Una giurisprudenza che con consapevolezza attribuisca pieni diritti civili alle sole persone eterosessuali è una giurisprudenza iniqua e retriva, bieca e discriminatoria, in quanto di fatto promuove il malanimo intrinseco ai separatismi e alle differenziazioni emotive, psicologiche, affettive delle singole persone. Obbliga al cieco rispetto e all’ottemperanza burocratica, ma non concede a sua volta riconoscimenti legislativi. Non gratifica ma sfalda. Non schiarisce ma ottenebra. Non conduce all’evoluzione intellettuale e spirituale, ma ingabbia, perlopiù nel nome di Dio, la natura umana, assegnandole, a seconda delle sue inclinazioni erotiche, un valore etico di volta in volta diverso. Una società dove un uomo non solo non può crescere un figlio col proprio compagno ma tantomeno può occuparsi di quest’ultimo se è degente a causa di un intervento al cuore, è una società che ha irrimediabilmente fallito nella propria funzione di creare lo sviluppo e il rafforzamento di una cultura liberale, illuminata, raziocinante. Una società inopinabilmente perduta.
Facile animarsi per il buono, il giusto, il virtuoso. A me però attraeva di più il controverso, l’oscuro. E non in quanto subissi il fascino del malvagio, bensì per l’esatto opposto. È che nei cattivi io andavo a cercare le ragioni della cattiveria, il lato malinconico e indifeso, certo di trovarlo, foss’anche solo all’ultimo. Credo che l’apice della grande dicotomia manichea che vede protagonisti indiscussi il bene e il male sia stata rivista e smussata a partire dalla saga di “Guerre Stellari” e amplificata poi dal famigerato simbolo del Tao, affacciatosi come un morbillo sugli zaini Invicta dei figli della Guerra Fredda. Una goccia di bene nell’olio del male, una goccia di male nell’acqua santa, ci spiegavano i meglio informati. Amaso aveva le matite al posto dei capelli. Dei tre ministri della Regina Himika era il mio preferito, allo stesso modo in cui, a differenza di Capi, Dolce e Jolicoeur, lo era Zerbino. Seguivo Remì nel suo viaggio stando attento al suo cane nero, preoccupato, più che per tutti gli altri, che potesse patire i morsi della fame e quelli del gelo. Ci sono venuto su con quest’ansia. Sarà che del tutto inaspettatamente Himika a un certo punto moriva e anche il più sfegatato fan di Jeeg non poté non restar di sale. A volte penso che chi fu ragazzino negli anni di Alfredino e delle Falkland, abbia incamerato tanta di quella filosofia giapponese da chiedersi, crescendo, se tutti questi cartoni non siano stati altro che una risposta sgargiante a Hiroshima e Nagasaki, il tentativo maestoso di un popolo di esorcizzare (con l’apparente linguaggio dei bambini) le conseguenze del massimo morso della Storia. Neghini, neghini, nasanucolò.
Tra i Duran e gli Spandau, gli A-ha perché “Cry Wolf” esplodeva dai diffusori fino a coprire il dolore sparso in casa e perché da grande volevo vivere sui Fiordi. Tra i Beatles e i Rolling Stones, i Who perché facevano i suoni del futuro e io decisi che ero “Tommy”. Tra i Genesis e i Pink Floyd, i Dire Straits perché “Money For Nothing” scrostava già da sola l’intonaco dal Muro di Berlino. Tra i R.E.M. e i Guns, gli U2 perché ci si poteva ballare sopra e il remix di “Lemon” avrebbe spinto chiunque a un’esperienza omoerotica in anni ancora imperfetti. Tra gli Oasis e i Blur, i Verve perché se ascolti bene “Bittersweet Symphony” capisci che dentro c’era già tutta la tragedia magnifica della Storia di dopo, le Torri Gemelle, la grande crisi occidentale, lo spaventoso tracollo della nostra civiltà.
Quando infili “Heroes” in cuffia e ti accingi ad affrontare il nuovo giorno, in mezzo ai residui ambigui del fine settimana ancora in tasca e il tuo lavoro da portare avanti, le cose da dire ancora e quelle da non dire più, ebbene senti qualcosa di gelido come un rasoio alla gola. I ragazzini dormono in un angolo in fondo all’autobus e hanno i capelli sudici, sono ermetici al traffico di fuori, al dialogo col prossimo, dalle loro madri ai loro padri, a questo mondo indifferente che gli abbiamo lasciato. Non si lavano. Puzzano. La gente puzza. C’è questo tanfo che esala dai tombini lungo la strada, dalle nostre coscienze. Una paccottiglia di buoni propositi, degenerata in sonnolenza e torpore mattutini. In un fetore che cresce e devasta. Ma possiamo essere eroi. Possiamo essere delfini. Possiamo essere noi. Giusto per un giorno.
Oggi è il contrario di ieri. Cielo largo, aria orizzontale, luce. Tanta. Ossigeno. Mi piace andare a Trastevere, nonostante Roma cada, mangiare arabo con Mattia. Mi piace Ponte Fabricio, quel disegno caotico dei platani che crolla sul fiume verde in ombre profonde. Respiro. E certe volte respiro come non avessi mai respirato prima d’ora in vita mia. E smetto di sentirmi al crepuscolo ma di nuovo giovane forte vivo. Malgrado l’agonia sociale, malgrado questa grande infelicità collettiva. Mi basterà la solita scodella di riso, dopo fare l’amore con qualcuno che nemmeno conosco, rientrare nel rosa che alla fine scoppierà.
Credo che si possa insegnare tutto a un figlio. Indirizzarlo verso il buono e il ben fatto, la lealtà e l’onestà. Dargli gli strumenti necessari per affrontare le traversie, sdrammatizzare le sconfitte, superare le perdite. E poi basta. Quando un figlio si autodistrugge un padre e una madre cercano sempre delle risposte nella loro propria condotta. Ma questo è ingiusto. Perché alla fine non sono stati certo loro a sprecare tutto.
Quando decido di scrivere una storia non mi muovo mai alla cieca. Ma stabilisco il punto di arrivo prima ancora di cominciare. Il punto di arrivo è all’origine del progetto. Ciò per cui si può iniziare. Poi adotto un lettore implicito, qualcuno che deve essere testimone e complice della mia espressione. Dopodiché stabilisco i tempi narrativi. Come una partitura musicale: adagio, oppure allegro, oppure allegretto, e così via. E poi butto giù e poi sovrascrivo, come se stessi tessendo una maglia. Avanti e indietro. Non linearmente da un punto A a un punto B, ma a spirale, dall’esterno all’interno e viceversa, occupandomi dei capitoli iniziali e di quelli finali nello stesso identico momento. Come se stessi impastando una torta. Le cose devono amalgamarsi tra loro e perché la torta sia poi commestibile devono amalgamarsi tutte insieme.
Ho questa percezione fortissima della morte. Non è semplice da spiegare. Diciamo qualcosa che aumenta col passare degli anni. La sensazione di dover fare tutto e di doverlo fare nel più breve tempo possibile. L’impressione che potrei benissimo non riuscirci. È più di una paranoia. È vivere costantemente col fetore dell’aldilà sotto il naso. Un aldilà che certo non concilia. Ma urla e minaccia. Giorno dopo giorno. Dover esistere con la certezza che a un certo punto la pila si sarà scaricata. Come può non renderci le creature più irrequiete del mondo? No, sul serio, quale condizione è altrettanto insopportabile?
E poi cos’è successo? Aspettami oppure dimenticami. Ma, sai cosa, io dopo non ho più dimenticato. Niente e nessuno. Mai. È questo, fidati, il mio più grande problema. Io mi affollo di ricordi e galleggio per sempre sospeso nell’attimo in cui tutto poteva succedere. Per questo ho amato in una lunga corsa a staffetta, passando il testimone ai miei tanti coprotagonisti. Uno alla volta, i miei meravigliosi centometristi. Di questo mio film, certe volte frenetico, certe volte spoglio e di una banalità indecente, volevo essere l’ostaggio da riscattare. Salvo poi rileggere i titoli di coda con maggiore attenzione e crollare davanti a un solo nome per ogni ruolo. Il mio.
Tutto si può accettare da chi vuole entrare in contatto con noi. Tutto, eccetto una cosa. Il suo giudizio sulla nostra persona. Nessuno a questo mondo può arrogarsi il diritto di dirci se ciò che siamo sia giusto oppure sbagliato. Una simile cosa è ammissibile (e anche qui con opportuno distacco) solo se sottoponiamo al prossimo il nostro operato, le nostre scelte, il nostro modo di essere. Altrimenti bisogna imparare a tacere. A stare zitti. Un mondo di silenti, direte voi. Ebbene, sissignori. Un mondo di silenti.