Si può piangere dinanzi ad un’opera d’arte, esposta in una mostra? Certamente! Soprattutto se una riproduzione fotografica di questo capolavoro è stata usata, qualche anno prima, come immagine di copertina di un libretto di poesie, scritte per celebrare una donna. Si piange perché, ammirandola, quell’opera d’arte diventa quella donna, i suoi occhi, la sua bocca, i suoi seni, le sue mani. Quegli occhi, quella bocca, quei seni, quelle mani diventano versi e letteratura. Quei versi e quella letteratura diventano William Turner e La valorosa Tèmèraire. William Turner e La valorosa Tèmèraire diventano quella donna, i suoi occhi, la sua bocca, i suoi seni, le sue mani. Ecco il miracolo dell’arte e della letteratura! Ecco la funzione dell’arte e della letteratura! Ecco cos’è l’arte, cos’è la letteratura e cosa sono per me (lo rivendico con orgoglio), le donne!
William Turner, “La valorosa Téméraire trainata al suo ultimo ancoraggio per essere demolita”, 1839
Londra, National Portrait Gallery
Uno dei miei problemi più grandi è che conosco pochissime persone che sanno parlare. Parlare l’italiano? Non solo. Esporsi in modo chiaro, pulito. Ecco. Esprimere concetti non alterati dalle grossolanità del dialetto, dei vernacoli, dalle banalità reiterate dei social. Conosco un mucchio di persone che parlano male, che sono confusionarie, verbalmente maldestre, impantanate in gorghi da cui anche la talpa più rodata faticherebbe a uscire. Sprofondanti in sabbie mobili di senso. È come un sonno, un’abulia. L’inabilità alla comunicazione dialogica, al dire a voce, un penoso cicaleccio aziendalistico (ossia la più mostruosa e diabolica forma di asservimento linguistico alle logiche del mercato). Langue terribilmente la “langue” (De Saussure si starà rivoltando nella tomba), per non dire la “parole”. È questa la verità. Uno dei miei massimi problemi è il vuoto lessicale della gente che incontro tutti i giorni. Quell’orribile buco di foni. Quella straordinaria scarsità strutturale di inventiva nel raccontare/raccontarsi. Ogni volta che chiedo a qualcuno di narrarmi una cosa che gli è accaduta, prima mi segno, dopo trattengo sbadigli. Finora ho conosciuto pochissime persone in grado di esprimersi magistralmente. E ogni volta mi sono tolto il cappello, ho aperto i canali uditivi e son stato zitto. Ecco qua. Ora molti di voi sapranno perché quando aprono bocca con me li scavalco e gli parlo sopra senza pietà.
I motivi per cui non mi innamoro. Uhm. Be’, perché innamorato lo sono stato. E lo sono stato in un modo così folle e sperticato che Werther e Ortis e tutta la combriccola dello Sturm und Drang messa insieme mi avrebbero fatto una pippa colossale. D’altronde avevo venticinque anni, diverse ferite sparse, nodi da districare, tensioni idealistiche ed edipiche che facevano subito hybris e tragedia sofoclea (ma pure Saffo sul ciglio della rupe, sapete, roba pesante, yawn). Fu come andare sulla Luna (qualcuno si ricorda ancora Astolfo?). E non tornare indietro. Oppure tornare. Ma cambiato. Tipo Depp in quella cazzata di “The Astronaut’s Wife”. Niente di speciale. Solo la prosa di dopo. Ché un uomo quante volte può allunare nella vita, questa vita? Ditemelo voi che ancora ci credete. Ditemelo voi se vi regge.
È pieno di morti silenziose. Spargimenti di sangue senza testimoni oculari. Assassinii che non fanno notizia, omicidi di cui non frega niente a nessuno. È pieno di strazi sordi e torture invisibili. Pieno di latenza, implosioni, collassi, oblii. È questa nostra vita adulta, questo nostro horror a basso costo proiettato in sale vuote di spettatori. Ci siamo noi e il ghiaccio, noi e certe case disabitate, noi e certi ospedali. Ci sono queste nostre scarne solitudini che si trovano per caso, come in Ultimo tango a Parigi. Relazioni suicide fra sconosciuti di passaggio, utenze disabilitate, credenziali scadute, quantità paurosamente minime di memoria cache. Binari della metropolitana, di nuovo paralleli dopo lo scambio. Di nuovo soli dopo le brutture, dopo l’inefficacia, dopo che tutte le porte si sono chiuse. Dio benedica la giovinezza e la sua corsa folle verso la morte.
Un poeta, ogni vero poeta, non compone mai da solo. Lo fa sempre a due mani e a due cuori, insieme con la sua ispirazione (qualunque o chiunque essa sia). Questa, infatti, detta e il poeta scrive. Ecco perché il poeta non è mai solo. Ecco perché il poeta, nell’atto di scrivere, soltanto nell’atto di scrivere, si ricongiunge veramente, materialmente e spiritualmente, con la sua ispirazione!
Almeno una volta al giorno penso a quel che al mio funerale potrebbe dir di me la gente. Era un cinico, un egoista, se l’è cercata, troppo saputello e retorico, cioè mi dispiace ma non ci si poteva parlare, ma lo sai che non guardava in faccia manco il nipote? Poi era strano, ne aveva una per tutti, andava con chiunque e faceva a noi la morale. Troppo strafottente. Diceva tanto d’avercela con gli snob poi il primo era lui. Certo, poveretto, ancora così giovane. Vabbe’, ma non lascia mica nessuno. Solo quei quattro libri che giusto su Facebook. Già, ma chi si credeva d’essere? Vabbe’, però dispiace. Ma sì che dispiace. Ma tu ci vai alla sepoltura? Boh, no, non credo, tu? Boh.
Oggi c’è stato un momento in cui mi sono sentito come Luca Argentero in Saturno Contro. Dei miei amici sapevo tutto. Quel che avrebbero detto o fatto, cosa amano, cosa no, cosa li ha cambiati, cosa li rende sempre gli stessi. Come quei film memorabili che torniamo a vedere ripetutamente sapendo che non ci metteranno mai di fonte a un imprevisto e di cui conosciamo a menadito ogni singolo fotogramma. Come giorni ampi e senza paura. Notti senza dolore, senza buio. C’è stato un momento in cui la cinepresa ha staccato su un’inquadratura molto larga e dall’alto potevo vedere finalmente ogni cosa. I miei amici e me insieme a loro. Liberi, senza complessi, senza compromessi. Solo la felicità di esserci trovati. In mezzo a questo mondo.
Sia benedetta la giovinezza, la prima soprattutto, e sia benedetta la selvatichezza dei modi ragazzeschi che ignorano le nostre forme raggelanti, il nostro necrotico rapportarci tra noi. Sia santificata la spavalderia sfrontata dell’adolescenza, l’identità in costruzione degli sbarbatelli mentre per un piccolissimo fenomenale istante passa dall’omologazione dei tagli sui jeans a quella ben più mostruosa del nostro terrore di gente adulta, vecchia, già morta.
“Potrei credere solo a un dio che sapesse danzare. E quando ho visto il mio demonio, l’ho sempre trovato serio, radicale, profondo, solenne: era lo spirito di gravità, grazie a lui tutte le cose cadono. Non con la collera, col riso si uccide. Orsù, uccidiamo lo spirito di gravità. Ho imparato ad andare: da quel momento mi lascio correre. Ho imparato a volare: da quel momento non voglio più essere urtato per smuovermi. Adesso sono lieve, adesso io volo, adesso vedo al di sotto di me, adesso è un dio a danzare, se io danzo”.
Alla fine del 1980 avevo otto anni e una mattina mia madre crollò sulla sedia alla notizia dell’omicidio di John Lennon. Lei che i Beatles li aveva visti all’Adriano. Per la prima volta in vita mia presi coscienza dell’impatto senza eguali che certi artisti musicali hanno sull’umanità. Elvis, Janis, Jim, Bob, Freddie, Michael, Kurt, Amy, Whitney, David, Prince. Ho sempre creduto che quando si parla di angeli custodi, sotto sotto si pensa a queste creature fuori dal comune, slegate dall’ordinario, potentissime, fragilissime, per metà votate ai paradisi artificiali, per l’altra al campo delle grandi e ferocissime lotte fatte in nome del progresso. Se oggi siamo persone migliori, se non ci siamo ancora ammazzati, se resistiamo al passaggio sopra le nostre teste dell’immenso pachiderma, il merito va a loro che sono stati creatori di una bellezza da cui difficilmente riusciremo a separarci. Fermiamoci oggi a pensare a quanta ragione per vivere ci hanno dato queste persone. A quante volte ci hanno preso loro per i capelli, a quanto gli dobbiamo. Non sono i nostri padri, le nostre madri, i nostri fratelli, i nostri figli. Sono semplicemente loro. Loro. I soli veri motivi per cui invece di morire siamo stati incomparabilmente felici.