Quando qualcuno dice “mi piacerebbe avere una storia” sta solo esprimendo, magari neppure troppo consapevolmente, un desiderio di appropriazione. In sostanza l’altro (l’oggetto della storia) dovrebbe stare ai patti e consegnarsi integralmente così da soddisfare il desiderio a monte. Se è vero che esistono forme di possessività nell’amicizia, esse sono rafforzate ulteriormente dall’ingabbiamento psicologico che l’amore borghese impone agli individui di essere esperito anzitutto come sentimento tra due soggetti: me-e-te. L’impossibilità di soddisfare appieno un desiderio conduce alla frustrazione, quindi a un perpetuarsi del desiderio medesimo. Un mio amico una volta ha detto: amo la mia compagna perché forse dentro di me so di non possederla completamente. L’amore è in altre parole la vertigine che proviamo affacciandoci sul dirupo. Fondamentalmente un vuoto.
Se nella vita decidi di scrivere, il pudore, la vergogna, sono cose a cui devi rinunciare. Non puoi essere un fariseo e sperare di impastare qualcosa di buono o autentico. Non puoi importi gabbie e poi pensare di farla franca. Alla lunga non ti crederà nessuno. Se decidi di scrivere, devi rompere le cortine. Stracciare il campo. Prendere a calci le porte e farti male. Devono farti male le dita, gli occhi. Devi crollare o sfinirti d’insonnia per un aggettivo che si appoggia male. Trovare una lingua che sia tua e poi di alcuni e poi di tutti. Ammazzarti molto, e ammalarti e amare. Se vuoi scrivere devi amare tutte le cose. Quelle che odorano e quelle che ti fanno vomitare. L’immondizia e il tempo. Devi amare il tempo. Il tempo che ti serve e contro cui dovrai lottare per mettere al mondo i tuoi mostri e i tuoi angeli.
Sia benedetta la giovinezza, la prima soprattutto, e sia benedetta la selvatichezza dei modi ragazzeschi che ignorano le nostre forme raggelanti, il nostro necrotico rapportarci tra noi. Sia santificata la spavalderia sfrontata dell’adolescenza, l’identità in costruzione degli sbarbatelli mentre per un piccolissimo fenomenale istante passa dall’omologazione dei tagli sui jeans a quella ben più mostruosa del nostro terrore di gente adulta, vecchia, già morta.
Noi si campa tutti così. Amici e sconosciuti. Prossimi e distanti. Motivati e menefreghisti. A me di te importa ora e poi non lo so, dopo non so più niente. È la condizione. Non lo facciamo neanche apposta. Ci è interessato tutto troppo prima. Quando tutto era interessante. Infatti che casino, che rivoluzioni, porcatroia. Prima.
Patrick Gentile
René Magritte, “Les Amants”, 1928, Richard S. Zeisler Collection, New York
Ciascuno al mondo chiede di essere ascoltato. Non è chiaro il motivo. Non sono chiare le parole, i linguaggi, i concetti. Le idee stesse non lo sono, sempre così difettose e scarne, specialmente le idee della gente ordinaria, comune, spoglia. Nondimeno cresce questo vocativo: corale, viscerale, impastato ai brusii ben più frastornanti della Storia. Chiunque cerca orecchie cui confessarsi, qualcuno che frattanto non sia divenuto sordo. Anche se non sa cosa dire, anche se non sa come dirlo. Anche se ha perso tutto, comprese le parole, specialmente le parole. È la grande disforia del genere umano, questo vicendevole auscultarsi senza realmente capirsi, senza realmente tradursi. La speranza che chi ci circonda prima o poi si assuma il dovere. Il dovere di noi.
Quando avrai quarant’anni, ricorda che molte cose non saranno più come prima. Improvvisamente scoprirai di non avere tempo. Tempo per questo o per quello. Gli amici, prima fitti e numerosi, si dilegueranno ciascuno nel proprio piccolo inferno domestico, cosicché avrai occasioni (perlopiù pranzi o cene) via via sempre più scarse e spesso piene di oppresso rancore. A quarant’anni, se non avrai già una relazione stabile direi che potresti tranquillamente dimenticarti di allacciarne una nuova. E a meno che tu non sia una persona bellissima, difficilmente farai ancora sesso. Se non hai più una vita sociale dopo i quaranta, ma hai un lavoro, i tuoi colleghi e i tuoi superiori (che magari sotto sotto detesti) fatalmente diverranno la tua cerchia. Dopo i quaranta dovrai badare a persone che frattanto sono invecchiate e, benché tu ti sentirai ancora un ventenne nel profondo, non troverai corrispondenza nel mondo intorno a te (bensì, un minimo, nel virtuale: i social infatti rallentano molto il nostro processo di invecchiamento). Insomma, arriva ai quaranta cercando di far tutto e di farlo prima. Poiché dopo sarà la Terra di Adelaide.
Mi sono innamorato parecchie volte nella mia vita. Ma se misuro questo innamorarmi sull’ordinata della tragedia ebbene ci trovo sempre e solo una persona. Con Claudio la sperimentazione del dolore raggiunse l’acme in quanto lo amavo bambinescamente. Fu un biennio decorticante. Senza scappatoie. Una tagliola. Ero condannato alla dialisi perenne. Trasfusioni di lui per poter sopravvivere. Lavaggi del sangue e poi di nuovo tutto da capo. Conobbi il tremore kierkegaardiano. Fui larvale e fui Kunta Kinte.
Io ad esempio fui tratto fuori dall’infanzia – per le orecchie, come un coniglio nascosto fra le lattughe -, quando al caschetto innocente di Sophie Marceau si sostituirono pruriginosamente le natiche tonde e sode di Phoebe Cates. La domenica a “Superclassifica Show” mandavano in onda la sua canzone, “Paradise”, ormai in testa alle classifiche. Il video era un collage di spezzoni del film, con questa sequenza in cui Willie Aames le stringeva le natiche, entrambi nudi. Nel 1982 non c’era l’Isis ma le Falkland e Nikka Costa, e la cosa più bella che potesse succederti era di scavalcare i giochi e le fiabe di prima per approdare all’isola selvaggia della fase numero due. Come un magnifico rito di iniziazione. C’era stato un velo e Phoebe Cates lo tagliò per tutti noi. Che fiduciosi andammo dall’altra parte. Chi a vivere, chi a morire.
A quarantatré anni sono un uomo perfettamente (e tragicamente) diviso tra il pessimismo catastrofista indotto dalla crudeltà cieca del mondo in cui vivo e una più ottimistica, ingenua tensione verso il buono che posso essere in grado io per primo di generare con le mie sole mani. Così, sapete, spesso la sera rientro dal lavoro e immagino che alla fine non creperò di stenti o di una malattia devastante o accoltellato in un vicolo senza uscita da un rumeno marchettaro a cui soffio i vecchi nonni perduti. E poi però mi ripeto che forse non ho fatto bene abbastanza, che ho disprezzato un sacco di gente, e ogni tanto mi compiaccio dei nemici che ho oggi, ché chi trova un amico trova un tesoro e chi un nemico, la misura di sé. E allora, tra i fari rossi del traffico, nell’imbrunire che cresce, mi scuso per tutto e mi dico che sarebbe da stronzi ingrati non dichiararmi una persona tutto sommato compiuta. Uno insomma che ha capito che la vita è bella solamente quando si può tornare. Esatto, tornare.
Tasca di sole scucita sulle pareti delle palazzine. Montesacro all’andata e senso di aderenza. Aderenza, sì. Alla bastarda puttana sbracata voglia di vivere. Alla certezza dei disastri di fronte ai quali la soluzione migliore resta da sempre quella di scrollar le spalle. E aprirsi un varco. Per rifare tutto da capo, ripensarsi, darsi un voto, un calcio alle chiappe e poi un premio. Se alla fine meriterò il primo posto dopo potrò gustarmi l’estate. Come uno sbarbatello testa di cazzo. Un leprotto tra le verze. Il figlio illegittimo di James Dean e Franz Kafka.