Ciascuno fabbrica il proprio reticolato, la propria trincea, il proprio guscio, la propria linotipia. E lo fa col gramo vocabolario di cui dispone, servendosi delle misere seppur fondamentali verità che ha via via incamerato, consapevole solo in parte dei materiali che ha scelto, dei lemmi che giorno dopo giorno ha perso mentre era intento a costruire il proprio bunker. Già, perché ciascuno edifica bunker, piccoli orci nei quali raggomitolarsi e finalmente dormire. Ignorando il vento e le grandi mutazioni che pur seguitano ad avvenire fuori dalla nostra orizzontalità sterminata. Ma appunto ciascuno si arrabatta come può pur di non affondare nella melma che gli ribolle e rantola sotto i piedi. Ciascuno ha pochi spuntoni nella propria bisaccia, molti dei quali sono già stati lanciati a vuoto e la dotazione ha una scadenza. Ciascuno lavora ad arredare la propria cella, non sa cos’altro fare, non può osare di più. Ciascuno riempie il proprio cruciverba come meglio gli riesce, e poi, nel buio dello sconforto, spesso si affaccia dalla prima bocca di lupo che avvista.
Alla fine penso sia abbastanza semplice il teorema. Quando stiamo per innamorarci di qualcuno chiediamoci, prima che sia troppo tardi, se c’è un buco che dobbiamo riempire, e se scopriamo che c’è ebbene andiamoci dentro a questo buco. Senza aver paura. Bisogna prima fare amicizia coi nostri buchi e le nostre falle. E bisogna farlo bene e crederci anche. Mettere gomma intorno al rame, rivestire le prese, nessuno dovrebbe prendere la scossa quando ci lasciamo sfiorare. E se qualcuno ancora si fa male, ahimè, be’, significa solo che dobbiamo continuare a lavorare. Duramente. Giorno e notte. Noi siamo il nostro termometro, la nostra aspirina, il nostro panno bagnato, il nostro cotone imbevuto d’alcol. E poi, alle brutte, ci sarà sempre un amico.
Si conoscono persone, si allacciano legami, relazioni, rapporti che sembrano ineludibili, invincibili, fatti apposta per durare una vita intera. È un bambinesco entusiasmo, sono le caramelle golose sullo scaffale più alto. Se ci capitano fra le mani poi ne gustiamo, avidi e voraci. Perché per vivere bisogna essere affamati. La sazietà è una conseguenza invisibile, la nausea poi. Si perdono persone come spiccioli sopra il nastro scorrevole. Gente che un bel giorno scade e prontamente rimpiazziamo con altra più fresca, forse han migliorato la ricetta. Tutti sulla giostra, avanti, oggi a me domani a te. Si cambia pelle come quei rettili, ieri avevamo un mucchio di cose da dirci, oggi rulliamo la cartuccia e cambiamo il nome. Si conoscono persone che poi si fuggono. In cerca d’altro. Sempre a cercare altro. Stazioni, poi binari, poi navigatori satellitari, fermi, inchiodati ai tabelloni, partenze e arrivi e poi partenze. Che grande fantastico imbroglio.
Non so perché questo tema musicale (ascolta) mi riporta come ad una memoria ancestrale: è come se ricordassi gli anni della gioventù di mia madre anche se io non ero ancora nato, gli anni cupi e poveri del fascismo. Il brano si chiama Son tanto triste, ed è la versione strumentale, resa celebre da Pier Paolo Pasolini, che nel 1975 la inserì nella colonna sonora del suo film “Salò o le centoventi giornate di Sodoma“, di un brano dei primi anni Quaranta (testo di Alfredo Bracchi e musica di Franco Ansaldo). Quando l’ho fatto ascoltare a mia mamma, che non ricorda quasi più nulla, prima ha mosso un po’ la testa al ritmo swing, poi, ha perfino accennato a cantarne qualche strofa: mi è venuto da piangere, perché, quanto ascoltai per la prima volta questo brano, al cinema, mentre guardavo il film di Pier Paolo Pasolini, io ebbi come l’impressione di conoscerlo già, di averlo già sentito, questo brano e, mentre nel film, orrendo nella sua rappresentazione, andava più volte come commento musicale, io pensavo ad un’epoca non mia che non era strettamente connessa alle immagini che andavano sulla pellicola. Il film è il film più terribile della storia del cinema, io non sono riuscito più a vederlo, e anche il più discusso e forse discutibile del regista poeta e scrittore: si pone, nella produzione pasoliniana, come una sorta di metafora dell’impotenza al potere, come una ritualizzazione mondana della violenza senza limiti, come un macabro apologo. Masturbazione, travestimento, voyerismo, coprofagia, occupano tempo e pensieri dei quattro signori della morte protagonisti del racconto tratto da De Sade. Ma, ogni volta che ascolto questo brano, oltre a quella cupezza, non so perchè, non me lo so spiegare, va al di là della mia comprensione, mi ritornano in mente figure remote di un altro tempo, un tempo che io non ho mai vissuto o il vissuto della vita di un altro, in questo caso, credo, il vissuto di mia madre, come se io fossi già inscritto nelle molecole del suo corpo.
Mi sveglio durante la notte. Ormai, occhio e croce, sulle quindici volte almeno. È terrificante svegliarsi nel cuore della notte, è mostruoso, disumano, e non ci fai l’abitudine. È come percepire la morte da molto vicino. È sentirsi soli al mondo. Io dormo senza nessuno al mio fianco. Ed è giusto per questo che ancora resisto. Ma mi domando come facciano quelli che per dormire devono essere in due. Cristo santo.
Dormito poco. Fumato tanto (ieri). Concitazione generale. Poi nel nero fitto delle sei antimeridiane, a pochi centimetri dalla sveglia, dico, l’ho intravisto di nuovo. Quel me che apriva gli occhi nelle albe dei suoi sette, otto, nove anni. La costruzione infantile dell’estate. Proprio così. I telegiornali e la scomparsa di Emanuela Orlandi, i miti mostruosi che questa vicenda in qualche modo partorì nella mia generazione. D’un tratto ci sentimmo tutti più esposti e fragili, il fianco offerto a qualcosa di invisibile e oscuro e sinistro. Nell’attesa della partenza, nell’attesa dei sassi di Santa Marinella, annaspavo tra i compiti per le vacanze (chissà se oggi vengono assegnati più). Dovevo liberarmene in fretta se poi non volevo avere niente a cui pensare. Malgrado odiassi il sole amavo spudoratamente il mare, far le capriole sott’acqua, imparare lo stile del delfino, ed ero disposto a tutto pur di attirare l’attenzione di quel ragazzino col caschetto nero e i pettorali già sviluppati che nuotava accanto a me in modo superbo. Non ci capivo un cazzo d’amore. Per me il massimo possibile erano Red e Toby. E il giorno che non venne in spiaggia mi spensi. Come se fosse colpa di qualcuno, come se l’estate fosse un gran baratro senza cuore, pieno solo di luce e sale e Nivea. Mia madre me la spalmò sulle cosce e fu così che mi bruciai il doppio. Rimasi a casa e quando qualche giorno dopo tornai a nuotare, il ragazzino col caschetto nero già non c’era più. “22 giugno 1983; la vittima, una cittadina vaticana figlia di un commesso della Prefettura della Casa Pontificia, sparisce in circostanze misteriose all’età di quindici anni…”
Il mio punto di vista è questo. Non è che la gente non sappia leggere. Conosco gente che legge e molto anche. E non è neppure che non abbia un gusto proprio. Avrei un mucchio di esempi a testimoniare una grande eleganza di pensiero. E di eloquio. Il problema è che c’è tutta una bragia dell’informe e del cafone. Che avanza verso di noi senza che ci si riesca davvero mai a proteggere del tutto. E non esistono vaccini, né impermeabili che non siano l’autoemarginazione, o un provvidenziale e dannunziano buen retiro, un’oasi minuta ma placida. In fondo la gente lavora e pensa e parla e piange e sanguina e muore. E non le resta tempo per il poetico. Ossia per la sola bombola d’aria possibile mentre annaspa in questo stagno di barbarie e cieca ignoranza.
I nostalgici. È così elegantemente primonovecentesco l’atteggiamento nostalgico, certo. Auspicare un recupero dei più elementari e perduti valori etici. Ma la gente, le persone, hanno capacità anche più ampie del mero storicizzarsi attraverso il web. Solo che poi nella maggior parte dei casi in pochissimi sanno davvero elaborare, materializzare, capitalizzare, generare, produrre, fare, dare alla luce. La gente crepa avvolta nella paura perché non è in grado di girare gli occhi verso l’interno. Cosa piacerebbe a me? Che molte persone imparassero di più a leggere il gran libro che esse stesse intimamente sono. Il resto è puro vittimismo, reiterate banalità, muri sporchi che tutti vedono. E benissimo anche.
Quando ero più giovane e disubbidiente e irresponsabile osavo parlare, azzardavo mosse, quantunque fossero maldestre e compromettenti, scalpitavo, facevo sentire la mia voce. E così la mia vita era un susseguirsi di alti e bassi, un insieme di trionfi e paurosi scivoloni. Mi sono fatto male, tanto. Ma ho anche goduto. Oh, se ho goduto. Poi, non so di preciso quando, il silenzio, i protocolli, le buone maniere mi hanno anestetizzato, addomesticato, ammansito, fino a rendermi muto, fino a mettermi in un angolo. A guardare. Mi dicevo: be’, è perché ora sono finalmente adulto, finalmente non devo più chiedere niente a nessuno, se la vita mi vorrà sarà la vita a venire da me. Ma mi sbagliavo. La vita non si muove se non per conto suo, fa il suo film e se non conservi un briciolo di sfrontata intraprendenza di quel film diventerai a poco a poco una fugace, trascurabilissima comparsa. Allora a che è servito? Crescere. A cosa serve se poi il risultato è sparire nel nulla, non esistere più? Non ho forse guadagnato di più battagliando e strillando? Non ho forse vissuto gioito pianto riso molto ma molto di più quando ho cercato di imporre il mio essere? Fallivo, certo, ma almeno gli altri si accorgevano di me. Vincevo anche e dio solo sa l’estasi che si prova nel piantare una bandiera, nel dire: questo posto è mio, l’ho conquistato io. Bisogna fare domande, ribellarsi, opporsi. A costo di morire. Altrimenti si finisce dietro il sipario, si finisce dietro la vita. E, si sa, se non la chiami a squarciagola, la vita farà benissimo a meno di te.
Dov’è finita la leggerezza, dove sono finite le risate, le stronzate. Dove siete finiti viaggi disperati incontro all’estate, dove sono morte tutte le notti e le albe, fare l’amore sulla sabbia con gli schizzi delle onde, vedere il sole e poi andare a dormire. Dove sono tutti quei discorsi, i vaffanculo gridati, le strade e i negozi, le promesse, i litigi, dove sono quelle canzoni, l’unità, le pupille limpide, le creme solari, i panini col tonno, il torcicollo, il sale e poi la doccia, qualcosa di bianco, dov’è l’ombra che trema in una pineta, tu esuberante, io perduto. E vivo.