Vivendo ho imparato una cosa. I nostri migliori amici si dividono in due famiglie. Gli amici di lungo corso, i quali sanno ormai tutto di noi e anticipano ogni nostra mossa e avvertono anche a distanza i nostri mutamenti d’umore. E gli amici d’occasione. Forse momentanei, forse brevi come certe scosse, certi lampi. Ma così forti e potenti che poi a perderli senti uno squarcio.
Ho sbarrato gli occhi alle cinque del mattino. Ho cominciato a torcermi nel lenzuolo. Tra i fari delle macchine di fuori in corsa sul muro della mia camera. Nei pensieri. I pensieri delle cinque del mattino assomigliano a un funerale. Vedevo me. Morto. Vedevo noi. Che usciamo, guardiamo la tv, mangiamo, parliamo, discutiamo, ci arrampichiamo sugli specchi, mendichiamo un filo di attenzione a chiunque ci capiti sottomano, ci infiliamo gli assorbenti. Così abrasi e costretti al terrore. Eccomi. Fatuo e insulso. Mi ero addormentato anch’io sugli allori, mi ero spiaggiato a Itaca. Pigro e lesso nella mia stessa vanagloria, preso solo dal numero crescente dei cazzi che il mio culo ha finora ospitato. Ho voltato le spalle a tutto, mi sono distratto. E l’abiezione era lì, pronta invece a colpire come un maledetto cecchino. Ha trovato un punto strategico. E ha premuto il grilletto. Sono sceso dal mio letto a soppalco prima della sveglia. Io non ho paura, ho detto a me stesso. Io non ho paura. Mi sono lavato la faccia, ho allacciato le scarpe, sono uscito di casa. Come da ragazzino. L’onda era talmente alta. Ma io dovevo infilarla di testa. A tutti i costi. Anche se mi cacavo sotto. Anche se rischiavo di lasciarci le penne. O così o non sono un uomo. O così. O non sono un uomo.
Spesso, durante tutta la mia vita, mi sono accorto di funzionare in due modi. Sempre. Al punto da domandarmi se valga lo stesso anche per gli altri. Se sia così anche per voi oppure no. Parlo di quell’animarsi scomposto mentre si è in preda all’eccitamento, di quella tensione esplorativa, della continua schiusa al mondo di fuori, alle persone, alle loro corporeità. Parlo di quel voler legarsi ad esse in una febbre di empatia e complicità ed esuberanze modeste seppur vitali. E dopo, nella risoluzione liquida dell’impatto, dello scivolare. Quel cadere di foglie goffo e imbarazzante, quel tramontare, morire. Vorrei consolarmi credendo che sia questo il lurido male del nostro presente. Non per forza solo il mio. Incendiarsi per un giorno e il giorno dopo star lì come grandi piazze deserte spazzolate dal camion della nettezza urbana. Ripuliti e soli.
La mia percezione del tempo è così cambiata. Vivevo nella grande dismisura. Nella grande dilatazione. Poi i giorni hanno iniziato progressivamente ad assottigliarsi, a rimpicciolirsi. Suppongo si tratti di un fenomeno psichico collegato all’aumentare dei propri anni. Forse è anche per questo che i vecchi dormono poco. A volte sento una spinta profonda. Giunge da un mio recesso complicato. Mi vedo a fare i bagagli, prepararmi alla partenza, raccogliere pezzi per poi lasciarmi alle spalle questo lato del disco. Scoprire come sarà il lato b. Perché dopotutto il lato b è il lato alternativo, quello che contraddice, il ribelle, lo sperimentale. Quello che in pochi ricordano. O forse no. Avevo “Woman in love”. E adoravo quel brano. Finché un giorno non mi feci coraggio e girai il vinile e scoprii “Run wild”. E, be’, fu lì che finalmente capii.
Nell’estate del 1982, tra le cicale del dopopranzo e le inutili letture nel sussidiario, mi affaccio dal mio terrazzino verso il grande ciliegio di fronte, e verso il dirimpettaio, e verso la pubertà. Lui, il dirimpettaio dico, è un ometto sui quaranta, in costume da bagno, intento a leggere un libro e ad abbronzarsi dalla sdraio, là nel suo balcone. Un pomeriggio si accorge di me. Sono lì che sfioro le asparagine nei vasi di mia madre, poi mi tolgo la canottiera, certo del fatto che mi ha finalmente notato. Infatti è lì che guarda, dietro gli occhiali da vista, e poi fa di sì con la testa. Ci separa un garage, ci separa il ciliegio, e, anagraficamente, trent’anni all’incirca. Il pomeriggio dopo il rito si ripete. Cicale, riverbero, afa. L’ometto in costume fa di sì con la testa e poi, ecco, contraccambia. A modo suo. Poi il tutto va avanti per un po’. Giorni, settimane. “#9 Dream” di John Lennon gira sul piatto dei miei quasi dieci anni, sugli echi delle bombe lanciate nelle Falkland. Sui nostri slip che cadono a terra. Poi l’ometto sforbicia medio e indice e ammicca: esci e vieni da me, sono solo. C’è un sole che spezza. Un abisso di cicale. Tutti che dormono. “Ah! böwakawa poussé, poussé.”
Dalle api dipende il nostro destino. Dalle cose microscopiche i fatti epocali, la Storia. Che terribile, superba metafora, vi pare? Si spezza un’unghia, scricchiola una vertebra, un dente si caria. E dopo viene giù tutto. Malgrado le pomate, la ginnastica, tonnellate di fluoro. Tutto quanto. Come sono vani. I nostri piccoli, miseri, astuti accorgimenti, dico. La nostra prudenza ancora così piccolo-borghese. E, ugualmente, niente che possa impedire ai ghiacci di sciogliersi. Niente che trattenga una slavina dal travolgerci. Ho imparato che più si è cauti più si soffre. Più si risparmia agli altri il ritratto di noi che marcisce in soffitta, più gli altri ci verranno a cercare proprio in quella soffitta. Perché chi vince davvero è colui che non tradisce se stesso, che non commette passi falsi. Ma come si fa? Io ad esempio inciampavo. E molto. Inciampavo negli altri, nella loro indifferenza, nella loro schiena. Alla quale bussavo con colpi furibondi. Inascoltato. I loro piedi d’argilla non li volevo vedere, non li potevo accettare. Anelavo alla loro superficie rifiutandone il sottosuolo, la corruzione. Ed ero supremamente cauto. E scaltro. E truffaldino. Ma non è bastato. Perché alla fine ciascuno ha un proprio orrore privato, una propria scia di rovine e sangue. Una propria solitaria carneficina. Cadaveri fatti a pezzi, sepolti da qualche parte in giardino. E api. Cui abbiamo impedito di nidificare. Che abbiamo appestato. Senza provare alcun sentimento.
Sono un uomo che ha gradualmente perso la fede. Io non so se Dio ci sia o meno. Ma amo Gesù. E credo alle sue parole. Lo sento alto su di me. Solo che prima mi rivolgevo a lui molto più di frequente di adesso. Ci sono giorni in cui nutro un profondo e insopprimibile disprezzo per l’umanità, per il creato che, seppur sublime, è così imperfetto, e altri in cui un senso di lieve, lievissima compassione si fa strada in me e allora, quando questo succede, quasi non provo più niente. Né bontà, né cattiveria. Ciò che provo è una pressoché totale assenza di emozioni. Come se la gioia non potesse granché contro la brutalità. Come se percepissi nitidamente il male che è in tutte le cose. Come se il bene si fosse spento, come se l’oscurità fosse nella gente, nei suoi discorsi, nel suo brusio ovattato.
Ho perso dei pezzi strada facendo. Persone con cui parlavo, anche tutti i giorni, oppure ridevo, uscivo, scherzavo. Certe volte mi sembra di vivere come in quel film, “Terminal”. Tom Hanks. Presente, no? Solo fuori però. Dentro è più come “Castaway”. Una persona fa quello che vuole, pensa e dice quello che le va. E poi paga un prezzo. Vuoi essere come sei? Prego, da questa parte. Essere liberi significa costruire una casa tenendo un piede fuori dalla pianta. Quando mi invitano a passare una vacanza fuori, tentenno sempre. Io sono quello del “ehm, be’, ecco, però non so, devo vedere”. Ma non è così, io non devo vedere un cazzo. Io devo solo stare sempre con un piede dentro e un piede fuori. Sempre. Quando scrivo, quando parlo, quando scopo. Per metà ci sono, per l’altra no. Non ce la faccio altrimenti. Sarei una gabbia altrimenti. Per questo perdo dei pezzi. Per questo tutti perdiamo dei pezzi. Prima o poi.
Io non sono stato mai amato. Non parlo di amore genitoriale, non parlo di affetto canino o amicale. Non parlo neppure di amore fisico, o di passione artistica. No. Io parlo di amore erotico. Sì, quello. Esatto, quello codificato da Roland Barthes. Lui. Nessuno mi ha amato. Mai. Poi ieri discutevo con un amico. Sul fatto che dietro questa faccia, dietro questo corpo, ci sia un istrice. Allora dopo, mentre mi facevo la doccia, ho pensato a come si fa ad avvicinarli. Gli istrici, dico. Di me non si può essere mai innamorato nessuno perché ho gli aculei. Okay, ricevuto. Gli aculei vengono mezzo metro prima di me, prima dei miei sentimenti. Un istrice dorme solo e non vuole nessuno accanto. Tutte le volte che un uomo ha voluto dormire con me, io non mi sono quasi mai addormentato. E non sopporto di sentire qualcuno che respira al mio fianco nella notte. Io prima non lo sapevo di essere questo animale. Ma poi ho controllato sulla mia agenda e ho ricordato che tra una settimana esatta compio quarantatré anni. Forse avrei dovuto segare gli spuntoni tanto tempo fa. Ma la paura deve aver preso il sopravvento. E, un po’ alla volta, ecco, insomma… credo abbia finito col blindarmi. All’intimità. Alla tenerezza. Alle carezze del mondo.
Ci sono esperienze che appartengono alla gioventù. La maggior parte, a dire il vero. Fare amicizia con qualcuno, per esempio. Se hai quindici o vent’anni è parte integrante del tuo bagaglio; siccome bisogna imparare a combattere servono alleati stretti. Per farcela, dico. A quaranta i fortini, bene o male, li abbiamo invece eretti da un pezzo. Intrecciare nuove affettività diventa un po’ come avere un incontro ravvicinato del terzo tipo. Si è alien(at)i. Del resto abbiamo già lottato a sufficienza e adesso serve proteggere il proprio “particulare” (come ci spiegò già alcuni secoli fa il buon Guicciardini), fare attenzione a chi ci vuole espropriare, strapparci la zolla da sotto i piedi. Per questo le mie amiche single alla fine non trovano un uomo. Per questo i miei amici single non trovano una donna. Per questo non sono solo i figli a non nascere più, ma le relazioni soprattutto. E di chi sono figlie le relazioni umane se non di un tempo in cui eravamo più giovani e inesperti e forti? Imparare è il gran buco nero dell’umanità.