Archivi categoria: Pensieri

Felicità

 

Esistono milioni di frasi e detti sul raggiungimento della felicità. Su come conquistarla e conservarla. Ma la verità è un’altra. Molto ma molto più triste. La felicità non esiste. Esiste solo la fortuna. 
Da oggi cancello la parola felicità dal vocabolario. E la sostituisco con la parola fortuna. Non foss’altro per giustizia semantica.

Patrick Gentile

 

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Crescere

 

Si cresce quando si diventa capaci di separarsi, quando si comincia a capire che le cose sono temporanee, quando si smette di assolutizzare, di impuntarsi, di ostinarsi, dopo aver rotto un po’ di piatti magari. Si cresce quando si accetta che il tempo è passato, i nodi si sono sciolti, il rospo è stato digerito, la fretta è diminuita, le corse, tutte quelle corse a perdifiato, sono finite. E gli obiettivi, i grandi e solenni obiettivi che ci eravamo prefissi con tutte le nostre forze, si sono dissolti, senza fare nemmeno troppo rumore.

Patrick Gentile

 

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Autosservazione

 

Se ciascuno di noi osservasse con una certa attenzione i propri comportamenti, le proprie coazioni a ripetere, le proprie reazioni in base alle diverse circostanze, a poco a poco riuscirebbe a conoscersi, a comprendersi, sia nell’indole che nel temperamento. Intuirebbe i reali motivi che lo spingono a fare una cosa anziché un’altra. E arriverebbe addirittura a non aver più bisogno di drogarsi, o alcolizzarsi, o essere compulsivo e feticista. Smetterebbe di imbottirsi di stronzate e di pasticche. Di ritornelli vecchi come il cucco. La finirebbe di cercare sempre le scuse più banali. E farebbe di tutto pur di placare la propria sofferenza. Perché è lecito, è sacrosanto non voler soffrire.
Se non fosse tuttavia che l’uomo vive per davvero e fino in fondo una sola grande sventura. Quella di rincorrere perdutamente qualcosa che non c’è.

Patrick Gentile

 

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Respirare

 

Un colpo. Qualcosa che si apre. Uno sparo. Partire. Andare lontano, via da tutto. Mare, notti, alberi, discoteche e piscine. Innamorarsi pazzamente, ridere fino a non poterne più. Guardare il sole che sale dal filo dell’orizzonte. Passeggiare sulla sabbia. Piedi nudi. Canottiera, boxer, infradito. Nuova gente, nuove voci, nuove storie, un intero altro libro da leggere. Un’altra giovinezza, cancellare e ridisegnare. Nuovi film, nuova musica. Fare l’amore. E il giorno dopo colazione e poi… E poi infilarsi qualcosa come l’Amazzonia nei polmoni. Respirare.

Patrick Gentile

 

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Sarà mai possibile una rinascita, fosse anche soltanto letteraria o filosofica? NO, io sostengo, no, per il momento

 

 

“Ho visto le menti migliori della mia generazione distrutte dalla pazzia, affamate nude isteriche…”. Così si apriva il poema beat di Allen Ginsberg,  “Howl”  (Urlo) che fu letto per la prima volta nel 1955 nella Six Gallery di San Francisco. Una generazione distrutta dal maccartismo, che si annichilì nel consumo di droghe di ogni genere, un periodo che segnò la fine dell’esistenza del comunismo negli Stati Uniti d’America e del sogno di sperare in una società diversa da quella capitalista. Oggi in Italia ci vorrebbe qualcuno che riscrivesse un’opera analoga, ma non ci sono figure intellettuali di quello stampo e quelli che si presumono esser tali, sono assuefatti e annichiliti alle e dalle frequentazioni col potere. Quelli che avrebbero potuto scrivere qualcosa del genere sono già morti da un ventennio e, invece del maccartismo, noi abbiamo avuto il berlusconismo, una parodia isterico consumistica di anticomunismo, e quel sogno è sparito definitivamente anche da noi. La storia, si sa, si ripete sempre due volte, una volta come tragedia e un’altra volta come farsa. Oggi, l’Italia e gli italiani sono spariti nel gorgo di un pensiero mediocre, truffaldino e bugiardo. Non si riesce più ad immaginare niente altro che ciò che si vede e si sente sui media, e: “Una confortevole, levigata, ragionevole, democratica non libertà prevale nella civiltà industriale avanzata, segno di progresso tecnico”, altra profezia proveniente dagli States e annunciata più di quarant’anni fa. Volevamo diventare tutti americani. Anche io lo ho volevo, ma il mio personaleamerican dream inseguiva il sogno dell’arte e della letteratura, appunto. Oggi, siamo diventati la loro parodia, obbligati in uno spazio mentale dove ogni possibilità di immaginare un mondo diverso da quello che ci presentano essere come l’unico possibile è naufragata.  La rincorsa di bisogni politici indotti e veicolati dai media si è trasformata in bisogni e aspirazioni individuali, la soddisfazione dei quali viene fatta passare come lo sviluppo degli affari e del bene comune, ed entrambi appaiono essere la personificazione stessa della ragione. Così, mentre le menti americane si annichilirono e si autodistrussero nelle droghe è anche vero che quegli “hipsters dal viso d’angelo” ci consegnarono un momento alto di letteratura, mentre a noi non è toccato neanche questo. Ma la crisi economica iniziata nel 2008 decreterà l’insuccesso e il definitivo tramonto di questo pensiero unico liberista, come sostengono da più parti sparpagliate comunità no global? Questa crisi potrà davvero rappresentare un punto di svolta rispetto alle politiche di privatizzazione, liberalizzazione finanziaria e smantellamento dei diritti sociali e del lavoro che hanno imperversato a livello mondiale nell’ultimo trentennio? Secondo me no, così come neanche le tesi troppo generiche – a mio avviso – di Alain Badiou, fondate su un volontaristico anelito alle ribellioni sociali, tesi, per altro, già smantellata da uno studioso serissimo e molto più attento di Badiou, quale era Eric Hobsbawm, in suo storico ed importante saggio “I ribelli. Forme primitive di rivolta sociale”, edito, in Italia, da Einaudi, in un ormai preistorico 1965. La messa in crisi del pensiero unico, secondo il mio punto di vista, dovrebbe coinvolgere più elementi e più piani discorsivi e concettuali: politico, economico, sociologico ma, soprattutto, filosofico. Sul piano politico, bisognerebbe rintracciare (rifondare?) un’entità politica antagonistica a questo sistema di rappresentanze, che organizzasse tutte quelle volontà di rivolta sparse, delle quali parla Badiou. Su quello economico, bisognerebbe seriamente considerare l’ipotesi di una messa al bando del sistema bancario, ovvero, parlare senza più mezzi termini di banditismo bancario e finanziario e, senza rispolverare il collettivismo economico, imporre a questi centri di strozzinaggio legalizzato un controllo da parte dei governi. Su quello sociologico, attivare strategie di dissuasione, attraverso lo smantellamento dei messaggi dei media, ovvero, smascherare, con una educazione alla critica fatta nella scuola e nell’università, il sistema di bugie ordito dai media e che è funzionale ai primi due livelli discorsivi, il politico e l’economico. Resta per ultimo, ma non ultimo, il piano filosofico. Il modo di pensare la filosofia oggi dovrebbe essere quello antico, ovvero: avvalersi del dubbio, del criticismo e della verosimiglianza ermeneutica per l’uomo in rapporto con le cose reali e fallibili e, soprattutto, con la natura: “Se tocchi una cosa in quella cosa ci sei tu”. Dovrebbe essere quella filosofia che indaga il modo di pensare e analizza la logica e il senso delle parole. Dovrebbe essere antiaccademica, teoretica e dialogare con altre discipline. Insegnare a praticare la vita, come un tempo si faceva nelle scuole greche. Senza indicare scopi e colpe da espiare, se non la pienezza di senso nel proprio dasein – del proprio esserci – per un degno percorso quotidiano. Purtroppo, l’attuale società è controfilosofica e allineata alle temperie dei tempi: illusi di sapere e di essere felici, non si vuole capire, pensare, chiedersi cosa implichino certi comportamenti. La cultura laica postmoderna e tutti i più grandi pensatori di ieri e di oggi sono stroncati a priori come “cattivi maestri”, ma, soprattutto, come inutili. La dialettica costruttiva, ovvero il modo di far filosofia, dovrebbe poter incrociarsi con riferimenti a fatti di cronaca e verificare il ruolo e i doveri della filosofia. Cominciare di nuovo a chiedersi  cosa significa conoscere, e discutere della verità e della menzogna, dell’attendibilità o inattendibilità dei media, di radio, di politica, di scuola, di pregiudizi, di certi equivoci di alcune teorie e movimenti, del confronto con le altre culture e con la spiritualità orientale, di preferenze sessuali, d’amore, del conformismo ipocrita che ci impedisce di voler costruire nuovi scenari privati e pubblici ispirati alla consapevolezza e all’onestà. Insomma, un gran lavoro. Non una filosofia della vita quotidiana, per parafrasare Agnes Heller, ma filosofia per la vita quotidiana, benché, non solo. Una filosofia autenticamente democratica. Non chiacchiere sparse, ma conversazioni profonde. Pensare filosoficamente oggi, significherebbe poter praticare questo pensiero e il farlo sarebbe già un buon inizio.

Franco Cuomo

 

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Giovinezza

 

A quarantatré anni sento di aver vissuto tutta la mia vita cercando di comprendere la giovinezza. E adesso so che la giovinezza, pur con la sua profonda drammaticità, è il solo grande aspetto magnifico dell’esistenza umana. Lo splendore nell’erba. Così la cantò William Wordsworth. Così la cantano tutti i poeti. Scoprire e sorprendersi.
Ed è paradossale. Perché scoprendo soffriamo. Ma diveniamo infelici solo quando abbiamo imparato. Così ci sono due tipi di infelicità: la dolorosa infelicità del crescere, costellata di lutti e splendori. E l’infelicità del dopo. Cosparsa di rassegnata mortifera accettazione.

Patrick Gentile

 

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Imbarazzo

 

Quando eravamo molto giovani condividevamo davvero ogni cosa con gli altri. Selvaggiamente. Non solo i patimenti o le facezie, ma l’apprendistato vero e proprio alla maturità, la propedeutica a un’esistenza felice.
Poi purtroppo siamo diventati adulti. E ora ci avvediamo della finitezza di quelle formidabili esperienze di comune costruzione affettiva. Ora imbastiamo relazioni che si reggono per un pelo sulle nozioni apprese a quei tempi – e perlopiù rimosse -, quando non eravamo artefatti o incatenati o in imbarazzo. Da adulti si è in imbarazzo per ogni cosa. La nostra è una generazione in imbarazzo. Verso se stessa, verso il proprio passato e il proprio futuro. La più grande generazione in imbarazzo che la Storia abbia mai conosciuto.

Patrick Gentile

 

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Se fossimo tutti meno stupidi e superficiali

 

Dal profondo del dolore, sulla necessità di accettare la fine della vita: “Non moriamo perché ci ammaliamo, ma ci ammaliamo perché dobbiamo morire”, così ci ricorda Michel Foucault (Nascita della clinica: il ruolo della medicina nella costituzione delle scienze umane oppure, con sottotitolo, Una archeologia dello sguardo medico (1963), trad. Alessandro Fontana, Einaudi, Torino 1969), affrontando i tre più insormontabili tabù delle nostre società: la vecchiaia, la malattia, la morte. Sembra tutto razionalmente accettabile, tutto così “naturale”, tutto “nelle cose”, specialmente quando una persona si fa molto vecchia, ma non è così, per lo meno non è così specialmente quando si attivano le dinamiche degli affetti, quando sei coinvolto in prima persona, eppure bisogna cominciare proprio da qui e, ripercorrere il significato dell’esistenza e il senso stesso della vita. L’altra sera mi capitò di vedere in TV Anna Marchesini, mitica interprete teatrale di grande forza espressiva, consumata da una devastante artrite reumatoide. Ero solo, in poltrona, oppresso da un pesante senso di angoscia, come mi capita da un po’ di tempo in qua. Di là, mamma, la mia mamma, che si lamentava nel sonno dei quasi suoi ottantanove anni, come fa ormai tutte le sere, tutte le notti. Anna Marchesini parlava dal di dentro della sua malattia, non nascosta, né esibita: semplicemente vissuta come un momento della sua vita e ha raccontato della sua scrittura, del suo teatro e della morte come di un altro momento della nostra vita, perché, sempre di vita si tratta. La ascoltavo e pensavo che ci sono argomenti tabù che si cerca di rimuovere. Pensavo che se le strade si riempissero di gente malata, o vecchia, che se la TV invece di mostrare sempre corpi levigati, giovani e belli, mostrasse le donne e gli uomini come realmente sono,forse cambieremmo la nostra testa, ma soprattutto il nostro atteggiamento verso la vita e verso la morte e anche verso noi stessi. Invece nella nostra società, la malattia è una vergogna e la vecchiaia pure lo è e si nasconde la prima e la seconda. Le si isola entrambe – per la vergogna – in luoghi di sofferenza e di segregazione: gli ospizi, le case di cura, le cliniche, gli ospedali. Espelliamo dalle nostre vite i segni tangibili di ciò che invece fa parte della vita e sono essi stessi la vita. Anna Marchesini parlava e io mi sono sentito pian piano una serenità interiore, anche se ero consapevole di che tipo di notte mi aspettava. Continuiamo a vergognarci della malattia, nascondiamo asetticamente la morte e  vediamo solo gente sana e giovane e bella, che è pure giusto, ma non è la verità, o meglio: la verità della vita non è solo questa: quando incontriamo qualcuno che sta male siamo presi da un turbamento fuori misura, come se non sapessimo che quello è il nostro specchio. Così il dolore per la vecchiaia di mia mamma sempre più stanca mi riporta a una sua accettazione, benché non sia facile, a meno di non inserirsi in un processo incessante che è la vita stessa, così miei due infarti. Cerco di adeguarmi ai cambiamenti del mio corpo che, paradossalmente sono più facili da accettare che non i cambiamenti del corpo di mia madre o di una persona che si ama profondamente, perché il tuo corpo ha reazioni, mentre non puoi fare nulla per il corpo di un altro, se non assistere impotente. Ecco, mi sembra che il tabù della nostra epoca sia la mancanza di consapevolezza delle cose importanti e tragiche e essenziali della vita: cioè queste cose, contro la banalità di un mondo o di comportamenti fatti da smile stupidi come faccine perennemente sorridenti. Forse bisognerebbe parlare di queste cose non in modo macabro o funebre ma come un fatto vitale, perché la morte e la vita infine sono esattamente la stessa cosa. Ed eccoci ritornati al punto di partenza: nella visione greca dell’uomo la vita si concede finché non sopraggiunge la malattia e la morte e la filosofia- che mi ha sempre soccorso – serve anche a ricordarci che, necessariamente,  noi non moriamo perché ci ammaliamo ma ci ammaliamo perché siamo mortali e che questo incessante movimento non è altro che la vita stessa.

Franco Cuomo

 

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Isolamento

 

Ci si isola. Ci si isola per la nausea che ci assale alla gola. Ci si isola perché non si sopportano più le frasi preconfezionate degli altri. Perché gli altri non sanno più come fare a rapportarsi a noi. Non c’è dell’anacronistico superomismo in questo. C’è solo la cortina di plastica trasparente che ci separa e divide. Ci si isola quando non si è più capaci di tollerare la sfida, la compassione, la solidarietà ingenua e superflua. Ci si isola perché ogni cosa sembra così intrisa di banalità, di fiacco autocompiacimento. Ci si isola perché non ci si sente capiti. O, peggio, perché si viene fraintesi. Il fraintendimento è il portato, il carcame di questo tempo barbugliante. Ed è per questo che ci si isola. Perché alla fine si sono esaurite tutte le alternative.

Patrick Gentile

 

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Relazioni

 

I miei rapporti con gli altri. Semplici, certo. Fino a quando non mi si domanda un parere, un’opinione. Sono diventato allergico alla lamentela fine a se stessa. Allo sfogo querulo che non si concede altro sbocco che la propria vana prosopopea. Reagisci, dico. Stai diventando come il peggiore tra i repubblicani, mi si risponde. Sarà. Eppure una cosa almeno io l’ho imparata. La metonimia è il gran male del secolo. Spostare il cursore dall’agente della propria insoddisfazione ai malcapitati catalizzatori esterni (di solito la famiglia, gli amici, i figli, il partner). Invece di assumerci ciascuno le nostre responsabilità preferiamo seguitare a puntare il dito contro la nostra immagine capovolta nel riflesso degli altri, spettatori casuali delle nostre frustrazioni.
Quando impareremo a strappare il comodo panno opaco dell’indulgenza dal nostro cieco specchio privato? Quando, per la miseria, quando?

Patrick Gentile

 

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