In questi ultimi anni ho conosciuto un numero incalcolabile di persone. Tutto così fulgido e spumeggiante in principio, tutto così carico di aspettative ed eccitazione, al punto che ogni volta sembrava chissà cosa stesse per accadere. Serate, discorsi, risate, progetti, appuntamenti, musica, ore piccole, discussioni piene di passione, feste, follia. E poi… E poi invece non erano che istanti, minuscoli guizzi, razzi scoppiettanti nella notte gelida di Capodanno. Non rimangono che gli ultimi residui adesso, i poveri imbarazzati scampoli di chat, quei ‘mi piace’ sempre più rarefatti, certi mucchietti di selfie che via via stan scomparendo persino dalle sezione delle notizie. Forse è stata colpa mia. Fa caldo. Vado a ballare.
A quindici anni: si piange insieme, si ruba insieme, si fuma insieme, ci si sballa insieme, si fa a botte e poi si fa pace (anche dopo esser stati con la stessa ragazza, con lo stesso ragazzo), si fa sega insieme, si ride fino a morire. A vent’anni: si va in macchina insieme, si battono tutte le discoteche fuori città, si va al mare, si dorme insieme, si viaggia insieme, si piange insieme, si studia insieme, si va ai concerti insieme, si sogna il domani insieme. A trent’anni: si litiga, ci si fa del male, ci si perde, poi ci si ritrova, si pianifica, si fa il punto, si va avanti, ci si interroga, ci si aiuta (spesso anche economicamente), ci si offre il famoso divano finché non si trova di meglio. A quarant’anni: ci si studia dall’alto in basso, ci si misura, ci si annusa, in silenzio e fintamente apatici, con spocchia, sicumera, indifferenza, per capire chi è il più forte, chi è il più debole, chi ha raggiunto il potere, chi sta sfiorando la merda.
Col passare degli anni mi rendo sempre più facilmente conto di una cosa. Si perde un mucchio di tempo discutendo in modo sterile di questo e quello. Non si arriva mai da nessuna parte. Esiste solo una reciproca smania di imporre delle idee. Ciascuno le proprie. Per questo bisogna scorciare in fretta i rami che pesano inutilmente, i rampicanti che soffocano la nostra evoluzione. Date un calcio a tutti quelli che vi controbattono, non vi apprezzano appieno, non vi capiscono al primo sguardo. Già se dovete spiegarvi, giustificarvi, è segno che qualcosa non va. E serve poi? Serve discutere? Qual è lo scopo? Bisogna saper trovare avversari degni se proprio c’è bisogno di salire sul ring. Ma guardatevi attorno per un istante e ditemi: c’è forse qualcuno che sia abbastanza degno della vostra attenzione? Di un vostro pugno in faccia? Se la risposta è sì, ebbene, lì e solo lì allora è l’amore. Crudo e potente e aspro anche. Ma non il resto. Il resto sono piattole, pidocchi, sanguisughe. Coraggio, dunque. Disinfestate invece di frignare.
Sgomitola a mucchi di foglie gialle giù per i viali leggeri e aperti, il mio autobus puntuale ma svogliato. Mi sembra così disperatamente il 1986, io e Luigi per le vie grigie del dopopranzo domenicale, echi di partite lontane nelle cronache alla radio. I nostri miseri tredici e quindici anni, i muri sporchi di Via Val Melaina, i progetti per il futuro, quel Ponte delle Valli che poi ci facemmo a piedi, tutto, quasi a sfidare la grande tempesta di settembre. Inseparabili. Sempre. Fin lì. Poi ci separammo. Colpa della vita, pensai. La vita. Che ti separa di continuo. Da quello che amavi, da quello che eri. Ti porta via con sé, ti fa essere altro, amare altro. E solo quando sei diventato vecchio abbastanza puoi capire. Che la vita ti fa riempire la vita di un sacco di alternative, di un sacco di persone, linguaggi, posti, cose che ti esplodono addosso e all’istante ti dimentichi. E ti leva di colpo le sole piccolezze che davvero hanno contato per te. E le ferite profonde. I solchi. Tutti quei maledetti lupi rintanati nel buio.
Bisogna trovare il coraggio di ricredersi. Tornare sui propri passi. Suonare al campanello. Sconveniente, è vero. È solo che quando si va via è più facile. Ma dentro lo senti. Lo avverti che la partita non si è mai conclusa. Che gli altri hanno continuato comunque a giocare. Anche senza di te. E che stanno bene, pure se ti eri suicidato credendo che si sarebbero fermati. Invece no. E allora va bene tirare le tende. Va bene far finta di niente. Ingozzarsi e poi correre alla toilette a vomitare. Ma poi dovevi restare. Non ce la facevi, okay, lo abbiamo capito. Eri smembrato come una volpe investita sul ciglio del bosco. Ma ora ti sei leccato le ferite abbastanza. Ti abbiamo riaperto, e sì che era sprangato. Adesso sta a te. O salti su dalla panchina e torni in campo a giocare con noi, oppure… Be’, oppure vaffanculo.
Ciascuno di noi ha delle battaglie da portare avanti. Se ancora vi steste chiedendo quali siano le mie, ebbene rispondo subito: io lotto contro chi fa del male agli animali e agli insetti. Contro i bifobi, gli omofobi, i transofobi. Contro i presuntuosi, gli snob di sinistra, gli ottusi di destra. Contro gli ipocriti, i moralisti, i benpensanti, gli approssimativi, i vittimisti, i lamentosi a oltranza, gli intellettuali spocchiosi, i bigotti. Contro chi utilizza i social come una rivoltella e spara a caso sulla folla. Contro la strumentalizzazione psicologica che spesso si attua in amore e sul lavoro. Contro la maleducazione, la strafottenza, l’arroganza, l’umorismo fuori luogo. Contro chi denigra gratuitamente e non sa apprezzare quel che la vita gli offre.
Amo settembre. Così umile e onesto. Così arrendevole e complicato. Così nudo in fondo e vero. Non ti chiede altro che di scrollare le spalle. Gli alberi lo stanno già facendo, guarda là. Scrollano dai rami quelle scintille tracotanti, definitivamente inclini al sonno. Amo la tua faccia quando curva in basso e si fruga le scarpe. Quest’odore di vizzo. Di vinto. Amo la tregua, la perdita delle vecchie inutili forme. Amo quando deponi le armi e attorno a noi si spengono le torce. Quando non possiamo fare altro che tornarcene a casa, malgrado la casa ci sembri il guscio di qualcuno che non sono più io. Che non sei più tu.
Il viaggio più importante deve condurti negli oggetti che ti hanno preceduto. In quei libri ingialliti, che sono lì da molto tempo prima di te e appartenevano a tua madre, a tuo padre. In quei vinili, in quelle cravatte. In quegli odori che promanano ancora dal fondo dei loro cassetti chiusi a chiave. Li vorresti aprire ma poi non lo fai mai. Eppure il viaggio più importante è in quei quaderni, in quelle foto scattate prima che tu nascessi. In quella cantina, dentro quelle scatole. Tu vieni da lì, da tutto ciò che è stato prima del tuo primo pianto. Da chi è stato bambino prima di arrivare a metterti al mondo. E da chi fu bambino prima di lui. Indietro e indietro e ancora indietro. Fino a qualcosa che potremmo chiamare Dio.
Liane. Oppure, meglio, vagoni. Sfrecciano sotto i nostri piedi questi lunghi convogli paralleli. E noi, proprio come il giovane Sam in “Ghost”, abbiamo imparato a infilarli cambiando così direzione all’improvviso, giorno dopo giorno, anno dopo anno, vita dopo vita. Tarzan con le sue liane. Anzi no, lo ripeto, meglio il fantasma di Sam. Che poi apprende come attraversare le superfici e spostare gli oggetti. Eccoci qui. In questa giungla di opposti passaggi, opposte corse, binari che si incrociano. La destinazione di ieri oggi è una fermata anonima in mezzo al deserto. E dunque, via, verso una nuova stazione. Timbriamo biglietti alla velocità della luce e sempre freneticamente ci ubriachiamo nella simultaneità dei ricambi continui e gorgoglianti. Perché a star fermi in un posto moriamo. Perché a star zitti moriamo. A non poter consumare moriamo. Pipistrelli. Vampiri. Zombie.
Esiste uno iato, misurabile in termini di stima e motivazione affettiva, tra la semplice espressione del dissenso verso qualcuno e la scelta – in taluni casi assolutamente legittima – di separarcene. Se ci troviamo in disaccordo, dobbiamo ragionare sui benefici di una dialettica fra noi, altrimenti non capitalizzeremo né io, né te, e allora tanto vale dirsi addio. Se invece crediamo tutti e due che attraverso questo contrasto cresceremo e pensi che saremo poi migliori, va bene, può darsi tu abbia ragione. Solo, sappilo, sarà un ring. Perché, ecco, vedi, a un certo punto bisogna saper che cosa fare dei dissapori che si generano tra noi. E chiederci infine se i risultati ripaghino della lotta che, in un senso o in un altro, al fischio dell’arbitro pur sempre avremo affrontato. Te la senti?