Per un giorno, la corte del principe invita una danzatrice accompagnata dai suoi musicisti.
Ella fu presentata alla corte, poi danza davanti al principe al suono del liuto, del flauto e della chitarra.
Ella danza la danza delle stelle e quella dell’universo; poi ella danza la danza dei fiori che vorticano nel vento. E il principe ne rimane affascinato.
Egli la prega di avvicinarsi. Ella si dirige allora verso il trono e s’inchina davanti a lui. E il principe domanda:
“Bella donna, figlia della grazia e della gioia, da dove viene la tua arte? Come puoi tu dominare la terra a l’aria nei tuoi passi, l’acqua e il fuoco nel tuo ritmo?”
La danzatrice s’inchina di nuovo davanti al principe e dice:
“Vostra Altezza, io non saprei rispondervi, ma so che: l’anima del filosofo veglia nella sua testa. L’anima del poeta vola nel suo cuore. L’anima del cantante vibra nella sua gola. Ma l’anima della danzatrice vive in tutto il suo corpo.”
Perchè i celesti danni ristori il sole, e perchè l’aure inferme Zefiro avvivi, onde fugata e sparta delle nubi la grave ombra s’avvalla; credano il petto inerme gli augelli al vento, e la diurna luce novo d’amor desio, nova speranza ne’ penetrati boschi e fra le sciolte Ppuine induca alle commosse belve; forse alle stanche e nel dolor sepolte umane menti riede la bella età, cui la sciagura e l’atra face del ver consunse innanzi tempo? Ottenebrati e spenti di febo i raggi al misero non sono in sempiterno? Ed anco, Primavera odorata, inspiri e tenti questo gelido cor, questo ch’amara nel fior degli anni suoi vecchiezza impara?
vivi tu, vivi, o santa Natura? vivi e il dissueto orecchio della materna voce il suono accoglie? Già di candide ninfe i rivi albergo, placido albergo e specchio furo i liquidi fonti. Arcane danze d’immortal piede i ruinosi gioghi scossero e l’ardue selve (oggi romito nido de’ venti): e il pastorel ch’all’ombre meridiane incerte ed al fiorito margo adducea de’ fiumi le sitibonde agnelle, arguto carme sonar d’agresti Pani udì lungo le ripe; e tremar l’onda vide, e stupì, che non palese al guardo la faretrata Diva scendea ne’ caldi flutti, e dall’immonda polve tergea della sanguigna caccia il niveo lato e le verginee braccia.
Vissero i fiori e l’erbe, vissero i boschi un dì. Conscie le molli aure, le nubi e la titania lampa fur dell’umana gente, allor che ignuda te per le piagge e i colli, ciprigna luce, alla deserta notte con gli occhi intenti il viator seguendo, te compagna alla via, te de’ mortali pensosa immaginò. Che se gl’impuri cittadini consorzi e le fatali ire fuggendo e l’onte, gl’ispidi tronchi al petto altri nell’ime selve remoto accolse, viva fiamma agitar l’esangui vene, spirar le foglie, e palpitar segreta nel doloroso amplesso dafne o la mesta Filli, o di Climene pianger credè la sconsolata prole quel che sommerse in Eridano il sole.
Né dell’umano affanno, igide balze, i luttuosi accenti voi negletti ferìr mentre le vostre paurose latebre Eco solinga, non vano error de’ venti, ma di ninfa abitò misero spirto, cui grave amor, cui duro fato escluse delle tenere membra. Ella per grotte, per nudi scogli e desolati alberghi, le non ignote ambasce e l’alte e rotte nostre querele al curvo etra insegnava. E te d’umani eventi disse la fama esperto, musico augel che tra chiomato bosco or vieni il rinascente anno cantando, e lamentar nell’alto ozio de’ campi, all’aer muto e fosco, antichi danni e scellerato scorno, e d’ira e di pietà pallido il giorno.
Ma non cognato al nostro il gener tuo; quelle tue varie note dolor non forma, e te di colpa ignudo, men caro assai la bruna valle asconde. Ahi ahi, poscia che vote son le stanze d’Olimpo, e cieco il tuono per l’atre nubi e le montagne errando, gl’iniqui petti e gl’innocenti a paro in freddo orror dissolve; e poi ch’estrano il suol nativo, e di sua prole ignaro le meste anime educa; tu le cure infelici e i fati indegni tu de’ mortali ascolta, vaga natura, e la favilla antica rendi allo spirto mio; se tu pur vivi, e se de’ nostri affanni cosa veruna in ciel, se nell’aprica terra s’alberga o nell’equoreo seno, pietosa no, ma spettatrice almeno.
(Giacomo Leopardi, “Alla Primavera o delle favole antiche“, gennaio 1822)
John William Waterhouse, “Flora and the Zephyrus” (1898), olio su tela (video da www.restaurars.altervista.org)
Senza di te tornavo, come ebbro, non più capace d’esser solo, a sera quando le stanche nuvole dileguano nel buio incerto. Mille volte son stato così solo dacché son vivo, e mille uguali sere m’hanno oscurato agli occhi l’erba, i monti le campagne, le nuvole. Solo nel giorno, e poi dentro il silenzio della fatale sera. Ed ora, ebbro, torno senza di te, e al mio fianco c’è solo l’ombra. E mi sarai lontano mille volte, e poi, per sempre. Io non so frenare quest’angoscia che monta dentro al seno; essere solo.
(Pier Paolo Pasolini, “Senza di te tornavo“, da “Tutte le poesie”, Volume 2, “I Meridiani” Mondadori, 2003)
Edward Hopper (1882-1967), Opere (video da www.restaurars.altervista.org)
La terribile ombra d’un invisibile Potere fluttua in mezzo a noi, benché non vista – e visita questo svariato mondo con incostante ala, come le brezze dell’estate che strisciano di fiore in fiore. Come raggi di luna che dietro una montagna fitta di pini scrosciano, visita con sguardo incostante il cuore e il volto di ogni uomo; come colori e armonie la sera, come nuvole disperse nel chiarore delle stelle, come il ricordo d’una musica fuggita, come qualcosa che per sua grazia possa essere cara, e tuttavia più cara per il suo mistero.
II
Spirito di bellezza, che consacri coi tuoi colori ogni pensiero e ogni forma umana su cui splendi – dove te ne sei andato? perché trascorri e lasci il nostro stato, questa oscura e vasta valle di lacrime, deserta e desolata? Chiedi perché per sempre il sole non tessa arcobaleni sul torrente, perché quello che appare, scolori e si dissolva, – perché paura e sogno e morte e nascita sulla giornata della terra gettino un’ombra tale, – e all’uomo venga dato tanto d’amore e d’odio, e di sconforto e di speranza?
III
Da mondi più sublimi nessuna voce ha mai dato ai poeti o ai saggi la risposta – perciò i nomi di Dio, dei demoni e del Cielo, non sono che tracce del loro vano sforzo, incanti fragili, che recitati non aiutano a staccare da tutto quello che sentiamo e vediamo il dubbio, il caso e la mutevolezza. Soltanto la tua luce – come una nebbia sopra i monti, o musica che il vento della notte manda attraverso uno strumento immoto, o il chiaro della luna sulle acque, dà grazia e verità al sogno inquieto della vita.
IV
Speranza, Amore, e Orgoglio, passano come nuvole e ritornano, per qualche incerto attimo concessi. L’uomo sarebbe immortale, e onnipotente, se tu, ignota e terribile, fissassi col tuo glorioso seguito dimora nel suo cuore. Tu messaggero degli affetti che crescono e declinano negli occhi degli amanti – tu – che alimenti il pensiero umano, come l’oscurità una fiamma morente! non ti partire come la tua ombra venne, non ti partire – o la tomba sarà come la vita e la paura, un’oscura realtà.
V
Fanciullo ancora, andavo in cerca di spettri e attraversavo fugace stanze vigili, rovine e anfratti, e boschi al chiarore delle stelle, con timorosi passi perseguendo speranze d’alto conversar coi morti. E invocavo i nomi velenosi che nutrono la nostra giovinezza; non fui ascoltato – non li vidi – quando, mentre ero assorto sul destino del vivere, nel dolce tempo in cui i venti corteggiano tutte le cose vive che si destano per recare nuove gemme e fiori, – all’improvviso, la tua ombra cadde sopra di me; io detti un grido, e giunsi le mani in rapimento!
VI
Allora feci il voto di consacrare le mie forze a te e a ciò che t’appartiene – non l’ho mantenuto? Con cuore palpitante e occhi in lacrime, adesso dai loro taciti sepolcri invoco i fantasmi di mille ore, che in pergolati chiari di visioni, d’ardente studio o dilettoso amore, hanno vegliato con me l’invida notte – e sanno che mai gioia illuminò questa mia fronte non giunta alla speranza che tu avresti liberato il mondo dalla sua oscura schiavitù che tu – terribile splendore, avresti dato ciò che la parola non può esprimere.
VII
Il giorno diventa più solenne e più sereno, trascorso il meriggio – c’è un’armonia in autunno, e una luce nel suo cielo, che nell’estate non si sente e non si vede, come se non potesse esserci, come se non ci fosse stata! Così il tuo potere, che come la verità della natura sulla mia inerte giovinezza discese, alla mia vita d’ora innanzi doni la sua calma – a uno che ti adora, e venera le forme in cui sei infuso, e che i tuoi incanti, spirito bello, spinsero a temere se stesso, e amare tutti gli uomini.
(Percy Bysshe Shelley, Inno alla bellezza intellettuale, 1816)
Sandro Botticelli, “La nascita di Venere” (1482-1485) tempera su tela di lino (172×278 cm), Firenze, Galleria degli Uffizi (video da www.restaurars.altervista.org)