Penso che si possa guarire dal male di vivere solo trovando in solitudine i nostri medicamenti più appropriati. In solitudine e, se necessario, nel confronto arioso col prossimo. In ogni caso le cure principali per la nostra anima devono poter venire da noi, non importa come. Importa solo che a un certo punto arrivino. Potrei arrendermi facilmente al dolce veleno della tentazione esistenzialista, ma so che non ci riuscirei. Sono fin troppo leopardiano per scendere a un tale compromesso.
L’analitica del sublime in Kant, al di là di una critica del gusto, tenta una ridefinizione dei luoghi dell’apparizione. Così in questa foto:
La Piazza del Plebiscito 1953. Una giovane donna accovacciata accanto ad un bambino che piange. La giovane donna è elegante in un tailleur scuro (la foto è in bianco e nero, seppia ad essere precisi), sicuramente blu, ha capelli nerissimi raccolti, un sorriso con rossetto e una spilla d’argento sul bavero della giacca, sandaletti nabuck. Il bambino ha un completino – nella foggia di allora – calzoncini corti bianchi, scarpe di camoscio bianche e calzini, giacchino corto azzurro: guarda da qualche parte o sta per piangere spaventato, mentre un coppo di mangime per colombi si è rovesciato attirando attorno a sé i famelici volatili: il bambino ha due anni. Capelli biondissimi e occhi azzurri. Alle spalle la chiesa di S. Francesco di Paola che non appare ripresa e pochi passanti sullo sfondo ignari, mentre forse spaventato si tiene alla mamma nonostante la mamma gli stringa la mano. Ecco, il giudizio estetico attiene alla descrizione e la descrizione è una critica che va al di là della critica stessa, elaborando le condizioni della critica del giudizio. Questo è il giudizio estetico, il giudizio estetico sembra essere per Kant (immagine a destra) il giudizio per eccellenza. Questo giudizio è tale perché esso va al di là dell’oggetto stesso che descrive. Il pensiero è suscettibile di affettività e il giudizio estetico si pronuncia sullo stato del pensiero nel piacere o nel dispiacere entrambi gli stati fanno si che il pensiero elabori il giudizio di gusto. L’immaginazione è la potenza di una rappresentazione, qualunque essa sia. L’estetica kantiana si mantiene più distante dall’estetica di Baumgarten. E’ in questa distanza che il sublime arriva in una euforia che ci presenta un altro sentimento estetico di natura eterogenea rispetto a quello del bello. Può essere allora che il sublime sia un esempio perfetto del differente e la differenza è tutta nella capacità di pensare, di rappresentare e di andare oltre ciò che si rappresenta. Nel sublime accade che la ragione presenti un assoluto, l’immaginazione si sforza di trascendere l’oggetto rappresentato, ma non riesce a descriverlo, perché la ragione che determina l’immaginazione è – per Kant – limitata. Essa non è l’immaginazione romantica, non è la fantasia: l’immaginazione può comprendere, abbracciare, descrivere, ma rimane muta davanti al sublime.
Imparai a memoria “L’aquilone” di Giovanni Pascoli in terza media. E mi sconvolse la coincidenza di quel compito col funerale di un ragazzo di un’altra classe cui dovemmo andare con l’intera scuola. Pioveva e mi pare fosse di giovedí, e tutti pensavamo alla radioattività. Io pensavo al bambino emaciato che corre dietro l’aquilone, poi si ammala. La domenica spesso andavamo al cimitero del Verano coi miei. Io lo chiamo campo santo in realtà. E c’era quell’odore che fanno i fiori tra le tombe. Ma la domenica mattina a questo serviva: ad andare a Villa Ada o a Porta Portese o al Verano. E una volta mi ero fissato che volevo assolutamente uno di quei pulcini neri infilati nelle scatole di cartone. Solo che i miei non me lo presero mai.
Certo! È un pensiero estemporaneo. Un pensiero dantescamente “folle”, ovvero non assistito dalla ragione. Per vivere, non bene o male, non felicemente o miseramente, semplicemente per vivere, mi basta e mi basterà avere la forza fisica per poter raggiungere questo luogo!
Se c’è una cosa davvero difficile a questo mondo è sapere come stare vicini a qualcuno che soffre (qualcuno che soffre più di noi in quel momento, voglio dire). Quando io soffro molto, per esempio, spengo la luce. Significa che non riesco più a parlare, né ad ascoltare. Molto triste come cosa, specialmente per i miei amici del cuore, i quali a un tratto non sanno più come o dove trovarmi, e se mi trovano, leggono la scritta “chiuso”. Stranamente però ci sono delle persone, non so bene come ci riescano, le quali sanno fendere il buio. Non fanno domande, non danno consigli, non ricattano, né subiscono. Sanno solo come starti intorno. Non so bene come ci riescano. Loro non leggono la scritta “chiuso”. Loro sono sempre al di qua del cartello. Sono dentro. Non so come ci riescano.
Conosco persone che sono ammalate di vuoto semantico. Il vuoto semantico è quell’insieme di eloqui preconfezionati con i quali coprono gli incubi che realmente provano. Infatti hanno poi malesseri frequenti, stati d’animo che tendono perlopiù all’implosione. E sbandano tra un cliché e un altro, fino a sentirsi depressi. Questo accade perché non sanno che nome mettere alle cose. Quando non sai che nome mettere a una cosa fai un’esperienza di estrema angoscia. Per evitare la quale prendi a prestito quel che è nell’aria, insomma una voce non tua. Eppure, paradossalmente, proprio quell’esperienza di angoscia è la sola benefica, la sola che possa condurre a un progresso. Una persona che cerchi le parole per raccontarsi nel profondo è a suo modo una persona eroica. Oltretutto, non di rado, si imbatterà nel silenzio. Ma il silenzio in effetti è il contrario del vuoto semantico. Il silenzio è la poesia.