qualsivoglia genere. Siamo nel 1989, quando tre ragazzi timidi, poco più che adolescenti, decidono di metter su una band e inseguire il loro sogno musicale. Si tratta di Neil Halstead e Rachel Goswell, al canto e alle chitarre, e di Nick Chaplin al basso. Sarà presto reclutato un batterista, Adrian Sell, e, infine, si unirà anche un terzo chitarrista, Christian Savill. Il nome della band si ispira a un sogno fatto dal bassista e non come erroneamente spesso si crede, alla famosa canzone dei Siouxsie. La prima demo tape, contenente due canzoni, in cui le voci sussurrate e sognanti vengono sommerse da distorsioni Slowdive-maindi chitarre lancinanti, li accosta subito al movimento degli shoegazer, che viveva in quegli anni il suo periodo di massimo splendore. Nel 1990, finalmente, un contratto discografico e la band dà vita al primo omonimo Ep. A far colpo sul pubblico ci pensa “Avalyn” (ascolta), una canzone lenta e rarefatta, in cui inizia ad emergere il loro stile personale e una visione piuttosto pessimistica della vita. La musica avanza lenta e, come in trance, le voci sono soffuse, eppure dal forte potere evocativo. E’ chiaro, ascoltando il brano, che il rock degli Slowdive è l’ideale punto d’incontro tra il dark dei primi anni ‘80, i rumori degli shoegazer e le atmosfere sognanti dei Cocteau Twins (leggi articolo). Con il secondo Ep, “Morningrise” (ascolta), la band perfeziona il suo stile e inizia a volare alto, tra un pubblico, che li segue, sempre più numeroso. La title track è una ballata di rara bellezza, disarmante, di quelle che lasciano col fiato sospeso. Just_For_a_DayPoi, c’è “Losing today” (ascolta), dalle atmosfere cupe e tenebrose, cantata con un filo di voce, quasi impercettibile. Ormai, tutto è pronto per il gran debutto e, nel 1991, la band crea “Just for a Day”, Creation Records (copertina a destra), il grande capolavoro della loro carriera musicale. Dopo gli splendidi Ep, l’attesa era forte e da loro ci si aspettava un gran disco. “Just for a Day” andò ben oltre le aspettative del pubblico più esigente. Ascoltarlo è un’esperienza che può segnare per la vita. E’ un po’ come entrare in quei quadri che ritraggono panorami solenni e incontaminati, avvolti, però, da una nebbia lattiginosa, che crea quell’atmosfera un po’ malinconica, In tal senso, si può citare come esempio “Catch the breeze” (ascolta), una canzone dominata da un ritmo irregolare, sul quale si inseriscono chitarre tintinnanti e una melodia triste, ma dal forte impatto emotivo, e con un ritornello di un romanticismo senza tempo. Poi, il finale strumentale, con le tre chitarre che intrecciano i loro feedback, creando una musica che è pura astrazione ambientale. Si può, inoltre, riportare “Ballad of sister Sue” (ascolta), una ballata tragica e struggente, maledettamente malinconica ma che non intristisce l’ascoltatore, bensì lo rapisce, per trasportarlo in un mondo dove malinconia è bellezza, pura, ingenua, incontaminata. Altrove, invece, prende il sopravvento la bellezza della melodia, celestiale e maestosa. maxresdefaultE’ il caso di “Celia’s dream” (ascolta) e dell’omaggio ai maestri Cocteau Twins, “Brighter” (ascolta). La band riesce anche ad evitare di essere ripetitiva, producendo canzoni ambiziose che vanno oltre il semplice concetto di strofa-ritornello. E’ il caso di “Spanish air” (ascolta), un pezzo possente ed orchestrale, ai limiti del progressive, una lunga cavalcata onirica con un ritornello medioevale e un arrangiamento tanto elegante quanto complesso. La chiusura del disco è affidata a “Primal” (ascolta), una canzone per certi versi devastante, ma avvolta in una sorta di trance mistica, che evoca la ricerca della pace interiore, almeno fino a quando non trova spazio un crescendo che sfocia in una magnifica psichedelia strumentale. Definire “Just for a Day” un capolavoro è forse riduttivo. “Just for a Day” è una vera e propria opera d’arte, firmata da ragazzi poco più che ventenni. Un’opera immensa, maestosa, incontaminata, visionaria e rivoluzionaria, onirica e sensuale. Un disco da ascoltare fino a perdere i sensi ed estraniarsi dalla realtà. Irripetibile e immortale.

Pier Luigi Tizzano

 

 

Sisters of Mercy

 

Ascoltare i Sisters of Mercy è un po’ come fare un viaggio dannato negli inferi del rock. Tra voci catacombali, cavalcate elettroniche e danze tribali, la band è riuscita nell’impresa di stregare l’intera generazione anni ‘80 e non solo. I Sisters of Mercy, assieme ad altre band sistersofmercy_1_1354922937importanti come i Bahuaus o la “regina della notte” Siouxsie, sono tra i principali protagonisti della stagione dei “darkettoni”, ragazzi vestiti rigorosamente di nero e adoratori di una musica tetra e depressa. Ma, in realtà, la band britannica è andata ben oltre gli stereotipi del genere, riuscendo a coniare un sound personalissimo, dato dalla combinazione tra chitarre distorte, in stile hard rock, e ossessive ritmiche elettroniche. Un sound maestoso e imponente, capace di evocare passioni violente, grazie anche al timbro vocale del “messia del gotico”, il cantante Andrew Eldritch, vero e proprio asso della band. Il gruppo si forma in Inghilterra, a Leeds. Sisters of Mercy (sorelle della misericordia) sono le prostitute dell’omonima canzone di Leonard Cohen. La band ama l’ambiguità tra il significato originale dell’espressione, che si riferisce ad un ordine di suore, e la prostituzione. latestL’esordio non è dei più facili. Partiti da un funk rock snobbato dal pubblico, il timone della nave è presto preso da Eldritch, il quale, col suo carisma e la sua voce cavernosa, riesce a conquistare i patiti del rock e, in particolare, della darkwave anni ‘80. Nel 1983, la band riesce a sfondare ed entrare nell’olimpo degli dei del dark, assieme a Siouxsie, Bahuaus, Cure e Joy Division. I Sisters of Mercy irrompono sulle scene con un sound rock molto elettronico, ossessivo e pieno di riferimenti esoterici. Con questa formula, arrivano i primi successi, come “Anaconda” (ascolta) e “Alice” (ascolta), destinata, poi, a diventare uno dei loro capolavori. “Alice” sembra il classico pezzo in stile Siouxsie, a cui si aggiunge, però, quel tocco di originalità, grazie alla voce lugubre del “messia del gotico”. I Sisters of Mercy sono ormai pronti per il grande passo e registrano il loro primo Ep, “The Reptile House“, Merciful Release, 1983 (ascolta). In questo Ep sono già presenti i primi gioielli della band, come la cover spettrale di “Gimme Shelter” (ascolta) e “Temple of Loveindex (ascolta), destinata a divenire leggenda, uno dei più grandi pezzi della storia del dark e del rock tutto. Subito dopo l’Ep, la consacrazione a dark band di culto con l’album “First and last and always“, Merciful Release, 1985 (copertina a destra). Il disco è, in assoluto, il più brillante della loro carriera. La band riesce a coniare, sin dall’esordio discografico, uno stile assolutamente unico. Le loro atmosfere sono tra le più macabre della stagione dark, grazie, soprattutto, al cantato catacombale di Eldritch. Ma ascoltandoli, il lato oscuro della loro musica passa a volte inosservato, perché i Sisters of Mercy riescono, nonostante tutto, a proporre canzoni ballabili e di una certa metodicità. “First and last and always” (ascolta) è una sintesi di tutto il loro modo di fare, e contiene, tra l’altro, la canzone più malata della band: “Marian” (ascolta), una spaventosa danza macabra, un cerimoniale tetro e di eterna perdizione, cantato dal “messia del gotico” in un tono così basso e cavernoso da incutere persino paura. “Marian” è una canzone che da sola vale un intero disco ed è, senz’altro, uno dei capolavori indiscussi del dark e, oserei dire, del rock tutto. Oltre “Marian“, nel disco spicca anche “Black Planet” (ascolta), una canzone depressa e ipnotica, con tanto di cori liturgici come da migliore tradizione del dark. “Walk away” (ascolta) è, invece, una canzone sfrenata e distruttiva, in cui si nota chiaramente l’influenza dei Cure. “Possession” (ascolta) è un vero e proprio rituale del male: TSOM85+-+1una canzone lenta e paranoica, dall’atmosfera tanto avvolgente quanto inquietante. Il disco chiude in bellezza, con un altro capolavoro, la lunga “Some kind of stranger” (ascolta), che sembra quasi voler evocare una marcia di dannati verso l’inferno. Dopo il primo disco la band pubblica altri due validi album, per poi sciogliersi. “First and last and always” rimane il loro capolavoro assoluto, un disco tetro e claustrofobico, depresso e pieno di paure. Un disco dominato da danze macabre e misteriose e che, grazie alle sue atmosfere da rituale occulto, mescolate a ritmi ballabili, sembra quasi voler invitare l’ascoltatore ad affrontare i propri demoni interiori e non aver paura dell’ignoto. Un disco che accompagna nelle tenebre e mostra che, in fondo, queste non sono così negative come abbiamo sempre creduto.

Pier Luigi Tizzano

Tangerine Dream

 

Tra i fautori della “musica cosmica”, nata come costola del krautrock tedesco, i Tangerine Dream, con le loro opere surreali e visionarie, hanno rivoluzionato l’elettronica, aprendo la strada al pop elettronico degli anni ‘80 e anticipando di un paio di decenni la new age. I Tangerine Dream possono ambire al titolo di massimi rappresentanti della kosmische musik, scena compostatangerinedreampressefoto2 da musicisti dalle eccezionali doti tecniche, spesso con un background di musica classica alle spalle, che riuscirono, grazie alle loro sperimentazioni senza confini, a indicare una nuova strada nell’utilizzo di tastiere e sintetizzatori, aggiornando la lezione dei Pink Floyd e portandola verso nuovi territori ancora inesplorati. La band nasce a Berlino nel 1966, ad opera del chitarrista Edgar Froese, già membro di una band psichedelica sulla falsa riga dei Pink Floyd. Ma Froese vuole di più, non vuole essere una copia di quanto già fatto. Vuole andare oltre, vuole osare e sperimentare sempre nuovi suoni. Resosi conto che con i musicisti della sua band ciò non è possibile, abbandona il progetto e cerca menti folli come la sua. Rispondono all’appello il batterista e percussionista Klaus Schulze, destinato, poi, a una brillante carriera solista, e il tastierista Conrad Schnitzler. E’ questo il nucleo originario del gruppo, il folle trio che dà vita a “Electronic Meditation“, Ohr, 1970 (ascolta), un disco che rielabora e aggiorna, in chiave ancora più dilatata, le prime intuizioni floydiane, pur non disdegnando la psichedelia dei connazionali Amon Düül (leggi articolo). Un disco rivoluzionario per l’epoca, in cui la fanno da padrone chitarre distorte, percussioni africane, organi possenti e rumori catturati in ogni dove, anche da oggetti domestici, registrati e poi immessi casualmente nel disco. “Electronic Meditation è, a tutti gli effetti, lo stato embrionale della musica cosmica. La collaborazione con Schulze e Schnitzler finisce, però, poco dopo. Il primo intraprende la carriera solista, che lo incoronerà come mago indiscusso dell’elettronica; il secondo diventerà, poi, membro di un’apprezzatissima band: i Cluster. Col secondo disco, “Alpha Centauri“, Ohr, 1971 (ascolta), viene ufficialmente coniata dalla stampa la definizione di musica cosmica. E’ un disco improvvisato ma si spinge ben oltre la tradizione psichedelica. Inizia a farsi massicio l’uso di synth ed elettronica e il risultato è quanto mai suggestivo. La complessa title track è proprio il manifesto di questo nuovo modo di fare musica. Si tratta di un’elettronica astrale, quasi del tutto priva di ritmo, stravolta da synth, riverberi e frasi di flauto sparse qua e là. Dopo “Alpha 81bqTTgCTiL._SL1500_Centauri“, i Tangerine Dream lasciano per sempre in soffita i tradizionali strumenti del rock per darsi a un’elettronica totale. Nasce, così, “Zeit“, Ohr, 1972 (copertina a sinistra) e firmato, oltre che da Froese, da Christopher Franke e Peter Baumann, che hanno ufficialmente sostituito Klaus Schulze e Conrad Schnitzler. “Zeit” (ascolta) è la loro opera più significativa e ha un preciso scopo: portare in musica la bellezza delle arti visive attraverso viaggi spaziali. Il tutto si traduce in una serie di suite, spesso frutto d’improvvisazione, nello stile del rock psichedelico, ma anche del free jazz e della musica d’avanguardia. “Zeit” è un vero e proprio trip elettronico, dove l’ascoltatore si trova immediatamente avvolto in un vortice di echi, dissonanze, riverberi, rumori e distorsioni elettroniche, sospeso in trance, nel vuoto dello spazio e nell’assenza totale di ritmo. La musica del disco è teutonica, oscura e mistica, una lunga sinfonia in quattro movimenti, all’insegna delle più spericolate sperimentazioni elettroniche. “Birth of liquid Plejades” (ascolta) è una ouverture piuttosto tetra, quasi minacciosa, che si apre con un quartetto di violoncelli cui fa seguito, nella seconda parte del movimento, una sorta di suono liquido e astratto, tangerinedreammisterioso e inafferrabile. Dopo circa un quarto d’ora di trance nello spazio, prende forma la terza parte del movimento, in cui dominano incontrastate una serie di dissonanze, che fluttuano libere in un suono astratto di moog. L’idea è quella di un viaggio interstellare, dove corrono libere note maestose e suoni al rallentatore. Segue “Nebulous dawn” (ascolta), dall’atmosfera astratta e magica, che sembra quasi trasportare l’ascoltatore in una dimensione parallela eterea e impalpabile. Poi, “Origin of supernatural probabilities” (ascolta), anch’essa rarefatta, dall’atmosfera tremendamente fragile. Il preludio è un silenzio inquietante, che tiene sulle spine, appena interrotto da qualche accordo di chitarra sommesso, poi, si parte per il viaggio, un viaggio allucinante, con pulsazioni sintetiche e rumori cosmici, prodotti dai generatori di Froese. Il disco chiude in grande stile con la title track “Zeit” (ascolta), un brano dall’atmosfera drammatica, ambiziosissimo e pretenzioso, impressionante nella sua immensa grandezza. “Zeit” è anche il momento più dark del disco, un concentrato di sonorità aspre e cupe, di venti stellari e tempeste cosmiche, una musica che sembra spedire dritti su Marte, con un biglietto di sola andata. Dopo “Zeit”, la carriera della band continua fino ai giorni nostri, interrompendosi, a causa della morte di Froese, nel 2015. L’ultimo disco contenente le sonorità del “primo corso”, ovvero quella musica cosmica che ha fatto viaggiare le generazioni anni ‘70, è “Hyperborea“, Virgin, 1983 (ascolta). Dal successivo “Le Parc“, Jive Records, 1985 (ascolta), si è tangerine-dream-51abd45d4b259vista una sorta di variazione nel sound della band, che ha portato i Tangerine Dream a divenire un gruppo new age, di cui possono essere considerati senza dubbio gli antesignani. “Zeit” rimarrà il loro capolavoro, un disco importantissimo per lo sviluppo dell’elettronica e per tutta la successiva stagione new age. Un disco epocale che dovrebbe essere presente sugli scaffali di tutti gli intenditori di musica, un disco che, per l’epoca in cui è stato concepito, è andato semplicemente oltre. Un disco da ascoltare per evadere dalle angosce e dalle prigioni interiori. L’unica nota negativa: terminata la musica, si ritorna nel mondo reale, con tutti i sui problemi e tutte le sue noie.

Pier Luigi Tizzano

 

 

Amon Düül II

 

Nati nella Germania sessantottina, fervida di avanguardie culturali, gli Amon Düül II, con la loro musica oscura e demoniaca, intrisa di atmosfere esoteriche e ritmi tribali, sono riusciti ad affermarsi come una delle più grandi band del krautrock tedesco anni Settanta. La band si forma in una comune anarchico-freak a Monaco, dove si organizzano jam session free rock.amon-duul-4 La loro prima musica è molto sperimentale e caotica, fortemente politicizzata e impegnata contro la guerra. Nella prima formazione, alquanto precaria, si opera presto una scissione, dalla quale nasceranno due progetti diversi: gli Amon Düül I e gli Amon Düül II. La prima formazione si ispira chiaramente alla psichedelia americana dei Grateful Dead e dei Jefferson Airplane. Ciò lo si avverte chiaramente nel loro primo omonimo disco, ma ancor di più nel secondo album, “Paradieswärts Düül”, Ohr, 1970 (ascolta). Nel primo lato vi è “Love is peace” (ascolta), una lunga suite nella quale, inizialmente, un cantato dolce e sognante parla di terre incontaminate, dove l’amore e la pace regnano sovrani, il sogno hippie per eccellenza. Seguono malinconici e densi arpeggi di chitarra, che creano un clima di attesa irreale, a tratti claustrofobico, fino all’esplosione di suoni psichedelici negli ultimi cinque minuti. amonNel secondo lato, “Snow Your Thurst And Sun Your Open Mouth” (ascolta), più che una canzone è una lunga jam session di acid rock, accompagnata da percussioni tribali e da una batteria ipnotica, con chitarre distorte e ossessive, evocanti le visioni dell’Lsd. Ben presto, però, sono gli Amon Düül II a prendere il sopravvento e a dominare i palcoscenici, grazie a sonorità ben più complesse e originali. Attivissimi sin dal ‘68, grazie alla loro psichedelia d’avanguardia, si affermano come portabandiera di quel krautrock, nato in Germania con gruppi come Can, Neu, Ash ra temple e Tangerine dream. La band, nel corso degli anni, riesce ad imporsi anche a livello internazionale, con una serie di dischi, vere e proprie opere rock, dove convergono sonorità acustiche e orientali, mescolate a ritmi tribali e a devastanti suoni psichedelici. Il disco più rappresentativo del gruppo, manifesto ideologico del phallus_deikrautrock (quella estrema e sperimentale psichedelia made in Germany negli anni 70’, è “Phallus Dei”, Belle Antique, 1969 (copertina a destra). “Phallus Dei” (ascolta) contiene quattro brani e una lunga suite finale. È una vera e propria opera d’arte, qualcosa di così folle e inimmaginabile per l’epoca, subito risuonata rivoluzionaria per gli intenditori di musica. Era chiaro che qualcosa di magico stesse nascendo sulla scena musicale tedesca, una musica che riprendeva la psichedelia di Pink Floyd e soci, reinterpretandola in maniera ancora più estrema e fondendola con ritmi tribali e motivi orientaleggianti. Il disco parte in maniera egregia con “Kanaan” (ascolta), che, con la sua atmosfera, trasporta immediatamente l’ascoltatore in un mondo arcano e oscuro, dove la fanno da padroni suoni mediorientali ed esoterici, sui quali si innalzano maestosamente cori spettrali e inquietanti. Il punto di forza di questa danza occulta sta nella combinazione di riff tipicamente rock con archi e sitar. Poi, c’è “Luzifers Ghilom” (ascolta), brano dalle sonorità quasi horror, pieno di improvvisi cambi di tempo e in cui il cantato fluttua folle, su un mare di sonorità psichedeliche e percussioni. I vocalizzi demoniaci della cantante, Renate Knaup-Krötenschwanz, continuano in “Henriette Krotenschwanz” (ascolta), traccia breve che evoca la lunga notte dell’Inquisizione, sfociando, sul finale, in una corale marcia militare. Il massimo, in questo disco, si raggiunge con la title track (ascolta), una jam infernale di oltre 20 minuti, in cui gli Amon Düül dimostrano di essere musicisti con gli attributi. Amon_Dueuel_II-Carnival_In_Babylon_Japan-Booklet-L’inizio è calmo, ma questa calma è solo apparente perché presto esplodono una miriade di droni e suoni spaziali, mescolati a grida da indemoniati e vibrazioni di archi impazziti. La band improvvisa in maniera sempre più caotica e confusa, poi, un assolo di violino, che introduce percussioni tribali, sulle quali il cantato si inserisce prepotentemente in maniera sempre più folle. Il risultato finale è una vera e propria odissea acida, in cui gli strumenti suonano tutti in maniera scoordinata e dissonante, accompagnando l’ascoltatore direttamente nell’inferno delle anime dannate. “Phallus Dei” è un’opera mastodontica, un qualcosa che sarebbe potuto nascere solo dalle menti stravolte dall’Lsd in una comune anarchico-freak. E’ un disco dalle mille sonorità, complesso, allucinante e demoniaco, per certi aspetti tremendo, visionario e spettrale. “Phallus Dei” è probabilmente l’anno zero del krautrock ed è certamente una magnifica risposta alla psichedelia americana, troppo legata al blues, alle tradizioni e al progressive rock britannico. Un modo per dire che la Germania c’è e la sua musica non ha nulla da invidiare a nessuno!

Pier Luigi Tizzano

 

 

Sigur Rós

 

Se l’emozione avesse un nome, con ogni probabilità, si chiamerebbe Sigur Rós. La musica della Rosa della Vittoria (così, Sigur Rós viene tradotto dall’islandese all’italiano) è il genuino frutto dell’incontro tra tanti stili e suggestioni artistiche. Sigur RósUn decadente e romantico mix tra psichedelia, shoegaze, dream pop e post rock, con una strizzatina d’occhio all’eleganza senza tempo della musica classica. Il risultato è una musica più unica che rara, tremendamente sentimentale, tormentata, fragile, capace di emozionare fino ai brividi e fortemente istintiva. Una musica che ha fatto innamorare mezzo mondo, proiettando i Sigur Rós su palcoscenici sempre più importanti. La storia della band comincia nel 1994 in Islanda. Inizialmente, il gruppo è un terzetto formato da un chitarrista cantante, Jónsi Birgisson, un bassista, Georg Hólm, e un batterista, Ágúst Ævar Gunnarsson. La loro carriera prende il volo in men che non si dica, grazie alla connazionale Bjork (cantante e produttrice discografica), che nota subito la grande abilità della band nel creare una musica semplice ma disarmante e inserisce una loro canzone in un’antologia per celebrare i 40 anni dell’indipendenza islandese dalla Danimarca. Qualche anno dopo, l’album di debutto: Von. Il disco mette subito in chiaro la propensione della band verso atmosfere psichedeliche ed è solo l’inizio di un percorso artistico, coronato da successi in ogni dove e vendite da capogiro. Una carriera ancora attiva e coronata, ultimamente, da Kveikur, il loro disco più rock. Ma il capolavoro, forse la pietra miliare della band, l’album Sigurros()che più di tutti rappresenta il manifesto per eccellenza del loro modo di fare musica, è ( ) (copertina a sinistra), FatCat Records. ( ) è il terzo lavoro in studio degli islandesi, datato 2002. Il disco mette a nudo i Sigur Rós, rinunciando sia alla sperimentazione psichedelica del primo lavoro (Von), sia alle partiture orchestrali del suo predecessore (Agaetis Byrjun). La band islandese, con questo lavoro, punta al più totale minimalismo: nessun titolo, nessuna informazione, nessuna lingua con cui esprimersi (come già accaduto per i Cocteau Twin). Birgisson, infatti, non utilizza alcuna parola, ma solo suoni insensati e improvvisati, finendo per usare la voce come un altro strumento, che si aggiunge al già straordinario sound. L’album si compone di otto lunghe tracce, in cui si possono trovare le più disparate influenze, dai Radiohead al post rock e allo slowcore dei Low. Ci sono, ovviamente, anche echi dei Pink Floyd e di un certo modo di fare psichedelica. La più grande forza dei Sigur Rós sta proprio nel riuscire a mescolare tante influenze, reinventandole in un sound personalissimo, che ancora oggi è tra i più innovativi della scena rock mondiale. In questo disco c’è solo la musica, una musica che emoziona come poche e che affiora lenta e inesorabile, intensa, fragile e struggente. I brani non hanno nomi e non ci sono testi. L’ascoltatore è padrone di dare qualsiasi titolo alle otto tracce del disco e di inventare qualsiasi testo. L’unica pecca di questo album è forse un’eccessiva tendenza al melenso e al lacrimevole, ma, per fortuna, questa è eccedente solo nella prima traccia (ascolta), una struggente e ripetitiva frase di piano, sulla quale il cantato di Birgisson sembra quasi far male al cuore.sigur_ros La seconda traccia (ascolta), forse la più astratta del disco, è composta da tenui gemiti campionati, sui quali si inseriscono gli altri strumenti, con una calma e una lentezza quasi straziante. La traccia numero tre (ascolta), invece, è pura poesia, un lento crescendo di piano, che regala sei minuti di emozioni pure, sei minuti di tregua e di pace, sei minuti lontani da un mondo sempre più alieno e crudele. Poi, c’è la quarta traccia (ascolta), una tenerissima e melodica marcia, che avanza piano fino a quando una paradisiaca melodia di tastiera non introduce la parte finale, basata su un sound più duro e una batteria che picchia più minacciosa. Ma in questo disco non c’è solo pace. Dalla traccia numero sette (ascolta), i Sigur Rós cominciano ad alternare momenti di quiete e di tempesta. Emblematico, in tal senso, è il caso dell’ottava e ultima traccia (ascolta), che sul finire viene brutalmente travolta da una cavalcata di suoni psichedelici e dall’incalzare di una batteria massiccia e metallica.15e4d2c0-162c-11e3-a5c8-720952d2a5e4 ( ) è, in definitiva, l’album della maturità artistica e stilistica dei Sigur Rós. Con esso, la band finalmente trova la sua dimensione sonora ideale. L’unico scopo di ( ) è regalare un’emozione sincera e genuina, far tornare bambini, innocenti e candidi, liberare dal peccato. ( ) ci offre un aiuto per estraniarci da quella prigione che noi umani abbiamo costruito con le nostre stesse mani. E’ un disco da ascoltare nel buio della nostra stanza, con gli occhi chiusi e il cuore aperto verso il magico mondo che ci offre, un mondo fatto di maestosi paesaggi, visioni paradisiache, fate, folletti e gnomi. Un mondo libero, colmo di gioia infantile e amore.

Pier Luigi Tizzano

 

 

Indian Jewelry

 

Strana e bizzarra saga quella degli Indian Jewelry. Ma anche misteriosa e inafferrabile perché, in realtà, nessuno sa con precisione quanti siano i musicisti di questa band di culto della psichedelia underground. Si sa solo che sono un collettivo ad espansione continua e provengono dal Texas. Si sa che viaggiano on the road, come gloriosi hippie del passato, reclutando musicisti in ogni dove, esibendosi in performance musicali che sono, di fatto, un vero e proprio show allucinogeno. A dirigere l’orchestra sono in quattro: ij-truck-2la polistrumentista e cantante Erika Thrasher, il factotum Tex Kerschen, il batterista Rodney Rodriguez e il chitarrista Brandon Davis. Sono loro i titolari di questo psychedelic dream in salsa hippie, dove ognuno può entrare e uscire liberamente, come ci si trovasse in una comune, contribuendo, così, a creare un sound sempre più ricco e particolare e a rendere i live sempre più imprevedibili e originali, veri e propri circhi della follia umana. Nel corso degli anni, la band si è cimentata in progetti folli e originali, arruolando, di volta in volta, i più strabilianti personaggi incontrati sulle strade dell’America selvaggia. E, nonostante l’entrata e l’uscita di tanti e diversi musicisti, con background spesso contrastanti, il sound di base di questo maestoso progetto ha sempre mantenuto un comune denominatore: una devastante psichedelia di fondo. Forse devastante è dir poco.indianJewelry-640x428 Bisogna mettere subito in chiaro le cose: con gli Indian Jewelry non si scherza affatto. La loro musica è quanto di più psichedelicamente malato sia mai stato concepito nella storia del rock. Ci troviamo di fronte a droni, loop, drum machine, riverberi, chitarre, tastiere e rumori assordanti, che formano allucinanti agglomerati di suoni, capaci di violentare letteralmente le orecchie dell’ascoltatore. Tuttavia, pur rinnegando il formato-canzone classico e seguendo una sorta di anarchia strumentale, in cui tutto sembra essere concesso, i nostri eroi mostrano una insospettabile abilità melodica e un barlume di lucidità nel riuscire ad abbozzare linee geometriche in questo ammasso di devastazione psichedelica. La loro storia inizia nel 2003 e, oggi, la band è ancora in attività.Indian_Jewelry_-_Free_Gold! Uno dei momenti più alti della carriera l’hanno toccato nel 2008, quando hanno dato in pasto al pubblico il loro terzo disco, “Free Gold!”, We Are Free (copertina a destra), un vero e proprio viaggio spazio-temporale come insegna la tradizione psichedelica, un disco visionario e violento, terribilmente allucinogeno, la dimostrazione che la psichedelia non è morta nei ‘70, la prova tangibile che ci sono ancora una miriade di terre inesplorate da questo genere di nicchia e mai compreso a pieno. L’apertura del disco è affidata a “Swans” (ascolta) e “Temporary famine ship” (ascolta), veri e propri manifesti propagandistici, relativi a questo modo di fare musica, dove loop (campioni musicali che si ripetono in continuazione) ruvidissimi fungono da base a una voce “in trance” e a chitarre distorte, che sembrano quasi farsi guerra tra un assolo acido e un altro a seguire ancora più acido e così via. “Seasonal economy” (ascolta), altro manifesto psichedelico, capace di sconvolgere i sensi dell’ascoltatore, di disorientare e confondere. Ma nel disco non mancano momenti di quiete, pezzi più “classici”. Parliamo di “Pompeii” (ascolta) e “Everyday” (ascolta), ballate acide ed eteree, in cui sembra di trovare sia i rumorismi dei Sonic Youth, sia la decadente malinconia dei Velvet Underground. Tra i momenti di follia più pura, “Walking on the water” (ascolta), una canzone lenta e a tratti sognante, una tenue psichedelia che sembra venire direttamente da un mondo sconosciuto e cullare indianjewelryl’ascoltatore in sogni felici e spensierati. A seguire, “Too Much HonkyTonking(ascolta) propone atmosfere meno sognanti, più angosciose e claustrofobiche, in cui i singoli strumenti si sovrappongono caoticamente, stordendo e spiazzando. Da menzionare sicuramente, anche l’esperimento di psichedelia tribale di “Hello Africa” (ascolta) e “Seventh Heavean” (ascolta), pezzo di chiusura del disco, che si sviluppa in strabilianti rintocchi di chitarra e synth, che disegnano uno scenario cosmico, degno del kraut rock tedesco degli anni ‘70. In conclusione, “Free Gold!” è una piccola ma preziosissima pietra della psichedelia underground, un album ultrasperimentale, violento e viscerale, visionario e allucinogeno. E’ un’odissea crudele e stralunata, una deriva di suoni violenti e perversi, capaci di far rizzare i capelli all’ascoltatore per le visioni cui lo conducono. “Free Gold!” è il figlio legittimo degli hippie anni ‘70 e gli Indian Jewelry sono la dimostrazione che i sogni rivoluzionari non sono morti del tutto. Sono l’ultimo baluardo di uno stile di vita ispirato da alti ideali e idee universali di giustizia e libertà. Quattro maledetti sognatori innamorati e testardi, tutt’ora attivi musicalmente. E chissà, a quest’ora, mentre leggete quest’articolo, dove saranno e quale bizzarro personaggio staranno ingaggiando per i loro live. Lunga vita agli hippie del nuovo millennio!

Pier Luigi Tizzano

 

 

Mogwai

 

Dotati di un istinto primordiale e animalesco, impulsivi e imprevedibili, i Mogwai hanno coniato un inconfondibile marchio post – noise – rock. Tra digressioni furiose, feedback e una continua alternanza tra quiete e turbamento psichico, sono una delle realtà più singificative del panorama underground a cavallo tra gli anni ‘90 e i 2000. mogwai“La nostra unica arma è l’istintività. È per questo che non ci sentiamo assolutamente intellettuali, né pretendiamo di essere artisti”. Queste le parole usate da Stuart Braithwaite, chitarrista e responsabile della composizione della maggior parte dei pezzi dei Mogwai, per descrivere l’aspetto più importante della loro musica. La band scozzese deve certamente molto agli Slint, i maestri di Louisville, soprattutto per quel che riguarda la scelta di fare un rock rigorosamente strumentale, salvo rarissimi interventi vocali, più parlati che cantati. I Mogwai nascono ufficialmente a Glasgow nel 1995. Inizialmente, l’organico è formato da tre elementi, ma dopo pochi mesi, è reclutato un secondo chitarrista, per dare più energia al sound che giocherà molto sulle sovrapposizioni chitarristiche e su distorsioni caotiche e furibonde. mogwai-come-on-die-young-deluxeNel 1997, viene prodotto il primo Lp, dal titolo “Ten rapid”, grazie al quale il pubblico britannico conosce e apprezza la loro “strana musica strumentale”. Una musica che sembra più improvvisata che studiata, stracolma, quasi fino alla noia, di feedback e distorsioni, che turbano e squartano l’animo dell’ascoltatore. Ma in questa “strana musica” non mancano momenti di pace, dominati da soavi melodie, sulle quali si innesca, in sottofondo, un parlato calmo e rasserenante. Grazie a “Ten rapid” la fama della band inizia a crescere, i live si moltiplicano e i fans pure. MogwaiyoungteamPresto ottengono un contratto discografico. Assoldato il terzo chitarrista, pubblicano, nell’ottobre del 1997, il loro primo album, “Young Team”, Chemikal Underground (copertina a sinistra). Questo disco è solo l’inizio di un’epopea senza fine, di una straordinaria carriera che non vedrà mai bassi. Otto album (quelli pubblicati finora, ma la band è ancora in attività e, con ogni probabilità, non smetterà di stupire e incantare), che possono definirsi otto perle all’insegna delle emozioni e di un’instancabile ricerca sonora. Otto piccoli gioielli da custodire gelosamente, inestimabile patrimonio dell’umanità ai tempi della generazione senza valori e senza speranze. Scegliere un album e parlarne è un’impresa tutt’altro che facile. Verrebbe voglia di raccontarli uno ad uno, come fossero preziose storie da tramandare con orgoglio di generazione in generazione. Ma in questa sede mi è consentito recensire un solo disco, e allora parlerò di “Young Team”, il primo album da me acquistato, il disco che mi ha fatto conoscere i ragazzi di Glasgow, facendomene innamorare. Il disco parte con “Yes! I am long way from home” (ascolta), una triste ballata che si evolve in un crescendo di suoni impetuosi e distorti. Poi c’è “Like Herod” (ascolta), una lunga odissea che inizia morbida e pacata anche se nervosa e tesa. D’improvviso la canzone sembra finita, ma è proprio lì che comincia il bello: riff di chitarre distorte irrompono sulla scena, come un fulmine che squarta un cielo grigio carico di pioggia. Subito dopo, altri due brani all’insegna di saliscendi chitarristici: “Katrien” (ascolta) e “Summer” (ascolta). mogwai_071Nella prima, risulta presente anche una sorta di parlato incomprensibile, ma che si rivela prezioso nell’aiutare le chitarre a metter su un crescendo nevrotico e confuso, emotivamente instabile. Segue “Tracy” (ascolta), un pezzo dall’atmosfera quasi sognante, simile a quello che la band proporrà nei successivi lavori in studio. “With Portfolio” (ascolta), invece, inizia pacatamente, con un piano che sembra quasi ispirarsi alla musica classica, ben presto soppiantato, senza pietà, da distorsioni colossali a turbare, ancora una volta, la psiche, a violentare una quiete che nei Mogwai non è mai reale, ma sempre apparente. Con “R u still in 2 it” (ascolta), il disco torna a farsi morbido e d’atmosfera, proponendo una sorta di folk sognante e malinconico, sul quale si staglia il cantato di Aidan Moffat degli Arab StrapInfine, ci sono i due minuti di piano di “A cheery wave with stranded youngsters” (ascolta), che sembrano essere un preludio al finale lancinante di “Mogwai fear satan” (ascolta), dove, su una base ritmica veloce e tambureggiante, si elevano i soliti muri di distorsioni furibonde e inquiete, vero marchio di fabbrica della band. maxresdefaultYoung Team” è un piccolo grande disco, un elogio alla tristezza, narrato con una musica unica, cruda e toccante. E’ forse la perfetta sintesi di un decennio musicale inquieto e senza grandi ideali, un tentativo di rappresentare gli stati d’animo di una generazione allo sbando, di figli di nessuno alla ricerca di un qualcosa sempre più inafferrabile. Inafferrabile e vago, proprio come la loro musica strumentale, ma non per questo, brutto o indegno. E’ un disco che pone le basi per un percorso sonoro umile, che non vuole proporsi come avanguardia, ma come una semplice ricerca della melodia e delle più intime emozioni. Perché, in fondo, la musica dei Mogwai è emozione. Un’emozione naturale, genuina, innocente, spontanea. Bella!

Pier Luigi Tizzano