Trent’anni fa i jeans sgarrati al ginocchio erano anzitutto un fatto morale, più dell’imperativo kantiano, più del dover essere di Kundera. O ti rompevi i jeans o eri un piccolo borghese di merda. Lacerai talmente ad arte i Levi’s 501 chiari che Luigi mi aveva passato, da farlo pentire amaramente il sabato pomeriggio che li indossai per andarci in giro. Era il 1986 ma io volevo precorrere i tempi. E poi sapevo di avere Madonna dalla mia. Anche lei aveva i Levi’s 501 scorticati. E sapeva così tanto di libertà. Poco fa da un portone è uscita una ragazzetta di vent’anni. Io guardavo i trifogli e Rugantino ci pisciava sopra. Anche lei gli sgarri al ginocchio. Quelli però che van di moda adesso. Senza sfilacciamenti, senza sbreghi. Bocche perfette. Che se ti siedi sbadigliano.
I ragazzini hanno il broncio dei bulli. Fumano insieme passandosi l’accendino come fosse un coltello. Il mento in avanti, la fronte bassa, parlano brevi fissando la strada. Aprono Millenniun, cioè il libro di storia che i genitori gli hanno dovuto comprare un mese fa. Siccome oggi hanno il compito in classe fotografano le pagine sulla Controriforma direttamente col cellulare. Dopo ingrandiranno gli scatti. Dopo copieranno. E quindi andranno avanti. Scrollando le spalle. Attraverso gli anni. Fino a trovare uno straccio di lavoro e una donna disposta a ospitarli nella propria fica e a dargli dei figli. Quei figli che dopo di loro faranno nuove foto a nuovi libri di storia, forse alle pagine sull’Isis. E poi copieranno, prenderanno la sufficienza e andranno avanti. Scrollando le spalle. Lasciandosi dietro uno sciame lungo di sconfitte o magari pure di grandi traguardi, ripensando ai giorni delle loro sigarette, ai giorni delle mie sigarette. Ai soli giorni larghi e onesti in cui tutti noi fumammo pur qualcosa senza per questo avere i sensi di colpa.
Amo da sempre i giorni corti di novembre. La città che si impasta in una frenesia di neon e negozi. Guarda qua, è tutto un gigantesco orto zeppo di fari, semafori, lampioni, insegne. Una giostra di piccole e grandi scintille. Il carosello elegante del glamour. E come si pavoneggiano adesso quelle vetrine. Roma non avrà le luci di Parigi, però qualche volta fra le guance secche dei larici si affaccia un rasoio di luna e nessuno ha paura dei lupi.
Addio, Maestro! Nessuno potrà mai capire quanto la meditazione delle Tue opere mi abbia fatto amare la letteratura e mi abbia insegnato a scrivere. Con Te, se ne va anche un pezzo della mia storia spirituale. I tuoi semi, però, sono germogliati in me! Grazie di tutto!
Ogni tanto mi rendo conto di non saper usare questo social (Facebook) nei modi più invalsi. Non scrivo quasi mai di cronaca, che sia rosa o nera, o di politica. Non mi addentro mai nelle questioni del giorno, siano esse ricorrenze o argomenti in voga. Non adotto il linguaggio diffuso nei link e difficilmente mi pronuncio sulla religione o lo sport. Eppure so di dire la mia. Di dirla comunque. Anche se all’apparenza non sembro che il portavoce di me stesso. Credo dipenda dal punto di vista che alla fine uno ha. Io guardo la vita e il mondo. Ma non so raccontarli se non alla mia maniera. Cercando nel passato (a volte persino nel futuro) il buono e il cattivo di oggi.
Nella vita devi imparare a giocare d’attacco. Se sai stare in difesa, ottimo, okay, capito, proteggi ciò che ti sta a cuore. Ma poi? Pensi sia finita lì? Il vero motore è nella motivazione che ti darai per mordere tutto lo spazio enorme che resta. Nell’innamorarti. Innamorarti, sì. Di una cosa qualunque, non importa cosa. Persone, alberi, una strada, un film, quella canzone. E poi dargli sotto. Se non pigli tu la palla finisci in panchina. E una vita in panchina è triste. Gli altri che giocano, tu in panchina. Alzati, allora. Alzati e ricordati di quando eri un cazzo di bastardissimo ragazzino e abbaiavi e davi calci e non volevi prenderti solo il campo. Ma il mondo. (A tre amici miei. O quattro).
Dodicimila lire. Vinte a sette e mezzo il pomeriggio di Santo Stefano. Il prezzo del primo album che comprai l’indomani, ossia la colonna sonora di “Staying Alive”. I Bee Gees, Frank Stallone, sapete. Undici anni, un soldo di cacio. Ma con quella sensazione di aver finalmente compiuto il passo decisivo verso l’età adulta: il fatidico rito di transizione dall’infanzia racchiusa nell’innocenza martellante del 45 giri alla maturità incarnata dal ben più impegnativo formato 12 pollici. Finì con la puntina sul primo solco di “The woman in you” in un freddo mattino d’inverno del 1983 l’egemonia materna a base di John Lennon e Bob Dylan e Kim Carnes e Lucio Dalla. E iniziò la mia: la spumeggiante epopea degli Anni Ottanta, cioè gli ultimi anni moderni della nostra storia. Gli anni in cui la musica pop era una faccenda seria. Gli anni in cui essere pop aveva uno specifico senso politico. Una connotazione eversiva. Gli anni in cui bisognava forgiare al di qua del Muro un linguaggio nuovo e indipendente. Un fare alternativo e spiazzante. Un credo che sfuggisse all’occhio-spia del Grande Fratello di “1984”. Il long-playing. Quella gigantesca custodia, i testi stampati sulla busta satinata, la carica elettrostatica del vinile una volta che mi decisi a sfilarlo da lì dentro e poi partì la musica. Senza ancora il pulviscolo. Il pulviscolo enorme che sarebbe venuto invece dopo. Negli anni successivi alla caduta del Muro. Quando non volendolo eravamo diventati tutti come Winston e Julia.
In noi adulti l’infelicità si affaccia tra le cose fatte da ragazzi, poi mollate in qualche angolo, molto lontane da noi. Sale dagli scantinati in cui abbiamo sigillato i nostri giocattoli, i nostri primi amori, certe grandi passioni che d’un tratto reputammo avvizzite invece dovevano ancora fiorire. Dai ripostigli in cui abbiamo nascosto vecchi amici come fossero strofinacci lisi. Dalle soffitte in cui abbiamo abbandonato quel modo che avevamo di vedere lo sviluppo della nostra vicenda umana, la nostra stessa fervida immaginazione. Oggi camminiamo tra le lapidi di tutto quel che, per imbarazzo e pudore, non siamo stati in grado di far durare nel tempo. Eppure alla fine abbiamo capito. Che crescere significa imparare una cosa poi rinnegarla poi rimpiangerla. Questa è la storia dell’uomo. Questa e poco altro.
Il 45 giri ti obbligava all’ascolto ripetuto (spesso fino alla nausea) di un unico brano. Il lato a riportava la canzone principale, il lato b un brano di minor rilevanza, spesso contenuto assieme all’altro nel medesimo long-playing, ogni tanto legato a epoche e dischi precedenti. Io non sono mai stato un nostalgico di quelli che bofonchiano tra i denti cose come “eh, ma ai miei tempi”, bensì un semiologo, un ermeneuta. Uno che vigila sui nessi fra le cose e su come questi cambiano nel tempo. Cosa lega l’ascolto infinito di un pezzo stampato su un 7 pollici in gommalacca e la durata delle relazioni affettive per esempio? L’abilità a una gestualità e a una ripetitività e a una sedimentazione lenta e profonda? La pazienza della memorizzazione e dell’apprendimento sul lungo termine? L’oggettualità? Certo è che l’evoluzione tecnologica, specialmente nel campo della fruizione multimediale (musica e film in primis), ha prodotto tra le sue più immediate conseguenze la dispersione fisica di un rapporto fra le parti. L’arte si sfalda nei modi dell’invisibile e dell’impalpabile. Nell’era della musica in tasca, nell’era, dico, della compattezza e dell’iperconcentrazione, non sorprende perciò che anche i legami tra gli individui – secondo la macabra concomitanza che unisce psicologia e consumo – siano scaduti a puri e impalpabili aneliti. Occasioni. Senza volto. Senza corpo. O anima. O memoria.
Quantunque la bellezza esteriore di una persona sia subordinata a dei precisi parametri estetici (ad esempio è innegabile che la pancia in un uomo o la cellulite nelle cosce di una donna siano fra gli inestetismi più frequenti e temuti), nondimeno fascino e appeal si misurano attraverso la capacità (spesso innata e involontaria) che alcuni soggetti (anche non canonicamente belli) hanno di “fingersi” attraenti e di piacevole aspetto. La natura è capricciosa, si sa. Essa genera a caso bellezza e bruttezza. Esser perfetti fotomodelli o ricurvi come punti interrogativi sono ambedue condizioni inseparabili dalla fortuna (la famigerata “tyche”). Eppure cosmesi e cura di sé hanno ormai compiuto passi da gigante. Chiunque potrebbe far sulla propria immagine un ottimo lavoro di “ricostruzione” (i cosiddetti miracoli, esatto). Partendo tuttavia da un principio basilare e imprescindibile. Se ambisco alla “mia” bellezza devo suppormi fin da subito come potenzialmente bello (che non significa “crederci”), ossia evitare che gli altri mi sottostimino. Gli altri sono l’astrazione metafisica con cui ci confrontiamo immediatamente dopo lo specchio. Gli altri sono sia fuori che dentro di noi. È bene, in altre parole, ricordarsi che se io mi presento al mondo come una pantera difficilmente il mondo mi considererà un gatto da cortile. E viceversa, chiaro. Di fatto quanto più fiero andrò del mio aspetto, tanto più il mondo subirà il mio carisma (quand’anche esso fosse un colossale, strabiliante bluff). Al contrario, quanto più mi lagnerò in giro delle mie imperfezioni, tanto più gli altri saranno riflessivamente indotti a disprezzarmi.