Tra pochi mesi compirò quarantaquattro anni, eppure se guardo a come trascorro i miei fine settimana, per certi versi la mia vita assomiglia ancora a quella di un ventitreenne. Il sabato sera a ballare house, la domenica fuori servizio, il mio romanzo come allora gli esami universitari. I miei jeans rotti, la felpa, le Adidas. Musica tribale in cuffia a volume massimo. Estate che oggi incombe. Distruzione fisica per quanto ho scopato. Fame infernale. Come se malgrado questa scia di devastazione alle mie spalle (tutte le splendide cose perdute e la spaventosa consapevolezza che ne ho), io fossi rimasto beatamente, tragicamente, per sempre giovane.
Lei è mia madre. Oggi è il suo compleanno. Anche questa foto venne scattata il giorno del suo compleanno. Anche in questa foto si vede quanto siamo diverse. Io ridevo sempre. Anche lei rideva. E con in capelli lunghi e ricci era bellissima. A scattare la foto con la mitica Polaroid che stampava subito c’era mio padre. Che era fissato per queste cose. Lei non lo sapeva, ma dopo qualche anno saremmo rimaste sole. Lei a pagare il mutuo di una casa appena acquistata. Io a fingere la normalità per tornare a scuola. E a cercare di farmi andare bene le cose che erano successe, senza pensarci. Io e lei, perchè altre persone non c’erano. Una sera, dopo molti mesi dall’accaduto, mi accorsi che lei metteva chiavi, chiavistello e due sedie all’interno dietro la porta di casa. Le dissi: “Ma che fai? Se torna Papà come entra?”. Lei mi prese per mano e tutta la notte parlammo sul lettone. E mi raccontò quello che io avevo rimosso. Non sarebbe mai tornato, ma potevamo tenerne viva la memoria con le foto, un filmino. Potevamo parlarne. Potevamo andare a trovarlo, fare pic nic sul prato dove era l’ulivo che avremmo piantato. E io avrei potuto prendere la patente e portare la sua macchina. E molte altre cose. Ma non lo avremmo più visto. No. Su questo punto doveva essere chiara, dura. E lo fu.
E questo scricciolo di donna è dura anche oggi, quando mi dice: “Io ho la forza di ripartorirti di nuovo, se necessario!”.
Oggi è il compleanno di mia madre. Ma lei è andata al funerale della cugina. L’ultima foglia leggera e delicata della sua famiglia d’origine. Le ho prestato una mia maglietta rossa. Come è rossa la maglietta che ho io in questa foto. Io non abbraccio mai mia madre. Non so farlo. Per questo, oggi, le ho dato una mia maglietta.
Novella Settimi
In questi pochi righi c’è l’essenza di quello che sono Donne. Istinto, forza, dolcezza. Queste parole sono un compendio della storia universale, della storia del mondo. Ho scritto spesso che il cuore di una donna contiene la storia del mondo. Leggendo, ne ho avuto una ulteriore e inconfutabile prova. Vi ho letto la storia omerica dell’animo umano e quella shakespeariana delle passioni umane. Mi piacerebbe davvero conoscerle queste due eroine della letteratura dell’animo e delle passioni, non fosse altro che per guardare Novella mentre la madre le ripete: “Io ho la forza di ripartorirti di nuovo, se necessario!”. Questa frase risuona potente come le prime quattro battute della “Quinta” di Beethoven. Mi ha spiazzato. Mi ha esaltato. Ma, soprattutto, mi ha fatto capire che mai e mai parole di un uomo potranno definire ciò che sono le Donne. Forse, la poesia è l’unico sforzo che un uomo possa compiere per cercare di rappresentarle!
Per arrivare indenne in fondo alla giornata, ogni singola giornata, dico, devo assicurarmi almeno un momento in cui la mia vita, il mio personaggio, starebbero ottimamente in un film degli anni settanta, qualcosa come “Harold And Maude”, o “Zabriskie Point”, o “Easy Rider”, o The Strawberry Statement”. I film sulla contestazione sono quelli in cui meglio si inscrive il mio pensare attuale, il mio sentire, il mio rifiutare.
È come se non guardassi più ai dettagli, ai particolari. Lo facevo un tempo. Quando ero immaturo. Adesso anelo alla totalità. Al più ampio spettro. All’apertura massima del solco in cui mi trovo. Dopotutto quale altro scopo dovrebbe avere un uomo abbandonato su questo pianeta che non sia la felicità? Davvero, ditemelo voi. Ditemi se non si dovrebbe vivere puntando esclusivamente a questo. Non a inseguire la felicità. Ma a farne la nostra più meritoria e duratura ragion d’essere.
Certo, trovare qualcuno da amare e che sia anche disposto ad amarci è impresa titanica. Solo, credo che a nessuna persona dovrebbe mai mancare qualcuno da abbracciare, da baciare, con cui star sdraiati e nudi. Non serve essere innamorati. Serve umanità.
Vivo la vita quasi costantemente in la minore. Il la minore è il suono che faccio io. Accanto in genere ci sono i mi, i re, minori anch’essi, i fa quando sono possibilista e mi lascio andare. Ad ogni modo questo non vuol dire che non sappia produrre dei do o dei sol, anzi. È che da un po’ di tempo tendo alla parte notturna e interiore degli eventi. Ma non è propriamente malinconia. È come una camminata tra i boschi. Consapevole che fuori c’è il mondo.
Mi sono svegliato con una nostalgia. Sarà che ieri sera al cinema ho visto “Perfetti sconosciuti”. Durante la proiezione ho pensato per tutto il tempo ai miei amici storici, quelli che ho incrociato secoli fa, quelli che ho sentito come la casa. E mi sono detto che la vita, vuoi o non vuoi, tende a separarti proprio dalle persone centrali. Sarebbe facile se dessi la colpa alle loro relazioni stabili, se intravedessi nelle loro compagne tante Yoko Ono, se li ammonissi per i figli che hanno messo al mondo e stanno crescendo, se polemizzassi per il lavoro che risucchia sia loro che me, se demonizzassi tutte le inevitabili fughe che li hanno spinti sempre un poco più in là, sempre leggermente più fuori dal raggio. Sarebbe facile snidare i capri espiatori. Loro farebbero altrettanto. Mi mortificherebbero: Patrick l’egoista, il saccente, lo spocchioso, l’avido, l’opportunista. E dopo staremmo un sacco di tempo a rimbrottarci l’un l’altro; è già accaduto, accadrebbe anche stavolta (che poi invece è il massimo: discutere coi propri amici, una cosa che fa sempre bene e rafforza). E poi ho ripensato a quando avevamo trenta, trentacinque anni e… Non lo so, eravamo adolescenti ancora. Trentacinquenni adolescenti. Dopo è scoppiato qualcosa. Ci siamo sganciati, siamo andati in orbita, loro da una parte e io dall’altra. Chi scrisse: l’amicizia non chiede che ci siano chissà quali interessi in comune ma, per sopravvivere alle frustate della vita, solo buona volontà? E sapete, è vero. Se una cosa dura alla fine è perché lo abbiamo voluto. Contro tutto il resto: il semplice come il difficile.
Tra le cose che non sono riuscito a imparare nella mia vita c’è di sicuro la capacità di adattarmi a un gruppo di persone con cui devo condividere uno scopo. In automatico mi pongo in contrapposizione. L’abilità a risultare simpatico a pelle, in quanto in una stanza con dieci persone di norma me ne resta simpatica una e allora ci piscio contro per dire che è mia. Nella mia vita non ho imparato a dire ciao. Odio dire ciao per convenzione. Il ciao è la stronzata più sopravvalutata del mondo, soprattutto se non è spontaneo ma normalizzante. Non ho imparato a socializzare naturalmente perché soffoco dopo due minuti. Non sono stato capace di creare coesione, omogeneità, ma sono scaltro nel creare divisione e nell’isolare cose e persone. Psicologicamente. Sono un individualista che lavora bene da solo. Per questo scrivo. Per scrivere mi basto. Ma poiché il fuori mi serve per mangiare… Un uomo consapevole del compromesso a cui è dovuto scendere è come me. Un uomo ispido e difficile da amare.
Spesso vorrei essere ancora un quindicenne che domattina deve andare a scuola, che ha chi si prende cura di lui, le cui uniche responsabilità sono i compiti a casa e i compiti in classe. Che ha persone giovani e forti e abili intorno, prospettive e punti di fuga molto distanti, che dorme fino a mezzogiorno e si prepara a occupare solo tutto l’enorme spazio che c’è.
Io quando capito su “Gesù di Nazareth” di Franco Zeffirelli crollo. Tutto in me crolla. Ogni mia convinzione, dogma, paradigma. Sarà che, l’avrò detto cento volte, mi innamorai di Gesù che avevo sette anni. Io davanti a questo Gesù mi sento l’ultimo degli ultimi, il più errante e peregrino fra gli uomini. Al punto che se posasse la sua mano sulla mia testa io non avrei che lacrime. E mi inginocchierei. A baciargli i piedi.