A volte ragiono sull’indifferenza degli adulti. Se da ragazzini perdevamo un amico o ne subivamo un tradimento, soffrivamo, e tanto anche. Crescendo le cose che ci accadono, e intendo soprattutto le più spiacevoli, ossia gli abbandoni, i lutti, le separazioni, ci fanno soffrire, certo, ma forse meno, senz’ombra di dubbio non come allora. Siamo ormai anestetizzati, vaccinati (così si dice), e talvolta, ahimè apatici. E quindi succede che niente improvvisamente sia più indispensabile. Un amico, un fratello, l’amante. Ad avere o meno una cosa si è fatta l’abitudine. Si resta in piedi uguale. Con o senza. Ed in fondo è questo che è atroce.
Le estati di quei primi anni ottanta si svolgevano davanti ai miei occhi come certi film di Antonioni, “L’eclisse” oppure “L’avventura” oppure “Deserto rosso”. Solo che io ancora non lo sapevo. Ci sono associazioni che non siamo in grado di fare se non solo da adulti, e quindi molto più tardi. Quando impariamo a raccordare i fatti, a dire: ecco, è proprio così che la vivevo io, ecco cos’era, ecco che nome aveva. Io misi nei mattoncini Lego l’anima che tolsi alle cose mobili e mutabili. Per questo poi sono diventato un uomo iperordinato. Per questo l’ortogonalità mi rassicura. Per questo mi tengo debitamente lontano dalle cose che non quadrano. O, se sono ormai troppo vicino, cerco di farle quadrare.
Sono allergico ai luoghi comuni. Al ciarlare vuoto incolore asettico ricalcato strumentale piatto omologato social-reiterato. Alla volgarità, al linguaggio sboccato di certe donne, alle espressioni preconfezionate di certi uomini, ai motti, ai proverbi, a tutto quello che non esce esclusivamente dal cervello delle persone di cui mi circondo. All’impoverimento della riflessione. Alla pigrizia. Al sonno della ragione.
Se solo non percepissi lo scorrere del tempo attraverso ogni fibra del mio corpo, ogni muscolo, ogni nervo, ogni ganglio. Se solo non avessi stupidamente pensato che certe cose sarebbero rimaste le stesse giorno dopo giorno. Identiche e inalterate. Invece, malgrado i miei tentativi titanici di contrastare la forza di gravità, le cose sono cambiate comunque. Ogni tanto riguardo con tenerezza agli anni in cui facevo amicizia con certe emozioni, certi tumulti. Cadevo e imparavo. Urlavo e imparavo. Fervevo e imparavo. Ed ora so che è questa la più grande disgrazia che accade all’uomo. L’uomo impara. Come diceva anche Alanis Morissette nella sua epica “You Learn”. Egli sanguina e impara. Si strugge e impara. E dopo? Be’, ecco, dopo invecchia. E allora ogni tanto mi chiedo, fermo sui giorni in cui ero felice come non lo sarei stato mai più, a cosa è servito? La tragedia dell’uomo è tutta qui. Se è felice muore, se impara muore.
Cambiare. Posizione, angolazioni, prospettiva, geografie (psichiche, materiali, emotive, etiche). Cambiare e ricostruire. Partire dal basso. Un battiscopa, poi uno stipite, una maniglia, poi l’impianto elettrico, la caldaia, le prese, gli interruttori. Fino al soffitto, fino al lucernaio, al tetto. Stuccare, scartavetrare, raschiare, passare la vernice, sgrassare i vetri, spazzar via i calcinacci per poi infilare le cose. I dvd, i cd, i dischi, i libri, un divano e la tv, la lavatrice e gli armadi. Segmentando l’ambiente, suddividendolo, ricalcolandolo. Imparando cosa va nel vuoto, cosa no. Soppesare. Interpretare un angolo, misurare lo spazio aereo tra una tela e una mensola. Annaffiare le pansé. Qui un tavolino di plexiglas lì una scultura astratta, qui la ragione lì gli imprevisti. Cambiare coordinate, definizioni, risposte, domande. Cambiare.
Gli anni in cui ci siamo ribellati e abbiamo sbattuto le porte. In cui abbiamo detto “no” a nostro padre, a nostra madre, ai nostri professori, al potere costituito, alla polizia. Gli anni in cui abbiamo creduto in qualcosa. Qualcosa di così grande e totale da sembrarci il futuro.
Non esiste una patente per navigare nelle acque social. Ciascuno utilizza Facebook come crede. Chi come una lavagna, chi come un muro (urbano), peraltro già grandemente imbrattato, chi come un diario intimo, chi come uno spazio epistolare (perdonate l’obsolescenza dell’esempio, ma tant’è). Non vi sono guide, né regole (a parte il comune senso del pudore, anch’esso però ampiamente adeguato ai tempi stilisticamente pornografici in cui sguazziamo, o affoghiamo, dipende). Non c’è un dogma, né ci sono paradigmi. Ognuno diffonde ed espande il proprio misero egotismo, reiterando e inglobando senza soluzione di continuità le altrui esistenze, le altrui ore, gli altrui minuti. Agglutinando e impastando il proprio mondo a quello degli altri (che siano sconosciuti oppure no), in un unico lavico amalgama senza scopo. McLuhan diceva che il medium è il messaggio. Secondo altre menti illuminate (e più aggiornate), il mezzo è il mezzo, il messaggio è scomparso, non c’è più. Resta una vuota tautologia di noi stessi. Macabra. Tetra. Sinistra. Accettato questo ci si può annoiare, alla lunga, in santa pace.
Quando sarò vecchio e mi chiederanno cos’ho amato di questa vita, di questo mondo, ebbene io risponderò: gli anni settanta coi loro alberi smaglianti, il cappottino blu, Villa Ada e i Lego; gli anni ottanta col gel, Luigi, Madonna, le Lido Blue, e la Cesare Piva; gli anni novanta, coi poeti del novecento italiano, La Sapienza, Non è la Rai, l’house music, il Piper, Claudio. Poi? Mi chiederanno. Poi non lo so, risponderò. Poi non aveva più importanza.
Amare la letteratura, amare i libri, promuoverne la diffusione, la crescita e la lettura. Questo è ciò che spinge quelli che – spesso rimettendoci in proprio – organizzano eventi che hanno come oggetto i libri: le famose presentazioni. Su queste potrei cominciare a scriverne oggi e finire l’anno prossimo. Agosto e settembre sono i mesi deputati alle presentazioni, le organizzano tutti: gli alberghi, gli stabilimenti balneari, i circoli Rotari e del Tennis, le aziende di cura, soggiorno e turismo. Insomma, le presentazioni di libri estive sembrano come le medicine prescritte dal medico: necessarie. Così è tutto un cicaleggiare frivolo o pseudo tale di gente che ruota intorno a personaggi che, personalmente, con molta fatica riesco a definire autori, non faccio citazioni per correttezza, però, ne specifico meglio la provenienza: l’anchorman o l’anchorwoman, il politico in disgrazia, quello resuscitato o in auge, la stellina di cinema, il giornalista di Tg. ecc. ecc. Oggi tutta questa gente si fregia di scrivere. Scrivere un libro, soprattutto se si è un politico, fa status, che, poi, non lo legga nessuno, questo non importa. Serve a darsi una allure di cultura cosiddetta alta. Così, si presenta di tutto a gente che a stento legge il quotidiano e che frequenta queste manifestazioni solo per trito e banale presenzialismo. Così, si va agli incontri per dire di esserci stati ma, in realtà, nessuno legge niente: ho visto gente che alla fine degli incontri si defila dal tavolo dove sono impilati i libri, per paura di doverne comprare una copia, preferendo più spesso il buffet. Siamo il paese dove si legge di meno e si scrive di più. Non voglio polemizzare, o forse si, lo voglio anche, ma devo dire che questi eventi e chi li organizza in questo modo, sono così lontani dalla letteratura e dalla promozione della lettura quanto una pulsar lo è dal nostro pianeta. Il più delle volte, si presentano libri inutili, di gente a cui della scrittura non importa proprio niente, magari se li sono fatti scrivere da abili ghost writer; eventi spesso organizzati da gente che a stento legge un libro all’anno, insomma, delle inutili manifestazioni, fatte tanto per dire che si fa cultura. Ho lavorato per vent’anni circa in un settore della Regione Campania che si chiamava Musei e biblioteche, un settore che doveva promuovere il libro, la cultura del libro e l’amore per le biblioteche, insieme al mio lavoro di docente universitario. Ora sono in pensione e mi impegno per condividere i miei amori di sempre con persone che amano condividerli. Spendo cifre consistenti per il mio bilancio per acquistare libri: letteratura, saggistica, arte. Il momento più magico di questa esperienza oltre all’aprire il libro e finire in un mondo che mi sta offrendo un altro da me è, però, quando discuto con qualcun altro delle cose che ho letto, ovvero, quando l’esperienza intima e solitaria della lettura è condivisa con chi coltiva lo stesso piacere: ecco, le presentazioni dovrebbero essere sostanzialmente questo. Così con Pina e Alessandra – con le quali è un piacere parlare di letteratura – e perciò abbiamo deciso di organizzare questi incontri perché tutti e tre amiamo leggere. Certo non abbiamo i Roth, i Musil, i Salinger e a volte toppiamo, ma, di certo, onestamente, siamo animati da un profondo amore per la carta stampata e per le storie che essa contiene. Sulle altre cose che ho visto in giro fino ad ora ho molte riserve. Manifestazioni dove solo a leggere gli ospiti invitati si viene presi da un’incredibile pena per la letteratura vera, per gli scrittori autentici e, soprattutto, per i lettori veri, che ormai sono pochissimi per la verità. La letteratura è una cosa molto seria, anche quando è divertente e leggera, e lo è anche la scrittura e la lettura, dunque da promoter e amante vero di entrambe, nutro sincere diffidenze e riserve su quei guazzabugli estivi che ci vengono proposti e che presentano come scrittori personaggi di una tv di cattivo gusto e politici e attori o attrici. Insomma, sarebbe molto meglio essere più seri ed onesti, ne trarrebbero giovamento tutti, soprattutto la letteratura. Si dovrebbe andare alle presentazioni e le dovrebbero organizzare solo quanti i libri li amano veramente e non, invece, per farsi vedere con le celebrities di turno.
Le persone sono il risultato delle parole che usano, delle frasi (poche, pochissime e perlopiù “fatte”) che riescono a esprimere, dei lessici che sono in grado di produrre. Più è povero il linguaggio di cui dispongo meno ampio sarà l’orizzonte gnoseologico in cui potrò restituire significato alle mie esperienze, alle mie gioie, alle mie frustrazioni. I significati esistono in quanto esistono i significanti. Se dico: “pazienza, nella vita tutto è possibile” di fatto non ho verbalizzato un bel nulla, ma resto piantato in una zolla vuota di significato e non guarisco. Per guarire esiste una sola cura. Trovare parole in cui poterci specchiare.