Archivi categoria: Pensieri

“Es Muss Sein”

 

I talent, i reality, i social. Una multiformità di incroci che nascono e muoiono nel giro di poco. Fatti apposta per non durare. In quanto il vero nemico dei nostri giorni è la durata. La durata di un prodotto non ne favorisce il ricambio e perciò nuoce al consumo. Se una cosa resiste all’usura il mondo si ferma. Da qui il senso della nostra epoca. Far sì che le cose (materiali e non solo) durino il minor tempo possibile. Fare in modo anzi che si corrompano in fretta. Che tramontino, muoiano. Walter Benjamin pubblicò un saggio molto interessante, “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”. In esso sosteneva che la riproduzione perfetta di un’opera d’arte snatura il prodotto artistico, svuotandolo di autenticità, riducendolo a merce, rendendolo “kitsch”. Quando fruizione si trasforma in consumo l’opera perde la sua caratteristica di evento irripetibile e si offre come simulacro, come stendardo, come bandiera. I totalitarismi, diceva il critico tedesco, sfruttano la serialità dell’esperienza artistica come strumento di controllo delle masse. Anche Kundera sostiene più o meno lo stesso quando racconta la fine della Primavera di Praga e l’invasione dei sovietici. Quando confronta necessità con libertà, il “così deve essere” con la leggerezza, l’evanescenza del possibile. Benjamin pubblicò il suo scritto nel 1936. Se avesse potuto scriverlo oggi, avrebbe trattato dei talent, dei reality, dei social. Avrebbe trattato della grande decomposizione sociale. Della sua dissolvenza e dissoluzione. Di questa contemporaneità senza amore. Dove le persone – non solo gli oggetti – sono replicabili all’infinito. Invise alla durata. Degradabili. Per dirla ancora con Kundera, mai neppure esistite.

Patrick Gentile

 

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Un letto ben rifatto

 

A volte mi sembra di vivere come certe bestie. Brancolo semicieco per le gallerie dei giorni. Accumulando dati. Combinando più cose insieme. Addizionando questo a quello. Canzoni, film, letture occasionali, blow-job, rimming. Ingoiando epifanie e scorie. Sono il buco di un lavandino, la bocca di una pattumiera. Differenzio, poi inglobo. Qui le storture, lì il buono di chi è buono con me. Contraccambio con la stessa moneta. Ammasso gettoni, dopo divido i bianchi dai colorati, ficco negli oblò e mi siedo ad aspettar che sia tutto di nuovo asciutto e pulito. Poi ricomincio da capo. Scrivo per non dover vomitare. Ma sono uno che non esce di casa se prima non ha scopato il pavimento. La prima cosa imparata. Rifarmi il letto. Se potessi chiedere a Dio cosa voglio io prima di crepare. Ebbene. Un letto ben rifatto. Oh yes indeed, my Lord. Poi… Volino gli stracci.

Patrick Gentile

 

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Toppe

 

Quanti sbreghi nelle toppe. Quanta miseria. Una fretta rozza di cose, il trito dei discorsi smozzicati, gragnole di rosari nel chiuso delle tasche. Briciole che ci graffiano le dita. Una vecchiaia di odori, astanterie, cucine predate da una caligine di colpe. Presi a cucchiaiate. Ricuciti a mezz’aria. In bilico da piani ignobili. Pareti di alfabeti per miopi. Arrampicati come gatti sulle ringhiere. Ci guardiamo. Tutti. Lo stadio della pelle. I denti. Se dimagriamo. Se ingrassiamo. Se siamo vegani o crudisti. Passeracci sotto una pioggia che massacra. Puniti. Spericolati. Vinti.

Patrick Gentile

 

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Perché scrivo

 

A volte qualcuno mi chiede perché scrivo. Così sulle prime mi ritrovo a farfugliare, a incartarmi. Poi recupero il ritmo e allora glielo spiego. Che a me scrivere serve come la fame e come la sete. È motore e tubo di scappamento. Aria e merda. Io devo fiutare il tanfo nauseante della vita e poi pestarlo sulla carta. Se non lo faccio non riesco a vedere nemmeno l’atroce bellezza dell’esserci. Devo scriverla l’esistenza. Se voglio farci pace.

Patrick Gentile

 

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Il come

 

Su Facebook la tendenza è quella di fare opinionismo. Tutti parlano di tutto. Politica. Sport. Ecologia. Attualità. Quasi che non siano bastati, tra elementari, medie e liceo, tredici anni di temi in classe in cui ci veniva chiesto, a noi ragazzini indifferenti e idealisti di quegli anni sciolti, ciò che pensavamo del mondo. Poi ci hanno dato i social. E quei temini (sovente con gli stessi identici errori ortografici di allora) si perpetuano ‘in omne tempus’. Tutti a pronunciarsi su tutto. Lo stesso fervore. La stessa pletora. La stessa enfasi. La stessa retorica. In una corsa alla divulgazione che quasi fa spavento. Il telegiornale e poi il social, adiacenti l’uno all’altro come un “Porta a Porta” senza fine. Opinionisti sulle nostre belle sedie ergonomiche. O sui marciapiedi. Poco cambia. L’importante è dir la propria. L’importante è dirla, oppure averla detta. Come, fa niente. Non siamo mica dei Voltaire. E del come non frega più una mazza a nessuno. Che noia. Baudelairiana noia. Spleen.

Patrick Gentile

 

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La “superiorità etica e culturale” del burqa

 

Questa foto voglio dedicarla a quante e quanti si ricordavano (e si ricordano) dei diritti delle donne negli eticamente avanzati stati arabi, soltanto quando l’ultimo Presidente del Consiglio, eletto dai cittadini, rantolava di inferiorità culturale o quando lo fa qualche esponente politico, ideologicamente loro avverso.
Ingabbiare le donne, seppure in una stia di tessuto, è un chiaro segno di inferiorità culturale. Punto!
Su questo non c’è nulla da discutere. Nessun buonismo, nessuna filantropia e nessuna Boldrini. Solo inferiorità etica e culturale!!!

 

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Automi

 

Fatico a trovare uno slargo. Tutti a chiedersi cosa si fa. Dove. In che senso. Perché. Abbozzi in un italiano sgorbiato qualcosa che non dia fastidio e non sottragga minuti preziosi a chi ti siede di fronte. Esatto, metti insieme due parole due, ma si vede lontano un miglio che quegli occhi già cercano altrove. Disinteresse e vuoto. Imbarazzo nelle frasi accartocciate. Labbra serrate sui nostri orridi inferni domestici, mani strette su spiccioli di felicità minuta, un deodorante nuovo, la pasta che ti sei cucinato, le bollette pagate in tempo. Meschini. Anzi no, castrati. Paralizzati automi da strapazzo, tutti i meccanismi inceppati. Fili scoperti, caduta della tensione. Niente che faccia più contatto. Nessuno che sappia più come oliare questi pezzi di ferro rosi dalla ruggine.

Patrick Gentile

 

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Verso il cielo

 

Certe volte alzo la testa a guardare la linea che divide le case dal cielo. E allora mi chiedo se ho vissuto abbastanza pienamente i giorni migliori della mia vita. Se ho fatto parecchio o avrei dovuto azzardare di più. Ci penso, certo. Ci penso perché oggi potrei morire. Perché ogni giorno potrei morire. Io un tempo me ne fregavo di questa cosa della morte. Oddio, neanche troppo a dire il vero; certamente però molto più di adesso. Ma gli anni sono passati. Non ci facevo caso granché, prima. Poi, piano piano, mi sono accorto che avevo preso ad accelerare i ritmi, con la sensazione crescente di non arrivare ovunque io abbia sperato di arrivare. E allo stesso tempo che mi stavo fermando. Su quella cazzo di linea. Quella che dicevo poco fa. Quella cazzo di linea che divide le case dal cielo.

Patrick Gentile

 

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That’s all, Folks!

 

I ragazzini fumano ai bordi della gommalacca. Eppure sono ancora quanto di più vicino al 1984 possa esserci nel 2015. Ma c’è sempre stata come una perennità sinistra di quel tempo, non trovate?
Un eterno faraglione piantato in mezzo a un campo di sassi. Gli anni ottanta. Proprio così. Si accesero i colori dai tubi catodici Philips e Telefunken, ci ordinarono di non posizionar gli apparecchi accanto agli impianti hi-fi per non doverci poi ritrovare con lo schermo tutto verde, ci diedero bottoni, ci dissero: that’s all, folks!
Ed avevano maledettamente ragione. Razza di bastardi figli di puttana.
Cazzo di giostra. Ci sono finiti dentro persino loro. Questi ragazzini che fumano in bilico alla gommalacca, ripeto. La stessa gommalacca dei vinili che facevamo girare noi sul piatto del nostro stereo. Biascicano le nostre gomme americane, la nostra strafottenza cruda, lo stesso schifo di parole che abbiamo prodotto noi. Noi, cioè i figli di chi ebbe vent’anni nel 1968. Noi, cioè i loro padri e le loro madri, già molto pericolosamente al centro del piatto, esattamente lì dove la velocità raddoppia e ci spoglia di tutto.

Patrick Gentile

 

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Da ragazzi

 

Da ragazzi ci si concede il tempo, il domani. Per rimediare alle sviste, correggere il tiro. Per riparare agli errori, smarcare gli abbagli. Ci si dà una seconda possibilità, e una terza anche, una quarta, una quinta. Ci si dà spazio. Davvero tanto spazio. Per far funzionare quel che era incominciato male, fra le note dolenti, i tradimenti, i pugni e le pedate. Si aspetta. Da ragazzi si può aspettare. Sui muretti. Nei cortili. Davanti a una porta chiusa. Soli. Di domenica. Fradici. E furtivi anche. Nell’erba. Si può aspettare. Che arrivi, poi passi. E dopo, dopo non si aspetta più. Dopo è andata. Il tempo clamorosamente scaduto. Ci si abbandona al primo no, al primo graffio, al primo dissenso, ancor prima.
Restano questi cigli di strada brancolanti di adulti scaraventati fuori da auto in corsa, resta un gran mucchio di giovani vecchi adulti azzoppati.

Patrick Gentile

 

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