Molti miei contatti trovano disarmanti certe mie affermazioni, una certa mia weltanschauung, le evoluzioni stesse dei miei processi mentali. “Sei irritante”, mi dicono. Più di una persona. Rispondo. Nella mia vita – e certamente non solo nei social – ho operato una precisa scelta etica. Essere libero di esprimere le mie idee, senza bavagli, nella piena e selvaggia anarchia del mio pensare. Le parole esistono per essere pronunciate. La gente che mi imputa un’autoreferenzialità tracimante in realtà non sa né leggermi, né interpretarmi. Chi mi apprezza veramente infatti va oltre la mia persona fisica, supera i confini corporei (o incorporei) per sposare la mia riflessione esistenziale ed esistenzialista. Solo chi mi sa leggere veramente comprende che trascendo sempre il mio mero privato e parlo unicamente delle cose universali. Da sempre. Limpide o lerce che siano. Per me non c’è differenza tra un panegirico sul pompino e una proposizione sulla morte. Purché si usino le parole adatte. E non mi importa che le persone ci rimangano male. Io quando scrivo non mi preoccupo di chi resta, né di chi se ne andrà. Uno scrittore ha un compito da assolvere. Cercare la verità. A costo di perdere tutto. Altrimenti è solo Facebook, solo brusio, solo autobus, balcone, bar, pub. Altrimenti è tv. E a me invece interessa scendere nei pozzi. Nei pozzi bui dell’umanità. Piace? Non piace? E c’è forse un motivo per cui una persona che ha scelto di scrivere dovrebbe poi sopportare anche questo dilemma?
I momenti più belli del giorno? Il mattino presto, così ripulito delle scorie della notte prima. E l’imbrunire. Coi rumori delle cucine che si perdono tra i balconi, quel ritrovarsi a luci accese, il blu che sopraggiunge dai tetti, il vento. Cos’altro conta? Quel che si trova nel mezzo? No. Quel che si trova nel mezzo è il tempo perso, mucchi di cose che in fondo tutti ci dimentichiamo in fretta.
“Se devo andare all’inferno, ci andrò col mio pianoforte!” (J. L. Lewis)
Oggi, 29 settembre, Jerry Lee Lewis compie ottant’anni. Pochi avrebbero scommesso che sarebbe vissuto così a lungo, visti gli eccessi che si concedeva. Musicalmente è (perché fa ancora tournèes) un concentrato di ego e presunzione, oramai seppellite dall’età, ma, soprattutto, di genio e di talento ancor più grandi. Si fosse “prostituito” come tanti suoi colleghi…
La luce del sole attraversa i cancelli di Villa Paganini e si fionda sull’erba a squadrature larghe e recise. Ed ecco, come vedi di buono alla fine c’è questo. La Nomentana che punta dritta verso casa come una lama che non ti lacererà, sono i percorsi che ti sei sudato, Sade nelle cuffie, l’immaturità di questi pomeriggi di fine estate. Che sembra non se li fili nessuno. E invece di buono c’è questa brezza che sa come tornare. Il tuo ritrovare la strada, un mazzo di chiavi, la doccia, il cane, il divano. Come fai a sentirti solo. Con questo sole, dico. Come fai a non sorridere. Non lo capisci che di buono alla fine c’è questo? Che tu forse non sai come partire ma sai sempre come tornare. Alla sera. Nel traffico che piano piano ricomincia. Nel vento fresco che soffia dallo spazio aperto e coraggioso. Nelle innumerevoli cose che ancora farai. In questo sei il numero uno. In questo non ti batteranno. Mai.
Mi ci sono voluti cinque anni. Cinque anni buoni. Cinque anni di Facebook. Ma alla fine credo di aver capito. Il regno del vuoto sterminato. Il sommo paradigma del nulla. Ecco cos’è. Un’umanità che si parla addosso, che si specchia in pubblico perché a farlo in solitudine le farebbe troppa paura. Incapaci di interagire nei sapori e negli odori, ci muoviamo in chat imbarazzanti e imbarazzate. Ché oggi se telefoni a qualcuno sei uno stalker. Allora faccine e poi faccine e poi di nuovo faccine. Siamo emoticon sgrammaticate. Tento con sforzi disumani di costruire qualcosa di nuovo, qualcosa di buono. Di uscire da questa griglia artificiale. Ma non ce la faccio. Che beffa. Incroci di belle occasioni che temono per il loro stesso fiorire. Meglio seguitare a farci selfie sperando in un paio di “likes”. Meglio vagare per chat armati di copia e incolla. Meglio le tette, i culi, i tatuaggi, i cibi, le spiagge. Tanto è in questo che ci siamo specializzati. Ciascuno un banco, ciascuno la propria merce. E sarebbe perfino struggente se poi non ci illudessimo che qui si fa sul serio. Meglio battere le mani che parlare. Ma sì. Dopotutto questo è un concerto rock. Noi sul palco, giù la claque.
La conquista della confidenza richiede spazio e durata, necessita di abbrivi, tanti, e di mete. Di una ricerca che viaggi come l’uncinetto tra molti fili di cotone. Di un impasto. Che approdi alla massa, che chiuda le falle. Di uno stucco buono e solido. Che tappi i fori bui che si aprono nei nostri muri come ferite. Cosa pensate che accada altrimenti? Un cazzo di niente. Ascisse senza ordinate, polvere verbale che non ci porta da nessuna parte. Serve sudare, serve fare a pugni, prendersi a parolacce. Serve scopare. Ma non scopare col cazzo il culo la fica. Serve scoparsi più profondamente. E senza farsi male. Mettendo in piedi una casa dove abitare. La conquista della confidenza ha bisogno di risate e di pianto, ha urgenza di vita vissuta. Di un mucchio enorme di ricordi. Sennò è ciarpame, balle, stronzate, folclore.
Un tempo conoscevo delle persone. E pur di tenermele vicino studiavo come compiacerle. Davo loro ciò che desideravano e allo stesso tempo prendevo anche io. Per riuscire in questo seguivo naturalmente un preciso schema. Se gli piaccio in blu, mi dicevo, allora indosserò il blu (e pazienza se nel profondo sono verde). Poi ho smesso. Ora vesto di verde. Solo che tenermi vicino le persone a cui voglio bene è molto più difficile. Do il vero e prendo quasi niente. Essere ciò che si è significa rischiare i rapporti. Tanto i potenziali quanto i fondamentali. Sempre.
Un vecchio con gli occhiali pedala per questa via dove ormai non passa più nessuno. In piedi sul selciato ci siamo solo io e un altro come me. La barba entrambi, i capelli scuri, le camicette a quadri, pochi anni di differenza. Il vecchio con gli occhiali pedala piano e silenzioso, ché lui l’inferno lo ha scampato per un pelo e adesso si gode l’imbrunire, punta dritto e non ci fila. E dopo che è passato, a parte me e il tipo come me e le ultime cicale, non resta altro. Un grigio comune acquattato fra le antenne, queste ore livide che sgretolano la sera in una frenata lenta e sgraziata, i giorni che verranno. Gli anfratti, le buche, le trincee.
Ecco cos’era. La saudade. Nostalgia per qualcosa che non c’è. O c’è stato. Ritrovare quei frammenti. Un Ferragosto di diciassette anni fa, io e Claudio abbracciati sulla spiaggia, oltre noi gli eucalipti di Santa Teresa di Gallura, la notte di un gran blu magnifico. Cose che ho perduto per sempre. O forse no. Forse le ritrovo qui adesso, per caso. In questa bossa nova che passa sulla mia anima scarnificata come una carezza. Appena un brivido lungo la schiena. Mare. Ecco cos’era.
Vivere, è passato tanto tempo… Su Vasco a tutto volume anche le trans si fermano, quei loro seni aberranti che ciondolano sulle pance sfatte, sui pubi artificiali. Un anziano vorrebbe che mi facessi toccare da sua moglie che ha cinquantaquattro anni ma io scatto in avanti e lui capisce l’antifona e si rintana da solo con me. Sembra che non sia partito nessuno. Siamo tutti. Quelli di sempre. Inverno ed estate, il profumo dolciastro e il sudore e il vapore. Vivere e sorridere dei guai, proprio come non hai fatto mai. Nessuna riserva, nessuno steccato, nessuna transenna. Un cinquantenne mi dice: sai, oggi è la prima volta che vado coi maschi. E come ti senti? Gli faccio. Felice, risponde. Segue sonnolenza nel viavai dei corpi e delle mani. Sfiorati e accaldati. Osservo il mio popolo stando seduto su uno scranno al centro fra le immagini hard che scorrono. E mi lascio andare. E, come ogni altra volta, anche oggi sono io l’imperatore. E poi pensare che domani sarà sempre meglio. Oggi non ho tempo. Oggi voglio stare spento.