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Tangerine Dream

 

Tra i fautori della “musica cosmica”, nata come costola del krautrock tedesco, i Tangerine Dream, con le loro opere surreali e visionarie, hanno rivoluzionato l’elettronica, aprendo la strada al pop elettronico degli anni ‘80 e anticipando di un paio di decenni la new age. I Tangerine Dream possono ambire al titolo di massimi rappresentanti della kosmische musik, scena compostatangerinedreampressefoto2 da musicisti dalle eccezionali doti tecniche, spesso con un background di musica classica alle spalle, che riuscirono, grazie alle loro sperimentazioni senza confini, a indicare una nuova strada nell’utilizzo di tastiere e sintetizzatori, aggiornando la lezione dei Pink Floyd e portandola verso nuovi territori ancora inesplorati. La band nasce a Berlino nel 1966, ad opera del chitarrista Edgar Froese, già membro di una band psichedelica sulla falsa riga dei Pink Floyd. Ma Froese vuole di più, non vuole essere una copia di quanto già fatto. Vuole andare oltre, vuole osare e sperimentare sempre nuovi suoni. Resosi conto che con i musicisti della sua band ciò non è possibile, abbandona il progetto e cerca menti folli come la sua. Rispondono all’appello il batterista e percussionista Klaus Schulze, destinato, poi, a una brillante carriera solista, e il tastierista Conrad Schnitzler. E’ questo il nucleo originario del gruppo, il folle trio che dà vita a “Electronic Meditation“, Ohr, 1970 (ascolta), un disco che rielabora e aggiorna, in chiave ancora più dilatata, le prime intuizioni floydiane, pur non disdegnando la psichedelia dei connazionali Amon Düül (leggi articolo). Un disco rivoluzionario per l’epoca, in cui la fanno da padrone chitarre distorte, percussioni africane, organi possenti e rumori catturati in ogni dove, anche da oggetti domestici, registrati e poi immessi casualmente nel disco. “Electronic Meditation è, a tutti gli effetti, lo stato embrionale della musica cosmica. La collaborazione con Schulze e Schnitzler finisce, però, poco dopo. Il primo intraprende la carriera solista, che lo incoronerà come mago indiscusso dell’elettronica; il secondo diventerà, poi, membro di un’apprezzatissima band: i Cluster. Col secondo disco, “Alpha Centauri“, Ohr, 1971 (ascolta), viene ufficialmente coniata dalla stampa la definizione di musica cosmica. E’ un disco improvvisato ma si spinge ben oltre la tradizione psichedelica. Inizia a farsi massicio l’uso di synth ed elettronica e il risultato è quanto mai suggestivo. La complessa title track è proprio il manifesto di questo nuovo modo di fare musica. Si tratta di un’elettronica astrale, quasi del tutto priva di ritmo, stravolta da synth, riverberi e frasi di flauto sparse qua e là. Dopo “Alpha 81bqTTgCTiL._SL1500_Centauri“, i Tangerine Dream lasciano per sempre in soffita i tradizionali strumenti del rock per darsi a un’elettronica totale. Nasce, così, “Zeit“, Ohr, 1972 (copertina a sinistra) e firmato, oltre che da Froese, da Christopher Franke e Peter Baumann, che hanno ufficialmente sostituito Klaus Schulze e Conrad Schnitzler. “Zeit” (ascolta) è la loro opera più significativa e ha un preciso scopo: portare in musica la bellezza delle arti visive attraverso viaggi spaziali. Il tutto si traduce in una serie di suite, spesso frutto d’improvvisazione, nello stile del rock psichedelico, ma anche del free jazz e della musica d’avanguardia. “Zeit” è un vero e proprio trip elettronico, dove l’ascoltatore si trova immediatamente avvolto in un vortice di echi, dissonanze, riverberi, rumori e distorsioni elettroniche, sospeso in trance, nel vuoto dello spazio e nell’assenza totale di ritmo. La musica del disco è teutonica, oscura e mistica, una lunga sinfonia in quattro movimenti, all’insegna delle più spericolate sperimentazioni elettroniche. “Birth of liquid Plejades” (ascolta) è una ouverture piuttosto tetra, quasi minacciosa, che si apre con un quartetto di violoncelli cui fa seguito, nella seconda parte del movimento, una sorta di suono liquido e astratto, tangerinedreammisterioso e inafferrabile. Dopo circa un quarto d’ora di trance nello spazio, prende forma la terza parte del movimento, in cui dominano incontrastate una serie di dissonanze, che fluttuano libere in un suono astratto di moog. L’idea è quella di un viaggio interstellare, dove corrono libere note maestose e suoni al rallentatore. Segue “Nebulous dawn” (ascolta), dall’atmosfera astratta e magica, che sembra quasi trasportare l’ascoltatore in una dimensione parallela eterea e impalpabile. Poi, “Origin of supernatural probabilities” (ascolta), anch’essa rarefatta, dall’atmosfera tremendamente fragile. Il preludio è un silenzio inquietante, che tiene sulle spine, appena interrotto da qualche accordo di chitarra sommesso, poi, si parte per il viaggio, un viaggio allucinante, con pulsazioni sintetiche e rumori cosmici, prodotti dai generatori di Froese. Il disco chiude in grande stile con la title track “Zeit” (ascolta), un brano dall’atmosfera drammatica, ambiziosissimo e pretenzioso, impressionante nella sua immensa grandezza. “Zeit” è anche il momento più dark del disco, un concentrato di sonorità aspre e cupe, di venti stellari e tempeste cosmiche, una musica che sembra spedire dritti su Marte, con un biglietto di sola andata. Dopo “Zeit”, la carriera della band continua fino ai giorni nostri, interrompendosi, a causa della morte di Froese, nel 2015. L’ultimo disco contenente le sonorità del “primo corso”, ovvero quella musica cosmica che ha fatto viaggiare le generazioni anni ‘70, è “Hyperborea“, Virgin, 1983 (ascolta). Dal successivo “Le Parc“, Jive Records, 1985 (ascolta), si è tangerine-dream-51abd45d4b259vista una sorta di variazione nel sound della band, che ha portato i Tangerine Dream a divenire un gruppo new age, di cui possono essere considerati senza dubbio gli antesignani. “Zeit” rimarrà il loro capolavoro, un disco importantissimo per lo sviluppo dell’elettronica e per tutta la successiva stagione new age. Un disco epocale che dovrebbe essere presente sugli scaffali di tutti gli intenditori di musica, un disco che, per l’epoca in cui è stato concepito, è andato semplicemente oltre. Un disco da ascoltare per evadere dalle angosce e dalle prigioni interiori. L’unica nota negativa: terminata la musica, si ritorna nel mondo reale, con tutti i sui problemi e tutte le sue noie.

Pier Luigi Tizzano

 

 

Amon Düül II

 

Nati nella Germania sessantottina, fervida di avanguardie culturali, gli Amon Düül II, con la loro musica oscura e demoniaca, intrisa di atmosfere esoteriche e ritmi tribali, sono riusciti ad affermarsi come una delle più grandi band del krautrock tedesco anni Settanta. La band si forma in una comune anarchico-freak a Monaco, dove si organizzano jam session free rock.amon-duul-4 La loro prima musica è molto sperimentale e caotica, fortemente politicizzata e impegnata contro la guerra. Nella prima formazione, alquanto precaria, si opera presto una scissione, dalla quale nasceranno due progetti diversi: gli Amon Düül I e gli Amon Düül II. La prima formazione si ispira chiaramente alla psichedelia americana dei Grateful Dead e dei Jefferson Airplane. Ciò lo si avverte chiaramente nel loro primo omonimo disco, ma ancor di più nel secondo album, “Paradieswärts Düül”, Ohr, 1970 (ascolta). Nel primo lato vi è “Love is peace” (ascolta), una lunga suite nella quale, inizialmente, un cantato dolce e sognante parla di terre incontaminate, dove l’amore e la pace regnano sovrani, il sogno hippie per eccellenza. Seguono malinconici e densi arpeggi di chitarra, che creano un clima di attesa irreale, a tratti claustrofobico, fino all’esplosione di suoni psichedelici negli ultimi cinque minuti. amonNel secondo lato, “Snow Your Thurst And Sun Your Open Mouth” (ascolta), più che una canzone è una lunga jam session di acid rock, accompagnata da percussioni tribali e da una batteria ipnotica, con chitarre distorte e ossessive, evocanti le visioni dell’Lsd. Ben presto, però, sono gli Amon Düül II a prendere il sopravvento e a dominare i palcoscenici, grazie a sonorità ben più complesse e originali. Attivissimi sin dal ‘68, grazie alla loro psichedelia d’avanguardia, si affermano come portabandiera di quel krautrock, nato in Germania con gruppi come Can, Neu, Ash ra temple e Tangerine dream. La band, nel corso degli anni, riesce ad imporsi anche a livello internazionale, con una serie di dischi, vere e proprie opere rock, dove convergono sonorità acustiche e orientali, mescolate a ritmi tribali e a devastanti suoni psichedelici. Il disco più rappresentativo del gruppo, manifesto ideologico del phallus_deikrautrock (quella estrema e sperimentale psichedelia made in Germany negli anni 70’, è “Phallus Dei”, Belle Antique, 1969 (copertina a destra). “Phallus Dei” (ascolta) contiene quattro brani e una lunga suite finale. È una vera e propria opera d’arte, qualcosa di così folle e inimmaginabile per l’epoca, subito risuonata rivoluzionaria per gli intenditori di musica. Era chiaro che qualcosa di magico stesse nascendo sulla scena musicale tedesca, una musica che riprendeva la psichedelia di Pink Floyd e soci, reinterpretandola in maniera ancora più estrema e fondendola con ritmi tribali e motivi orientaleggianti. Il disco parte in maniera egregia con “Kanaan” (ascolta), che, con la sua atmosfera, trasporta immediatamente l’ascoltatore in un mondo arcano e oscuro, dove la fanno da padroni suoni mediorientali ed esoterici, sui quali si innalzano maestosamente cori spettrali e inquietanti. Il punto di forza di questa danza occulta sta nella combinazione di riff tipicamente rock con archi e sitar. Poi, c’è “Luzifers Ghilom” (ascolta), brano dalle sonorità quasi horror, pieno di improvvisi cambi di tempo e in cui il cantato fluttua folle, su un mare di sonorità psichedeliche e percussioni. I vocalizzi demoniaci della cantante, Renate Knaup-Krötenschwanz, continuano in “Henriette Krotenschwanz” (ascolta), traccia breve che evoca la lunga notte dell’Inquisizione, sfociando, sul finale, in una corale marcia militare. Il massimo, in questo disco, si raggiunge con la title track (ascolta), una jam infernale di oltre 20 minuti, in cui gli Amon Düül dimostrano di essere musicisti con gli attributi. Amon_Dueuel_II-Carnival_In_Babylon_Japan-Booklet-L’inizio è calmo, ma questa calma è solo apparente perché presto esplodono una miriade di droni e suoni spaziali, mescolati a grida da indemoniati e vibrazioni di archi impazziti. La band improvvisa in maniera sempre più caotica e confusa, poi, un assolo di violino, che introduce percussioni tribali, sulle quali il cantato si inserisce prepotentemente in maniera sempre più folle. Il risultato finale è una vera e propria odissea acida, in cui gli strumenti suonano tutti in maniera scoordinata e dissonante, accompagnando l’ascoltatore direttamente nell’inferno delle anime dannate. “Phallus Dei” è un’opera mastodontica, un qualcosa che sarebbe potuto nascere solo dalle menti stravolte dall’Lsd in una comune anarchico-freak. E’ un disco dalle mille sonorità, complesso, allucinante e demoniaco, per certi aspetti tremendo, visionario e spettrale. “Phallus Dei” è probabilmente l’anno zero del krautrock ed è certamente una magnifica risposta alla psichedelia americana, troppo legata al blues, alle tradizioni e al progressive rock britannico. Un modo per dire che la Germania c’è e la sua musica non ha nulla da invidiare a nessuno!

Pier Luigi Tizzano

 

 

Sigur Rós

 

Se l’emozione avesse un nome, con ogni probabilità, si chiamerebbe Sigur Rós. La musica della Rosa della Vittoria (così, Sigur Rós viene tradotto dall’islandese all’italiano) è il genuino frutto dell’incontro tra tanti stili e suggestioni artistiche. Sigur RósUn decadente e romantico mix tra psichedelia, shoegaze, dream pop e post rock, con una strizzatina d’occhio all’eleganza senza tempo della musica classica. Il risultato è una musica più unica che rara, tremendamente sentimentale, tormentata, fragile, capace di emozionare fino ai brividi e fortemente istintiva. Una musica che ha fatto innamorare mezzo mondo, proiettando i Sigur Rós su palcoscenici sempre più importanti. La storia della band comincia nel 1994 in Islanda. Inizialmente, il gruppo è un terzetto formato da un chitarrista cantante, Jónsi Birgisson, un bassista, Georg Hólm, e un batterista, Ágúst Ævar Gunnarsson. La loro carriera prende il volo in men che non si dica, grazie alla connazionale Bjork (cantante e produttrice discografica), che nota subito la grande abilità della band nel creare una musica semplice ma disarmante e inserisce una loro canzone in un’antologia per celebrare i 40 anni dell’indipendenza islandese dalla Danimarca. Qualche anno dopo, l’album di debutto: Von. Il disco mette subito in chiaro la propensione della band verso atmosfere psichedeliche ed è solo l’inizio di un percorso artistico, coronato da successi in ogni dove e vendite da capogiro. Una carriera ancora attiva e coronata, ultimamente, da Kveikur, il loro disco più rock. Ma il capolavoro, forse la pietra miliare della band, l’album Sigurros()che più di tutti rappresenta il manifesto per eccellenza del loro modo di fare musica, è ( ) (copertina a sinistra), FatCat Records. ( ) è il terzo lavoro in studio degli islandesi, datato 2002. Il disco mette a nudo i Sigur Rós, rinunciando sia alla sperimentazione psichedelica del primo lavoro (Von), sia alle partiture orchestrali del suo predecessore (Agaetis Byrjun). La band islandese, con questo lavoro, punta al più totale minimalismo: nessun titolo, nessuna informazione, nessuna lingua con cui esprimersi (come già accaduto per i Cocteau Twin). Birgisson, infatti, non utilizza alcuna parola, ma solo suoni insensati e improvvisati, finendo per usare la voce come un altro strumento, che si aggiunge al già straordinario sound. L’album si compone di otto lunghe tracce, in cui si possono trovare le più disparate influenze, dai Radiohead al post rock e allo slowcore dei Low. Ci sono, ovviamente, anche echi dei Pink Floyd e di un certo modo di fare psichedelica. La più grande forza dei Sigur Rós sta proprio nel riuscire a mescolare tante influenze, reinventandole in un sound personalissimo, che ancora oggi è tra i più innovativi della scena rock mondiale. In questo disco c’è solo la musica, una musica che emoziona come poche e che affiora lenta e inesorabile, intensa, fragile e struggente. I brani non hanno nomi e non ci sono testi. L’ascoltatore è padrone di dare qualsiasi titolo alle otto tracce del disco e di inventare qualsiasi testo. L’unica pecca di questo album è forse un’eccessiva tendenza al melenso e al lacrimevole, ma, per fortuna, questa è eccedente solo nella prima traccia (ascolta), una struggente e ripetitiva frase di piano, sulla quale il cantato di Birgisson sembra quasi far male al cuore.sigur_ros La seconda traccia (ascolta), forse la più astratta del disco, è composta da tenui gemiti campionati, sui quali si inseriscono gli altri strumenti, con una calma e una lentezza quasi straziante. La traccia numero tre (ascolta), invece, è pura poesia, un lento crescendo di piano, che regala sei minuti di emozioni pure, sei minuti di tregua e di pace, sei minuti lontani da un mondo sempre più alieno e crudele. Poi, c’è la quarta traccia (ascolta), una tenerissima e melodica marcia, che avanza piano fino a quando una paradisiaca melodia di tastiera non introduce la parte finale, basata su un sound più duro e una batteria che picchia più minacciosa. Ma in questo disco non c’è solo pace. Dalla traccia numero sette (ascolta), i Sigur Rós cominciano ad alternare momenti di quiete e di tempesta. Emblematico, in tal senso, è il caso dell’ottava e ultima traccia (ascolta), che sul finire viene brutalmente travolta da una cavalcata di suoni psichedelici e dall’incalzare di una batteria massiccia e metallica.15e4d2c0-162c-11e3-a5c8-720952d2a5e4 ( ) è, in definitiva, l’album della maturità artistica e stilistica dei Sigur Rós. Con esso, la band finalmente trova la sua dimensione sonora ideale. L’unico scopo di ( ) è regalare un’emozione sincera e genuina, far tornare bambini, innocenti e candidi, liberare dal peccato. ( ) ci offre un aiuto per estraniarci da quella prigione che noi umani abbiamo costruito con le nostre stesse mani. E’ un disco da ascoltare nel buio della nostra stanza, con gli occhi chiusi e il cuore aperto verso il magico mondo che ci offre, un mondo fatto di maestosi paesaggi, visioni paradisiache, fate, folletti e gnomi. Un mondo libero, colmo di gioia infantile e amore.

Pier Luigi Tizzano

 

 

Indian Jewelry

 

Strana e bizzarra saga quella degli Indian Jewelry. Ma anche misteriosa e inafferrabile perché, in realtà, nessuno sa con precisione quanti siano i musicisti di questa band di culto della psichedelia underground. Si sa solo che sono un collettivo ad espansione continua e provengono dal Texas. Si sa che viaggiano on the road, come gloriosi hippie del passato, reclutando musicisti in ogni dove, esibendosi in performance musicali che sono, di fatto, un vero e proprio show allucinogeno. A dirigere l’orchestra sono in quattro: ij-truck-2la polistrumentista e cantante Erika Thrasher, il factotum Tex Kerschen, il batterista Rodney Rodriguez e il chitarrista Brandon Davis. Sono loro i titolari di questo psychedelic dream in salsa hippie, dove ognuno può entrare e uscire liberamente, come ci si trovasse in una comune, contribuendo, così, a creare un sound sempre più ricco e particolare e a rendere i live sempre più imprevedibili e originali, veri e propri circhi della follia umana. Nel corso degli anni, la band si è cimentata in progetti folli e originali, arruolando, di volta in volta, i più strabilianti personaggi incontrati sulle strade dell’America selvaggia. E, nonostante l’entrata e l’uscita di tanti e diversi musicisti, con background spesso contrastanti, il sound di base di questo maestoso progetto ha sempre mantenuto un comune denominatore: una devastante psichedelia di fondo. Forse devastante è dir poco.indianJewelry-640x428 Bisogna mettere subito in chiaro le cose: con gli Indian Jewelry non si scherza affatto. La loro musica è quanto di più psichedelicamente malato sia mai stato concepito nella storia del rock. Ci troviamo di fronte a droni, loop, drum machine, riverberi, chitarre, tastiere e rumori assordanti, che formano allucinanti agglomerati di suoni, capaci di violentare letteralmente le orecchie dell’ascoltatore. Tuttavia, pur rinnegando il formato-canzone classico e seguendo una sorta di anarchia strumentale, in cui tutto sembra essere concesso, i nostri eroi mostrano una insospettabile abilità melodica e un barlume di lucidità nel riuscire ad abbozzare linee geometriche in questo ammasso di devastazione psichedelica. La loro storia inizia nel 2003 e, oggi, la band è ancora in attività.Indian_Jewelry_-_Free_Gold! Uno dei momenti più alti della carriera l’hanno toccato nel 2008, quando hanno dato in pasto al pubblico il loro terzo disco, “Free Gold!”, We Are Free (copertina a destra), un vero e proprio viaggio spazio-temporale come insegna la tradizione psichedelica, un disco visionario e violento, terribilmente allucinogeno, la dimostrazione che la psichedelia non è morta nei ‘70, la prova tangibile che ci sono ancora una miriade di terre inesplorate da questo genere di nicchia e mai compreso a pieno. L’apertura del disco è affidata a “Swans” (ascolta) e “Temporary famine ship” (ascolta), veri e propri manifesti propagandistici, relativi a questo modo di fare musica, dove loop (campioni musicali che si ripetono in continuazione) ruvidissimi fungono da base a una voce “in trance” e a chitarre distorte, che sembrano quasi farsi guerra tra un assolo acido e un altro a seguire ancora più acido e così via. “Seasonal economy” (ascolta), altro manifesto psichedelico, capace di sconvolgere i sensi dell’ascoltatore, di disorientare e confondere. Ma nel disco non mancano momenti di quiete, pezzi più “classici”. Parliamo di “Pompeii” (ascolta) e “Everyday” (ascolta), ballate acide ed eteree, in cui sembra di trovare sia i rumorismi dei Sonic Youth, sia la decadente malinconia dei Velvet Underground. Tra i momenti di follia più pura, “Walking on the water” (ascolta), una canzone lenta e a tratti sognante, una tenue psichedelia che sembra venire direttamente da un mondo sconosciuto e cullare indianjewelryl’ascoltatore in sogni felici e spensierati. A seguire, “Too Much HonkyTonking(ascolta) propone atmosfere meno sognanti, più angosciose e claustrofobiche, in cui i singoli strumenti si sovrappongono caoticamente, stordendo e spiazzando. Da menzionare sicuramente, anche l’esperimento di psichedelia tribale di “Hello Africa” (ascolta) e “Seventh Heavean” (ascolta), pezzo di chiusura del disco, che si sviluppa in strabilianti rintocchi di chitarra e synth, che disegnano uno scenario cosmico, degno del kraut rock tedesco degli anni ‘70. In conclusione, “Free Gold!” è una piccola ma preziosissima pietra della psichedelia underground, un album ultrasperimentale, violento e viscerale, visionario e allucinogeno. E’ un’odissea crudele e stralunata, una deriva di suoni violenti e perversi, capaci di far rizzare i capelli all’ascoltatore per le visioni cui lo conducono. “Free Gold!” è il figlio legittimo degli hippie anni ‘70 e gli Indian Jewelry sono la dimostrazione che i sogni rivoluzionari non sono morti del tutto. Sono l’ultimo baluardo di uno stile di vita ispirato da alti ideali e idee universali di giustizia e libertà. Quattro maledetti sognatori innamorati e testardi, tutt’ora attivi musicalmente. E chissà, a quest’ora, mentre leggete quest’articolo, dove saranno e quale bizzarro personaggio staranno ingaggiando per i loro live. Lunga vita agli hippie del nuovo millennio!

Pier Luigi Tizzano

 

 

Mogwai

 

Dotati di un istinto primordiale e animalesco, impulsivi e imprevedibili, i Mogwai hanno coniato un inconfondibile marchio post – noise – rock. Tra digressioni furiose, feedback e una continua alternanza tra quiete e turbamento psichico, sono una delle realtà più singificative del panorama underground a cavallo tra gli anni ‘90 e i 2000. mogwai“La nostra unica arma è l’istintività. È per questo che non ci sentiamo assolutamente intellettuali, né pretendiamo di essere artisti”. Queste le parole usate da Stuart Braithwaite, chitarrista e responsabile della composizione della maggior parte dei pezzi dei Mogwai, per descrivere l’aspetto più importante della loro musica. La band scozzese deve certamente molto agli Slint, i maestri di Louisville, soprattutto per quel che riguarda la scelta di fare un rock rigorosamente strumentale, salvo rarissimi interventi vocali, più parlati che cantati. I Mogwai nascono ufficialmente a Glasgow nel 1995. Inizialmente, l’organico è formato da tre elementi, ma dopo pochi mesi, è reclutato un secondo chitarrista, per dare più energia al sound che giocherà molto sulle sovrapposizioni chitarristiche e su distorsioni caotiche e furibonde. mogwai-come-on-die-young-deluxeNel 1997, viene prodotto il primo Lp, dal titolo “Ten rapid”, grazie al quale il pubblico britannico conosce e apprezza la loro “strana musica strumentale”. Una musica che sembra più improvvisata che studiata, stracolma, quasi fino alla noia, di feedback e distorsioni, che turbano e squartano l’animo dell’ascoltatore. Ma in questa “strana musica” non mancano momenti di pace, dominati da soavi melodie, sulle quali si innesca, in sottofondo, un parlato calmo e rasserenante. Grazie a “Ten rapid” la fama della band inizia a crescere, i live si moltiplicano e i fans pure. MogwaiyoungteamPresto ottengono un contratto discografico. Assoldato il terzo chitarrista, pubblicano, nell’ottobre del 1997, il loro primo album, “Young Team”, Chemikal Underground (copertina a sinistra). Questo disco è solo l’inizio di un’epopea senza fine, di una straordinaria carriera che non vedrà mai bassi. Otto album (quelli pubblicati finora, ma la band è ancora in attività e, con ogni probabilità, non smetterà di stupire e incantare), che possono definirsi otto perle all’insegna delle emozioni e di un’instancabile ricerca sonora. Otto piccoli gioielli da custodire gelosamente, inestimabile patrimonio dell’umanità ai tempi della generazione senza valori e senza speranze. Scegliere un album e parlarne è un’impresa tutt’altro che facile. Verrebbe voglia di raccontarli uno ad uno, come fossero preziose storie da tramandare con orgoglio di generazione in generazione. Ma in questa sede mi è consentito recensire un solo disco, e allora parlerò di “Young Team”, il primo album da me acquistato, il disco che mi ha fatto conoscere i ragazzi di Glasgow, facendomene innamorare. Il disco parte con “Yes! I am long way from home” (ascolta), una triste ballata che si evolve in un crescendo di suoni impetuosi e distorti. Poi c’è “Like Herod” (ascolta), una lunga odissea che inizia morbida e pacata anche se nervosa e tesa. D’improvviso la canzone sembra finita, ma è proprio lì che comincia il bello: riff di chitarre distorte irrompono sulla scena, come un fulmine che squarta un cielo grigio carico di pioggia. Subito dopo, altri due brani all’insegna di saliscendi chitarristici: “Katrien” (ascolta) e “Summer” (ascolta). mogwai_071Nella prima, risulta presente anche una sorta di parlato incomprensibile, ma che si rivela prezioso nell’aiutare le chitarre a metter su un crescendo nevrotico e confuso, emotivamente instabile. Segue “Tracy” (ascolta), un pezzo dall’atmosfera quasi sognante, simile a quello che la band proporrà nei successivi lavori in studio. “With Portfolio” (ascolta), invece, inizia pacatamente, con un piano che sembra quasi ispirarsi alla musica classica, ben presto soppiantato, senza pietà, da distorsioni colossali a turbare, ancora una volta, la psiche, a violentare una quiete che nei Mogwai non è mai reale, ma sempre apparente. Con “R u still in 2 it” (ascolta), il disco torna a farsi morbido e d’atmosfera, proponendo una sorta di folk sognante e malinconico, sul quale si staglia il cantato di Aidan Moffat degli Arab StrapInfine, ci sono i due minuti di piano di “A cheery wave with stranded youngsters” (ascolta), che sembrano essere un preludio al finale lancinante di “Mogwai fear satan” (ascolta), dove, su una base ritmica veloce e tambureggiante, si elevano i soliti muri di distorsioni furibonde e inquiete, vero marchio di fabbrica della band. maxresdefaultYoung Team” è un piccolo grande disco, un elogio alla tristezza, narrato con una musica unica, cruda e toccante. E’ forse la perfetta sintesi di un decennio musicale inquieto e senza grandi ideali, un tentativo di rappresentare gli stati d’animo di una generazione allo sbando, di figli di nessuno alla ricerca di un qualcosa sempre più inafferrabile. Inafferrabile e vago, proprio come la loro musica strumentale, ma non per questo, brutto o indegno. E’ un disco che pone le basi per un percorso sonoro umile, che non vuole proporsi come avanguardia, ma come una semplice ricerca della melodia e delle più intime emozioni. Perché, in fondo, la musica dei Mogwai è emozione. Un’emozione naturale, genuina, innocente, spontanea. Bella!

Pier Luigi Tizzano

 

 

Cocteau Twins

 

La voce dei sogni. È probabilmente questa la definizione più adatta per la voce di Elizabeth Fraser, leader indiscussa dei Cocteau Twins, band scozzese che stupisce ed emoziona all’insegna di un dream pop genuino e maledettamente romantico, di cui sono stati i pionieri. zap_cocteauLa loro musica è uno strano flusso sonoro, fatto di echi, dissonanze, richiami psichedelici, riverberi, che si lascia amare e ascoltare facilmente, salendo in alto libero e maestoso, raggiungendo traguardi sconosciuti a tanti altri musicisti. Pochissime band sono riuscite a creare una formula musicale personale e svincolata da ogni tempo. Partiti da suoni cupi e depressi, sulla scia del dark punk britannico, i Cocteau Twins hanno presto sviluppato un sound personalissimo, approdando a un pop etereo, visionario e onirico. A un primo e superficiale ascolto, le loro possono sembrare, a tutti gli effetti, canzoni regolari, orecchiabili e melodiche. Ma, in realtà, la loro musica è quanto di più sperimentale sia stato concepito negli anni ‘80, specialmente per quel che riguarda l’aspetto vocale. Una voce cristallina, sognante, ipnotica, eretica ma, allo stesso tempo angelica, quella della Fraser. E proprio da qui, da questa straordinaria voce, che nasce la definizione di dream pop, detto anche ethereal wave. CocteauTwins1990La storia dei Cocteau Twins ha inizio in Scozia, sul finire dei ‘70, quando due ragazzi, Robin Guthrie (chitarra, tastiere e drum machine) e Will Heggie (basso), sognano di metter su una band con una voce femminile. Di lì a poco, l’incontro fatale, in una discoteca, con la giovane Elizabeth Fraser. Dopo una chiacchierata, i tre decidono di fare una prova insieme e, nonostante la Fraser non abbia mai avuto esperienze in band, le sue straordinarie doti vocali sono evidenti dal primo momento. I tre ragazzi hanno anche gusti musicali affini: adoratori dei Sex Pistols, ma anche del post punk firmato Siouxsie, Bauhaus e Joy Division. La Fraser, in particolare, è una grande fan di Siuoxsie, la regina della notte, da cui eredita alcune interpretazioni vocali da posseduta. La carriera discografica dei Cocteau Twins prende subito il volo grazie all’invio di una demotape all’etichetta indipendente 4AD. La band viene contattata e invitata a comporre altre canzoni per l’album d’esordio. E così, nel 1980, nasce “Garlands“, primo lavoro in studio. L’opera, seppure ancora un po’ immatura e chiaramente influenzata dal dark punk che stava dominando le scene musicali dell’epoca, mette subito in chiaro le cose e fa capire al pubblico di che pasta siano fatti i tre ragazzi. Il sound è distorto e ossessivo, il clima cupo e alienante, la voce della Fraser anarchica e libera, spettrale. A differenza della psichedelica, che cerca paradisi artificiali, i Cocteau Twins scavano nell’inconscio, inseguendo le emozioni più nascoste dell’animo umano.cocteau_twins-treasure Col secondo disco, “Head Over Heels“, datato 1983, i Cocteau Twins affinano la loro formula, raggiungendo un perfetto equilibrio tra le radici dark e il dream pop dei futuri lavori. Ma è nel 1984, con la pubblicazione di “Treasure“, 4AD (copertina a sinistra), che la band arriva al successo e alla maturità artistica, divenendo, assieme ai Dead Can Dance, la punta di diamante dell’etichetta 4AD. “Treasure” è un lavoro dalla sconfinata eleganza, ma tremendamente complesso, in cui la Fraser punta alto e gioca a fare la vocalist d’avanguardia, tirando fuori dal cilindro magico un repertorio da vera fuoriclasse. I due musicisti la assecondano, realizzando per lei delle trame di una bellezza più unica che rara, costituite da arrangiamenti barocchi e alieni, gioiosi e surreali. Dietro questo disco c’è sicuramente una ricerca sonora e sperimentale, ma anche una sorta di irrefrenabile anarchia. “Libertà totale”, questa la parola d’ordine che si sono dati i Cocteau Twins prima di entrare in studio e concepire il loro capolavoro. In quest’album non esistono testi, perché sono sostituiti da suoni e vocalizzi inventati al momento dalla Fraser, che usa la sua voce a mo’ di strumento musicale, sentendosi libera di improvvisare quel che le passa per la mente, l’emozione del momento. In questo modo, ogni brano si evolve completamente libero e in autentici spettacoli di suoni, CocteauTwins11come “Lorerei” (ascolta), forse il momento più alto del disco, una filastrocca gioiosa e infantile, una sorta di danza visionaria in cui la cantante la fa da padrona, innalzando le sue doti vocali a livelli quasi inimmaginabili. Poi c’è “Amelia” (ascolta), dalle atmosfere soffuse e quasi inquietanti, e “Aloysius” (ascolta), un pezzo molto intimo, dolce e sognante. Non mancano momenti chiaramente rock, in pezzi come “Ivo” (ascolta) o “Persephone” (ascolta), in cui riemergono le sonorità dark dei primi tempi. Da segnalare anche la tenebrosa “Cicely” (ascolta) e “Beatrix” (ascolta), la più sperimentale del disco. “Treasure” è, in definitiva, un prezioso gioiello, un’opera dal valore immenso, raffinata ed elegante, surreale e visionaria.Treasure” è pura magia, è introspezione, genuinità, semplicità. Un disco costruito sulle emozioni e su impalpabili evocazioni. Un disco senza tempo e dall’inestimabile bellezza. Da perdere la testa.

Pier Luigi Tizzano

 

 

Dead Can Dance

 

Maestosa creatura, i Dead Can Dance (Brendan Perry e Lisa Gerrard) sono il più importante e influente progetto di quella corrente gotica e d’atmosfera, figlia diretta della dark wave degli anni ‘80. Nessuno come loro, in questo campo, è riuscito a raggiungere risultati di così ampio respiro e a toccare vette inesplorate per la maggior parte delle band del filone dark.oglly2vt Dead Can Dance è, prima di tutto, un progetto culturale, poi, musicale, volto alla riscoperta di antichissime tradizioni religiose e tribali. La loro saga ha esplorato tempi, luoghi e tradizioni diverse, in particolare quella folk europea dell’epoca medioevale e rinascimentale, riscoprendo sia la musica sacra che quella tribale e allontanandosi, disco dopo disco, sempre di più, dai canoni musicali del rock. Immaginare la storia della musica gotica senza di loro è un po’ come immaginare la storia della musica rock senza i Led Zeppelin. E con questo, credo di aver detto tutto. I Dead Can Dance nascono nel 1981, a Melbourne, Australia. Hanno prodotto otto album, all’insegna della sperimentazione e della ricerca di sonorità sempre più cupe e d’atmosfera, lasciando in eredità un immenso patrimonio musicale, che ha dato il via alle danze del filone gotico ambientale, capitanato da band come i Black Tape for a Blue Girl. La cantante Lisa Gerrard ricorda con entusiasmo il loro primo incontro. Queste le sue parole: “Il primo brano che improvvisammo si chiamava ‘Frontier’ (ascolta). Quel giorno successe qualcosa di magico. Capimmo che tutto quanto avevamo fatto prima, da soli, non era assolutamente paragonabile. Si sbloccò qualcosa che nessuno di noi avrebbe immaginato; dovevamo ripetere quell’esperienza, per questo cominciammo a scrivere insieme”. deadcandance_1_1342176170Dopo un primo periodo di prove, i due decidono di trasferirsi a Londra, la patria per eccellenza del dark, città sicuramente più congeniale alla loro musica tenebrosa. A Londra i due ragazzi si distingueranno subito dalle altre band del dark (Bahuaus, Joy Division, Siouxsie and the banshess) mostrando un particolare interesse verso il folk e la musica mistica. Il loro sound subito si caratterizza da atmosfere lugubri e spettrali, arrangiamenti eleganti e un canto etereo e luminoso. Lo storico di musica australiana Ian McFarlane ha descritto la musica dei Dead Can Dance come “paesaggi sonori di incommensurabile grandezza e solenne bellezza”. A Londra c’è finalmente la svolta e la band firma un contratto discografico grazie al quale dà alla luce il suo primo disco: “Dead Can Dance”, datato 1984. La stampa britannica li accosta subito ai Cocteau Twins per le divagazioni eteree e sognanti del cantato. Ma ciò non è propriamente esatto. La musica dei primi Dead Can Dance discende soprattutto dal  punk dark di Siouxsie e Joy Division. Alle atmosfere da rituale occulto, però, i Dead Can Dance prediligono un senso di angosciata spiritualità, che si sviluppava attraverso salmi religiosi, litanie ed echi d’oltretomba. MI0001673291La svolta della carriera avviene con la pubblicazione del secondo disco, capolavoro della band e pietra miliare della musica tutta: “Spleen and Ideal”, 4AD (copertina a sinistra), datato 1986. Definire un capolavoro questo disco è, forse, riduttivo e, per comprenderne a pieno la grandezza, bisogna ascoltarlo tutto, anche più volte di seguito. Nell’album, i due ragazzi puntano su arrangiamenti sinfonici di fiati, percussioni e archi, accompagnati dai vocalizzi onirici e suggestivi di Lisa Gerrard. In ogni canzone domina un senso di misticismo quasi allucinante e i due vocalist, se pur diversi per caratteristiche tecniche e timbro di voce, raggiungono un’intesa che rasenta la perfezione. I brani iniziali possono essere considerati alla stregua di un viaggio nello spazio, quei tipici viaggi che i musicisti della psichedelia anni ‘70 improvvisano in concerto fatti di LSD. “De Prufundis” (ascolta) è fatta di cori liturgici sintetizzati, lunghissime frasi di organo e suoni di timpani sparsi qua e là. Su tutto questo si inserisce il cantato solenne della Gerrard, la cui estensione vocale permette escursioni sonore sempre più spettacolari. Poi c’è “Ascension” (ascolta), brevissima ma intensa strumentale, all’insegna di un sound angoscioso e spettrale, quasi come fosse un presagio di maledizioni e sciagure. “Circumradiant Dawn”  (ascolta) è un altro viaggio ipnotico di Lisa Gerrard: DCDoldaccompagnati da null’altro che una fisarmonica e da scarni accordi di chitarra, i suoi vocalizzi sembrano innalzarsi fino al cielo, quasi a voler prendere l’ascoltatore per mano e accompagnarlo in un viaggio tra stelle e pianeti sconosciuti. Questi tre brani segnano il prologo di un’epopea di musica arcana e spirituale, che non si concluderà in questo disco ma continuerà a evolversi nei successivi album, fino allo scioglimento della band. Il resto dell’opera è invece caratterizzato dalle ballate cantate da Brendan Perry, tra le quali spiccano “The Cardinal Sin” (ascolta) e “Enigma of the absolute” (ascolta), destinata a diventare uno dei loro capolavori assoluti. L’album “Spleen and Ideal” è il frutto del genio di due artisti poliedrici e visionari, il risultato di un lungo lavoro di documentazione, di sperimentazione e della ricerca dell’atmosfera giusta, canzone dopo canzone, in base a quel che si narra. “Spleen and Ideal” accompagna l’ascoltatore in un tempo alieno e sconosciuto, lontanissimo, arcano, oscuro, magico… Un tempo che rimarrà impresso come un marchio di fuoco nella memoria di chi lo ascolterà, apprezzandolo in tutta la sua grandezza.

Pier Luigi Tizzano

 

 

CCCP – Fedeli alla linea

 

I CCCP – Fedeli alla linea possono certamente ambire al titolo di massima rock band italiana di tutti i tempi. Nessuno come loro, nel belpaese, è riuscito a catturare il vero spirito del rock e portarlo nella provincia italiana, in quell’Emilia paranoica di cui parlano in un loro famoso album. La band ha posto la propria firma su uno dei periodi più importanti e controversi del rock italiano, periodo che ha dato i natali a grandi band ma anche a grandi fiaschi storici che, senza vergogna, si sono spacciati per roker e hanno contribuito all’inizio della decadenza della musica made in Italy. cccpE lo ha fatto senza mezze misure, con manifesti ideologici, inni alla rivolta, fervore punk ma anche introspezione e misticismo religioso e orientale. I CCCP nascono a Berlino nel 1982, in seguito all’incontro tra Giovanni Lindo Ferretti (voce) e Massimo Zamboni (chitarra). I due, muniti di drum machine, iniziano a suonare in giro per la Germania, ispirandosi chiaramente alla musica punk. Ma è quando tornano in Italia che hanno il lampo di genio: mescolare la cultura popolare emiliana all’etica e all’estetica del punk. Nulla di così colto o profondo, si tratta della cultura di strada, delle periferie e delle osterie frequentate dai beoni, ma anche della cultura politica. Non a caso, CCCP viene tradotto, dal russo all’italiano, in URSS (Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche). È più una provocazione che un vero e proprio inneggiare al comunismo sovietico. Il primo impatto col pubblico italiano non è fortunato e i due ragazzi decidono di allargare la band, abbandonando la drum machine e ingaggiando Danilo Fatur e AntonellaAnnarellaGiudici. Così, i CCCP – Fedeli alla linea sono al completo. E’ questo il vero momento ufficiale della loro nascita. La parabola artistica della band è tutta in ascesa. Non un solo disco si può definire brutto e in ogni album è presente un’evoluzione artistica ben precisa e definita. Nei primi due album (“Compagni, cittadini, fratelli, partigiani“, del 1984, e “1964-1985. Affinità-Divergenze fra il compagno Togliatti e noi. Del conseguimento della maggiore età“, del 1986) la musica è piuttosto rozza e scarna, seppure piena di energia punk. imagesSono dischi violenti, sia nella musica che nei testi, veri e propri inni alla ribellione e all’anarchia. Le canzoni sono annichilite e annichilenti, come la lunga “Emilia paranoica”, uno dei capolavori della band, in cui la musica, inizialmente lenta e ossessiva, quasi pesante, improvvisamente prende velocità per poi ritornare di nuovo lenta e ossessiva. Dal vivo, i CCCP si presentano come una sorta di circo decadente, con tanto di trampolieri, giocolieri e sputa fuoco, con Fatur “artista del popolo” che si mostra nudo e Annarella che officia riti agnostici. Ma dietro l’impeto dei primi tempi si nasconde una sorta di ricerca del misticismo e della pace interiore. E così, nel 1989, la band dà alla luce” Socialismo e Barbarie”, che apre le danze con “A Ja Ljublju SSSR” (ascolta), ovvero l’inno sovietico con un testo originale e strampalato, scritto da Ferretti, e che la band avrà l’onore di suonare (con i postumi di una sbornia colossale a base di vodka russa) in un teatro di Mosca, dinanzi agli alti ufficiali dell’esercito sovietico che si alzarono commossi ad applaudire. Nel disco, la violenza del punk inizia a mescolarsi con una musica più d’atmosfera e introspettiva e lo si avverte chiaramente in canzoni come “Manifesto” (ascolta), “Radio Kabul” (ascolta), “Oh Battagliero” (ascolta), “Inch’ Allah – ca va” (ascolta). Tutto ciò avviene con ancora maggiore forza negli ultimi due album (“Canzoni, preghiere e danze del II millennio – sezione Europa” e “Epica, Etica, Etnica, Pathos“) in cui la band si cimenta in canzoni d’atmosfera, spesso a sfondo mistico-religioso, quasi come fosse una spasmodica ricerca della pace interiore. Da segnalare, in tal senso, la struggente e dolorosa ballata dal titolo “Annarella” (ascolta), proprio come la loro soubrette, la quale, insieme all’artista del popolo Danilo Fatur, ha animato le prime esibizioni con memorabili performance e travestimenti. AffinitàDivergenzeCCCPFedeliallalineaDifficile scegliere un disco. Forse quello riuscito meglio è il secondo: “1964-1985 Affinità-Divergenze fra il compagno Togliatti e noi. Del conseguimento della maggiore età“, Attack Punk Records (copertina a sinistra). Il disco parte subito in quarta con una sorta di urlo-proclama, che mette immediatamente a nudo le incertezze politiche dei ragazzi e lo si comprende quando cantano “Fedeli alla linea e la linea non c’è.” Poi, si passa subito a uno degli inni storici: “Curami” (ascolta). La band narra delle psicosi della generazione degli anni ‘80, forse quella più di tutte sconvolta dall’eroina, la generazione dei fuori posto e dei disadattati. La musica di “Curami” è un punk devastante che non concede tregua. Il fervore del punk poi, pian piano si smorza in pezzi come “Trafitto” (ascolta), un vero e proprio proclama d’apatia, una canzone cupa e depressa. “Io sto bene” (ascolta), invece, può essere considerata una sorta di manifesto generazionale, di una generazione persa e depressa (“Non studio, non lavoro, non guardo la tv, non vado al cinema, non faccio sport“). Infine, c’è “Allarme” (ascolta), che, col suo clima dark e cupo, sembra essere una sorta di preambolo al finale col botto di “Emilia paranoica” (ascolta), il pezzo più rappresentativo del gruppo, in cui, in perfetto stile Pier Vittorio Tondelli, si narra di un’Emilia tetra e desolata, terra di tossici e sbandati, teatro della solitudine e dell’alienazione umana. CCCPfedeliIn seguito alla caduta del Muro di Berlino, i CCCP decidono che il loro ciclo è terminato e dichiarano sciolta la band. Da quel momento, ognuno prende la sua strada. Giovanni Lindo Ferretti e Massimo Zamboni fondano i CSI (leggi recensione), Fatur comincia un percorso da solista e Annarella abbandona per sempre la musica, ritirandosi a vita privata e girovagando per il mondo fino in India, per poi tornare in Emilia e aprire un’erboristeria. Ma questa è un’altra storia. Quella dei CCCP è finita ed è una storia straordinaria, la storia di quattro ragazzi italiani che hanno avuto il grandissimo merito di proiettare la provincia emiliana su un palcoscenico universale.

Pier Luigi Tizzano

 

 

My Bloody Valentine

 

Partiti come band dark punk, i My Bloody Valentine sono arrivati a una singolarissima fusione tra rock psichedelico e atmosfere sognanti, passando alla storia come uno dei più importanti gruppi dei primi anni ‘90 e come gli inventori del genere shoegaze. La loro musica è un macigno di suoni caotici e muri di distorsioni sovrapposte, che non concedono tregua all’ascoltatore, trascinandolo in un viaggio che è insieme infernale e celestiale. mybloodyvalentine_1_1356628573La band nasce a Dublino nel 1983 e, dopo anni di sperimentazioni, concerti in locali semisconosciuti e cambi di formazione, la maestosa creatura My Bloody Valentine riesce a sfondare ed entrare di diritto nella storia del rock. Peccato, però, che la sua parabola duri solo due, seppure straordinari, album: Isn’t anything e Loveless, rispettivamente datati 1988 e 1991. In questi due dischi vi è racchiusa tutta l’enorme portata innovativa della loro arte. Un sound unico e inimitabile, costituito da un imponente muro sonoro, che marca una musica caotica ma delicata al tempo stesso, dura ma sognante, disordinata ma, in fondo, ordinata, ricca di inestricabili grumi sonori, con le chitarre sovraccaricate di feedback ed effetti stranianti e stordenti, con le voci e le melodie appena abbozzate, bisbigliate e sommerse da un mare di rumore. È stata la stampa inglese a inventare il termine shoegazers (letteralmente i fissa scarpe, e, di qui, il genere shoegaze) per l’insolita attitudine dei ragazzi di starsene a capo chino sui loro strumenti durante i concerti. La spiegazione più plausibile di questo strano fenomeno potrebbe trovarsi nel fatto che gli shoegazers (tra i quali rientrano anche altre band importanti come gli Slowdive o i Pale Saints) vivono in un tutt’uno con la loro musica, una sorta di amore spirituale coi propri strumenti. 1362117626_tumblr_le7eiz0dL01qdh7boI due dischi sono capolavori del rock, ma forse quello che brilla un pochino in più per genio, è il secondo, Loveless, Creation Records (copertina a destra). L’album parte con Only shallow  (ascolta), fatta di strati su strati di chitarre rumorose e tremolanti sui quali la voce angelica della cantante Bilinda Butcher canta melodia sommesse e distanti. Con Only shallow è subito chiaro lo scopo della band: creare vortici di suoni distorti e rumorosi, amalgamati perfettamente tra di loro e volti a formare un tutt’uno che fluttui per minuti e minuti. Per i My Bloody Valentine è molto più importante la ricerca del sound che il ritornello. Poi, c’è Loomer  (ascolta), una canzone dura e aggressiva, un micidiale hardcore addolcito come sempre dalla voce angelica, etera e paradisiaca della Butcher. Il capolavoro è To Here Knows When  (ascolta), la cui melodia è dolcissima e lontana, sepolta da tonnellate di rumore. La distorsione delle chitarre è estrema e accoppiata ad un quartetto d’archi “artificiale”. Ne viene fuori un’overdose di suoni distruttivi. Ma tutto si fonde alla perfezione, come in un puzzle, a dimostrazione del genio dei musicisti capaci di unire ciò che sembra essere diviso e contrapposto. I brani centrali del disco suonano più regolari, somigliando a delle classiche rock song, le quali, però, vengono ogni tanto stravolte da bizzarri motivetti elettronici. My+Bloody+Valentine+ImageAltro capolavoro da menzionare è Come in alone (ascolta), nella quale sembrano aleggiare le mitiche atmosfere della psichedelica anni ‘70. Poco dopo l’uscita del disco, i My Bloody Valentine sparirono dalla circolazione per riunirsi solo nel 2013, con la pubblicazione di MBV. La loro è stata una rivoluzione incompiuta, spazzata via nel giro di qualche anno dal britpop di band come gli Oasis, che banalizzeranno e renderanno quasi inesistente quel magico connubio tra rumore e dolci melodie. Loveless rimarrà il manifesto dei My Blood Valentine e di un modo tutto particolare di fare musica: un disco meraviglioso, astratto, etero. Un sogno nel sogno.

Pier Luigi Tizzano

 

Pixies

 

Band di rock alternativo statunitense, formatasi a Boston nel 1986, è considerata dalla critica tra le più importanti e influenti del rock alternativo. La loro è una musica piuttosto caotica e distorta, spesso fino all’inverosimile, fatta di melodie scanzonate e ritmi ossessivi. pixies_1_1351682644I Pixies hanno senza dubbio coniato un nuovo e innovativo linguaggio musicale, dal quale hanno attinto ispirazione tante band dei ‘90, tra cui addirittura i Nirvana di Kurt Cobain. La loro è una storia come tante. Nel 1986, il cantante Black Francis e il chitarrista Joey Santiago si conoscono a Porto Rico, dove entrambi studiano. I due decidono di lasciare l’università e di inseguire il loro sogno musicale. Si trasferiscono a Boston e, grazie a un annuncio su un giornale, la band è fatta. Si uniranno a loro la giovane e talentuosa bassista Kim Deal e il batterista David Lovering. I ragazzi iniziano pian piano a spopolare nei locali di Boston con la loro strana ma originale musica, definita noise pop (due terzi di rumore e un terzo di pop). Le loro sono canzoni acide e molto violente, ma nelle quali c’è sempre un nucleo melodico di fondo ben definito. Nel 1987, i Pixies esordiscono con un EP dal titolo Come on Pilgrim.MI0002009636 Il lavoro è ancora acerbo, ma il loro stile inizia a delinearsi chiaramente. Nel 1988, invece, c’è la svolta definitiva. La band pubblica il disco Surfer Rosa, Rough Trade (copertina a  sinistra), e immediatamente raggiunge il primo posto delle classifiche inglesi di rock indipendente. L’album viene accolto dalla critica musicale con grande entusiasmo. Si parla di ultimo grande capolavoro del post-punk e artisti di caratura  internazionale  come  David  Bowie  si affrettano ad esprimere il loro apprezzamento per il lavoro della band. Musicalmente, il disco ripropone il sound base del gruppo: un garage rock interpretato in maniera personalissima, in quanto stravolto da riff di chitarra distorta, ritmi spasmodici, urla isteriche ma unite sempre a una melodia di base, che addolcisce il tutto, creando un’atmosfera eterea e infernale a un tempo, confondendo e stordendo l’ascoltatore che si trova in balia di una musica stralunata e quanto mai originale. Il disco parte in quarta con Bone Machine (ascolta), una canzone ferocissima dominata da dissonanze ed effetti ossessivi. La foga e la tensione diventano, poi, sempre più esagitate e lo si sente in pezzi di chiara ispirazione punk come Something against you e Broken face (ascolta), canzoni nevrotiche e veloci. Poi la tensione si smorza e i quattro ragazzi di Boston virano verso un sound meno caotico e veloce, leggermente più melodico, ma dal forte impatto psicologico, come nella canzone River Euprhrates  e in Gigantic, la ballata firmata dalla bassista Kim Deal che veste i panni di songwirter. La musica di Gigantic (ascolta) è molto lineare ma dal forte impatto emotivo: su una semplice linea di basso, accompagnata dalla batteria, si innestano le chitarre, mentre la voce della bassista crea una delicatissima linea melodica. pixies2Ma il pezzo in assoluto più travolgente del disco è Where is my mind (ascolta): una melodia tremendamente acida, ossessiva e delirante, una sessione ritmica molto cadenzata, lenta ma inesorabile, e un testo surreale concorrono a creare la canzone perfetta, destinata a divenire uno degli inni per eccellenza dei Pixies  e a far parte della colonna sonora dell’immortale capolavoro del cinema Fight Club. Surfer Rosa è un disco sorprendentemente innovativo, dalle infinite influenze e in cui domina una tensione di fondo, quasi snervante. Un disco con cui i Pixies hanno coniato un nuovo modo di fare rock, destinato a divenire (un po’ come è successo per i Sonic Youth) una inesauribile miniera di ispirazione per tante band degli anni ‘90. Un disco assolutamente da ascoltare per capire le successive evoluzioni della musica rock e gli anni Novanta.

 Pier Luigi Tizzano