Sapete perché il vero racconto di un’epoca non si fa mai con le maiuscole dei fatti iperbolici ma con le robette di poco conto, gli apparenti e miseri cascami? Perché le cose grandi ci saranno sempre e narreranno ogni tempo possibile fin dal loro incominciamento. Recuperate i margini invece e comprenderete chi realmente eravate. Comprenderete Proust. Comprenderete Bergson. Comprenderete che siamo la sola generazione al mondo ad aver vissuto prima il futuro e poi il passato.
Ogni giorno, riaprendo gli occhi, facendo colazione, dando carezze al cane, lavandomi i denti, mi chiedo quanto ancora ne avrò. E se ho consumato troppo ossigeno e me ne restasse perciò una dose irrisoria per il tempo avvenire. Quando cioè, nella seconda metà della mia esistenza, dico, dovrò sopportare la morte dei miei genitori, la ricerca di un nuovo posto in cui stare, l’assenza di qualcuno al mio fianco solo perché non voglio fare la fine dei miei amici. Io sono un uomo che insegue unicamente il benessere. Per me il benessere è lo scopo primo, la sola arma che dovremmo tutti possedere per contrastare l’assurdità del vivere. Non sono più quel che ero fino a qualche anno fa. E a volte soffro per non essere una persona tranquilla. Ma è come se non fossi più idoneo all’analisi del contingente. Di ogni singola stupida inutile cosa che accade a me e a voi scorgo ormai solo lo smisurato abisso appena dietro. Lo smisurato abisso. Ed ecco, poi penso: dovrà pur esserci un modo per cavalcarlo. Un modo. Per sopravvivere.
Esattamente come la nenia infantile incornicia il climax omicida nella mente dell’assassino di Profondo Rosso, così a volte partono canzoni che mi riportano di prepotenza a Claudio. Era il 1998, era il 1999. Se oggi morissi saprei per certo che la mia esistenza ha raggiunto il suo apice estremo in quei due anni. I due anni in cui sono stato disperatamente, follemente innamorato di una persona che non fossi io. Il mondo mi invase ed io smisi di aderire alla pianura bianca e grigia del Kansas per finire dritto nel technicolor zuccheroso di Oz. Fu l’inferno anche. Luciferino, fiammeggiante. Vidi lacerti del mio corpo sparsi per la strada, budella rovesciate di fuori, come ne La Terza Madre. Eppure. Eppure se oggi morissi saprei di aver vissuto la totalità universale delle emozioni l’unica volta che ho avuto un amore: tragico malato pazzo scriteriato, ma fatto d’amore. Dopo è stata di nuovo la saggia buona landa della vita: lavoro soldi sesso amici film libri. Dopo di nuovo è stato il Kansas. E ora ditemi. Ditemi voi.
La mia lente non mi porta mai ad analizzare i fallimenti ideologici e sociali come un vuoto di coscienza, politica o teoretica che sia. Nel fallimento di un’opportunità si riflette ben più tristemente la grande depressione collettiva di cui parlo ogni giorno. La passiva accettazione che il male abbia gettato radici nel giardino dietro casa nostra. Sartre sorriderebbe davanti a un tale scenario, un po’ come si sorride quando un pronostico sciagurato trova poi riscontro. Un sorriso tanto amaro, certo, quanto ineludibile. Viviamo un’epoca di completa asfissia etica. Giorni fa una mia collega positivista ha ricordato con orrore gli anni di piombo. Le ho risposto che almeno allora serpeggiava ferocia intellettuale, non l’abulia generalizzata di oggi. Ma io voglio credere in un futuro migliore, ha detto, senz’altro pensando alla sua bambina. No, le ho risposto, il futuro è finito diversi anni fa, questo è il buio della civiltà e noi, meglio mettersi l’anima in pace, saremo costretti ad attraversarlo interamente fino al giorno della nostra morte.
Patrick Gentile
Questa analisi può apparire catastrofica, certamente triste. Ma è onesta! Amo i cantori della realtà quale essa è e non quale si vorrebbe fosse. L’ottimismo è, senza dubbio, un buon esercizio della mente. Ma rimane tale! Il vero delle cose è tutt’altro. E questo tutt’altro, oggi, corrisponde alla presente descrizione! (R. P.)
Io passo metà delle mie giornate compatendo unicamente i vostri figli. Me li immagino mentre vengon su tra social-idiozie, vuoto pneumatico dei linguaggi seriali rimediati fra i brusii televisivi. Condannati a tatuarsi, pagar le palestre, bere alcol, tanto alcol. Me li vedo andare nel rimpasto di tutto il brutto che gli stiamo lasciando. Nessuna generazione – in tutta la storia occidentale – è mai stata debole e fiacca e fifona quanto la nostra. Io camperò nella mia modernità, nella mia contemporaneità. Che certo non è il 2016. Non è in questa lurida grotta.
Noi si campa tutti così. Amici e sconosciuti. Prossimi e distanti. Motivati e menefreghisti. A me di te importa ora e poi non lo so, dopo non so più niente. È la condizione. Non lo facciamo neanche apposta. Ci è interessato tutto troppo prima. Quando tutto era interessante. Infatti che casino, che rivoluzioni, porcatroia. Prima.
Finché si litiga. Finché si dibatte, si discute, ci si danna, si lotta. Finché si sta nell’agone. Sul ring. Fino a che si urla, ebbene allora le cose possono crescere. Crescono perché ci si sporca, ci si fa male e facendocisi male si mette cemento, c’è uno scopo, uno scopo e una sfida. E se c’è una sfida e uno scopo, allora si può stare tranquilli, niente è superfluo, anzi è il tempo delle grandi speranze e delle straordinarie conquiste. Piuttosto si deve tremare dopo. Quando si scende dal ring. Credendo sia giunto il momento più bello, noi finalmente maturi, appagati, saggi. Incapaci di vedere che è proprio quello il momento in cui invece si è già perso tutto.
Descrivere una scena d’amore, che sia essa ambientata nella preistoria, nel ‘500 o nel 4300, avendo negli occhi se stessi e la donna che si è realmente amata, baciata o posseduta, non è arte. E’ passione. I grandi scrittori scrivono col cervello, quelli piccoli col sentimento. Ecco perché non diventerò mai un grande scrittore: io scrivo col cuore!
Che sia di una donna, di un fiore, di una melodia, di uno sguardo, di una carezza, di una bimba, di una mente, del tramonto, di un verso o delle stelle, è soltanto la bellezza che ci permetterà di affrontare e sconfiggere la miseria, materiale e spirituale, che ci circonda e ci affligge. Amate e contemplate la bellezza prima di ogni cosa, ma abbiate il coraggio di inseguirla tenacemente e di stanarla, poiché la bellezza profonda delle cose, quella vera, non è affatto immediata: essa ama nascondersi!
È sinistro come il mondo occidentale promuova il culto della giovinezza mentre la maggior parte di noi sta psicologicamente sfiorendo. I trent’anni. I trent’anni sono la parte in cui uno parla di più. La parte dove si devono sistemare le situazioni. Tutte le situazioni: il lavoro, la propria posizione nel mondo, il progetto di una casa, un figlio. La parte insomma dove si dovrebbero sputare i rospi, essendo di contro la parte successiva quella dove il rischio di restare senza parole è incontrovertibile. I quaranta-cinquantenni sono perfetti esteriormente. Sono giovani fuori. Ma non parlano. Non si parla. Questo mutismo diffuso è il segno inequivocabile della nostra grande decrepitezza.
Patrick Gentile
Francis Bacon, “Ritratto di George Dyer allo specchio”, 1968, Madrid, Museo Thyssen-Bornemisza