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Priamo e Achille

L’umanità che trionfa sull’odio

 

 

 

 

Era una notte di silenzi carichi e sospiri trattenuti, quando Priamo, re di Troia, decise di affrontare l’impensabile. Avvolto in un modesto mantello, quasi a voler dismettere il peso della corona, si fece strada attraverso il campo acheo, guidato solo da Hermes, il messaggero divino. Ogni passo lo avvicinava alla tenda del nemico più feroce, Achille, l’uomo che aveva ucciso suo figlio Ettore e ne aveva profanato il corpo, trascinandolo attorno alle mura di Troia.
Priamo era un re, un uomo schiacciato dal peso della guerra, che aveva perso quasi tutto, ma era soprattutto un padre. Per questo, in quell’ora così buia, trovò la forza di sfidare la furia del più temuto degli eroi, per restituire dignità a Ettore, il figlio caduto, il baluardo della sua città, la carne della sua carne.
Quando Priamo entrò nella tenda, Achille lo vide come un’apparizione. L’uomo, che fino a poche ore prima rappresentava il nemico più odiato, ora si presentava come un vecchio fragile, le spalle curve, gli occhi pieni di una supplica che nessuna parola avrebbe potuto contenere. Priamo si inginocchiò ai piedi di Achille, stringendo con le sue mani le ginocchia del guerriero.
“Ricordati di tuo padre, Achille”, disse Priamo. Le sue parole scossero l’animo del Pelide. Priamo non parlava come re, né come nemico, ma come un uomo che conosceva il dolore. “Anch’egli è vecchio, come me, e attende notizie di te. Ma tu vivi ancora. Tu puoi tornare da lui. Io, invece, sono qui a implorare la tua pietà per riavere il corpo di mio figlio”.

Quelle parole ruppero qualcosa dentro Achille. Il ricordo di suo padre Peleo, lontano e ignaro del destino del figlio, e di Patroclo, l’amico che la morte aveva portato via, riaffiorarono come un’onda che non si può fermare. Le sue mani, abituate a distruggere, ora tremavano. Per la prima volta, da quando aveva intrapreso la sua furiosa vendetta, sentì il peso di un’umanità che aveva cercato di reprimere.
Achille si alzò lentamente, il volto segnato dalla fatica e dal dolore. Fece cenno ai suoi uomini di preparare il corpo di Ettore, di lavarlo, ungerlo, rivestirlo con le vesti più nobili. Ogni gesto era un atto di riconciliazione, un tributo alla grandezza di Ettore e al dolore di Priamo. Era come se in quel momento Achille volesse restituire al mondo un frammento di ciò che aveva distrutto.
Mentre il corpo di Ettore veniva portato davanti a Priamo, il re si lasciò andare a un pianto inconsolabile. Le sue lacrime scesero silenziose, come pioggia che bagna una terra sterile. Achille, in piedi accanto a lui, osservava, e per la prima volta sentiva che il dolore dell’altro era anche il suo. La rabbia che lo aveva consumato sembrava scivolare via, lasciando spazio a un vuoto che nessuna vittoria poteva riempire.
Quella notte, nella tenda di Achille, il mondo sembrò fermarsi. Due uomini, separati da un abisso di guerra, trovarono un terreno comune nel dolore. Non c’erano più Achille il furioso distruttore e Priamo il re sconfitto: c’erano solo due esseri umani, fragili e spezzati, uniti da una consapevolezza condivisa. La vita, così cara e così fragile, era stata loro strappata da mani invisibili, mani di dèi capricciosi e di un destino ineluttabile.
Achille ordinò che Priamo fosse trattato con onore. Lo fece sedere alla sua tavola, lo fece riposare e per un momento sembrò che il guerriero e il re potessero essere semplicemente un figlio e un padre. Ma entrambi sapevano che quella tregua era solo un’illusione. Priamo sarebbe tornato a Troia con il corpo del figlio e Achille sarebbe rimasto nell’accampamento acheo, ancora prigioniero del suo destino.

L’incontro tra Priamo e Achille è uno dei momenti più poetici e malinconici dell’Iliade. Omero ci mostra che la vera grandezza di un uomo non risiede nella forza o nella vittoria, ma nella capacità di riconoscere il dolore altrui e di trovare una scintilla di compassione anche nell’oscurità più profonda. È un momento in cui la guerra si arresta, e l’umanità, per un attimo, trionfa sull’odio.

 

 

 

26-XII-2024

 

 

 

Il mio giorno svanisce in un abbraccio di fuoco,
il tuo canto sommesso, un addio troppo fioco.
Eppure ogni luce che scende nel mare,
mi sussurra promesse di un nuovo iniziare.

Nel rosso che sfuma nell’ombra che avanza,
la mia fine si mescola a te, dolce speranza.
Così il mio tramonto, pur pieno di pianto,
racconta un domani di tenero incanto.

 

 

 

 

 

 

 

Dylan Thomas

L’arte della parola e la sinfonia dell’esistenza

 

 

 

 

Dylan Thomas, poeta gallese del Novecento, occupa un posto unico nella letteratura inglese, grazie alla sua straordinaria capacità di intrecciare il linguaggio lirico con immagini potenti e temi profondi. La sua opera è un microcosmo di influenze e innovazioni: radicata nella tradizione romantica ma aperta alla sperimentazione modernista, percorre l’essenza dell’esperienza umana attraverso simboli universali e introspezione personale.
Per Dylan Thomas, il linguaggio non è semplicemente uno strumento per comunicare, ma una forza creativa e sensoriale. Le sue poesie sfruttano appieno il potenziale sonoro delle parole, spesso spingendole ai limiti del loro significato convenzionale. Le allitterazioni e le assonanze creano ritmi ipnotici, mentre l’uso di parole rare o inventate conferisce al testo un’aura arcana e magica. La frammentazione e la ricomposizione semantica generano un effetto di sorpresa e meraviglia. Un esempio lampante è Do Not Go Gentle into That Good Night, in cui la ripetizione del verso “Rage, rage against the dying of the light” non solo rafforza il tema della resistenza, ma trasforma il testo in un mantra ritmico, un lamento universale contro la morte.
Thomas era ossessionato dal ciclo della vita e dalla condizione umana, temi che emergono continuamente nella sua opera. La morte, però, non è mai vista come una fine definitiva, ma come parte di un ciclo naturale e cosmico. In And Death Shall Have No Dominion, celebra l’indistruttibilità dello spirito umano, facendo eco alla Bibbia e ai miti antichi. In Fern Hill, l’infanzia è descritta con una nostalgia lirica, come un Eden perduto, e il poeta riflette sul passaggio del tempo tessendo la gioia del ricordo con la consapevolezza della mortalità. Thomas riconosce il ruolo dell’uomo all’interno di un cosmo infinito e misterioso, dove la natura è al contempo madre e matrigna.
La natura è centrale nella poetica di Thomas, ma non come semplice sfondo: diventa un simbolo potente e stratificato, specchio della condizione umana. La sua rappresentazione della natura non è mai statica; invece, riflette un dinamismo costante, un eterno divenire. In The Force That Through the Green Fuse Drives the Flower, la forza vitale che fa sbocciare i fiori è la stessa che guida l’uomo verso la morte, unendoli in un destino comune. La natura, in Thomas, è spesso mitizzata, trasformata in un’arena in cui vita e morte si incontrano e si scontrano, rivelando verità universali.
La poesia di Thomas si nutre di archetipi e simboli che attingono a una dimensione mitica e spirituale. Sebbene non apertamente religioso, Thomas adotta immagini bibliche e liturgiche per sondare i misteri dell’esistenza. In molte sue poesie, il linguaggio si carica di una sacralità che ricorda i salmi e i canti antichi. In And Death Shall Have No Dominion, ad esempio, il richiamo all’immortalità dello spirito umano non è soltanto un tema esistenziale, ma una celebrazione quasi liturgica dell’eternità.

Pur non essendo formalmente legato al surrealismo, Dylan Thomas condivide con esso l’interesse per l’inconscio e la logica onirica. I suoi versi seguono spesso un flusso di associazioni libere, che rompe le convenzioni razionali per accedere a significati più profondi e simbolici. In Altarwise by Owl-Light, la densità del linguaggio e delle immagini crea un’atmosfera enigmatica che richiama un sogno. Qui il poeta invita il lettore a navigare in un mondo interiore complesso e stratificato, dove ogni parola può avere molteplici interpretazioni.
Dylan Thomas si colloca al crocevia tra tradizione e sperimentazione. Pur essendo influenzato da poeti romantici come William Blake, John Keats e Gerard Manley Hopkins, la sua opera si distingue per una modernità audace, che sovverte le forme poetiche tradizionali. Come i romantici, Thomas enfatizza il potere dell’immaginazione e l’importanza dell’individualità. La sua poesia è spesso autobiografica, un’esplorazione del proprio io. Allo stesso tempo, adotta tecniche moderniste, come la frammentazione e il simbolismo denso, rendendo le sue opere accessibili su più livelli interpretativi. Tuttavia, ha sempre evitato di identificarsi pienamente con un movimento o un’ideologia letteraria, mantenendo una poesia profondamente personale e libera da schemi rigidi.
La qualità musicale della sua poesia è una delle sue caratteristiche più distintive. Le sue poesie spesso funzionano come composizioni musicali, dove ritmo, suono e significato lavorano insieme per creare un’esperienza unica. La struttura di molte di queste è volutamente ripetitiva, come nel caso di Do Not Go Gentle into That Good Night, dove la forma del villanelle rafforza il tema dell’insistenza e della lotta. Il poeta crea effetti sorprendenti intrecciando rime interne e giochi di suoni, che intensificano l’impatto emotivo del testo.
La poetica di Thomas si distingue per la sua capacità di trasformare la parola in un’esperienza totale. Con un linguaggio lirico e musicale, egli tratta i temi eterni della vita e della morte, del tempo e della natura, in una prospettiva che unisce il personale al cosmico. Le sue poesie sono viaggi nell’interiorità umana e nella vastità dell’universo, testimonianze di una creatività senza compromessi. Thomas ha lasciato un’eredità duratura, non solo come poeta ma come creatore di un universo poetico unico, in cui ogni verso è al tempo stesso una celebrazione della vita e una riflessione sull’eternità. La sua opera continua a risuonare come un canto universale, capace di toccare corde profonde in chiunque lo legga.

 

 

 

 

Giambattista Marino: il principe del Barocco

 

 

 

 

Il principe dei poeti del Seicento, il vero re del secolo, l’uomo che diede l’impronta all’intera stagione poetica barocca, nacque a Napoli il 14 ottobre 1569. Trascorse l’infanzia felice nella sua città, frequentando ambienti intellettuali e culturalmente molto stimolanti. Sin da ragazzino, amò così tanto le lettere che al momento di cominciare a pensare seriamente al futuro litigò col padre, che lo avrebbe voluto uomo di legge, se andò via da casa e visse spensieratamente la sua passione. Era al servizio di Matteo di Capua, principe di Conca, quando capì che la vita di corte sarebbe stata l’unica a potergli garantire tutto quello che voleva: successo, soldi e belle donne. Per ottenere ciò, non esitò ad usare mezzi non sempre legali: Frans_Pourbus_the_Younger_-_Portrait_of_Giovanni_Battista_Marinofu, infatti, incarcerato due volte, la prima, per aver sedotto una minorenne, costringendola all’aborto, e la seconda, per aver falsificato alcune bolle vescovili. Influenti protettori, comunque, gli garantirono sempre i salvacondotto per uscire di galera. Di corte in corte, a Torino, nel palazzo di Carlo Emanuele I di Savoia, per entrare nelle grazie del duca e cercare di stabilirvisi, vitto e alloggio spesati, scrisse un Ritratto del serenissimo Don Carlo Emanuello duca di Savoia, che gli valse la nomina a Cavaliere dei Santi Maurizio e Lazzaro, un’onorificenza importantissima la quale, però, fece morire d’invidia il poeta di corte Gaspare Murtola che addirittura tentò, senza riuscirci, di ammazzarlo. Marino, invece del coltello, per rispondere, usò la poesia, componendo la Murtoleide, una raccolta di sonetti dove lo combinò proprio male. Visse diversi anni dai Savoia, non sempre idillicamente, a causa della sua disinvoltura nel comporre versi, che spesso facevano infuriare i cortigiani e i suoi benefattori. La sua fama, intanto, cresceva giorno dopo giorno, così che, nel 1615, la Carla Bruni Sarkozy dell’epoca, ovvero Maria de’ Medici, non perché fosse modella e cantante, quanto piuttosto moglie del re di Francia Enrico IV, lo chiamò a palazzo come poeta di corte. A Parigi, il cavalier Marino se la spassò alla grande: col ricco stipendio di cortigiano versatogli dalla regina poté vivere come un nababbo, collezionando quadri, opere d’arte e la biancheria intima delle dame che passavano per la sua camera da letto. Scrisse molto in questo periodo, pubblicando quasi tutte le sue opere e una sontuosa edizione dell’Adone, il suo maggiore poema, tutto a spese del re Luigi XIII, il figlio di Maria. Qualche tempo dopo, però, le cose cominciarono a cambiare anche a Parigi. Decise, così, di tornare nella sua Napoli, dove fu accolto come un trionfatore, più di Fabio Cannavaro dopo la vittoria ai Mondiali di calcio del 2006. Turbato oltremodo dalle rotture di scatole dell’autorità ecclesiastica, riguardo la lussuria e le sconcezze contenute nell’Adone, morì all’ombra del Vesuvio il 25 Marzo 1625.

Le opere

Marino pubblicò la sua prima raccolta poetica nel 1602, intitolandola Rime, e, poi, ampliandola, per un totale di circa 900 componimenti, dati alle stampe dodici anni dopo, col titolo La Lira. Vi sono inclusi sonetti di vari argomenti: amorosi, sacri, encomiastici, boscherecci, marittimi, lugubri ed eroici.

“Or che da te, mio bene,
Amor lunge mi tiene, il pensier vago
spesso innanzi mi pon l’amata imago.
E qual ape ingegnosa,
quindi un giglio talor, quinci una rosa
scegliendo a suo diletto,
rappresentar mi sole
ne le più belle forme il caro oggetto;
e spesso mostra al cor, ch’egro si dole,
la tua beltà nel Ciel, gli occhi nel Sole”.

(Nel medesimo suggetto, 11)

“È sogno o ver? Se sogno, ahi, chi depinge
viva la bella imagine ala mente?
Come fiamma sì lucida e sì ardente
gelid’ombra notturna esprime e finge?”

(Sogno, vv. 1 – 4)

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Con La Sampogna, crestomazia divisa in due parti, otto idilli favolosi e quattro pastorali, Marino si confrontò con i miti greci e i drammi pastorali. Ne viene fuori un paesaggio silvano e bucolico arricchito dal prezioso linguaggio poetico dell’Autore.

“Seguillo il pin robusto,
carco di duri e noderosi scogli,
che per cercar de la perduta figlia
a la feconda dea prestò le faci;
seco condusse la compagna quercia,
arbore a Giove cara, e de le ghiande
(cibo de’ primi eroi) madre ferace”.

(La Sampogna, Idilli favolosi, Orfeo, vv. 762 – 768)

La Galeria, invece, sempre nello stile meraviglioso ed emozionante del poeta, è una raccolta di componimenti dedicati alla descrizione di opere d’arte, pitture e sculture, reali o immaginarie. Cosa fu Marino se non un pittore di parole e concetti? La sua poesia si avvale delle pennellate del prezioso e del ricercato, del sublime e dell’immaginifico, del viaggio della mente (con o senza sostanze illegali!).

L’Adone

Adone, scampato ad una terribile tempesta, approda sull’isola di Cipro, dove la dea Venere ha il suo bel palazzo. Cupido scocca una freccia e fa innamorare la madre del principe che, svegliatosi, viene pure lui colpito da un dardo, ricambiando, così, l’amore di Venere. imagesAdone, tutto innamorato della bella Cipride, ascolta Cupido e Mercurio mentre gli raccontano storie d’amore e viene poi accompagnato nel Giardino del Piacere, diviso in cinque parti, ognuna corrispondente ad uno dei cinque sensi, e alla fontana di Apollo. Marte, avvertito da Gelosia che Venere ama qualcun altro, corre a Cipro. Adone, avvertito in tempo, scappa e viene trasformato in un pappagallo per aver rifiutato l’amore di Venere. Mercurio, però gli fa riprendere il suo vero aspetto e, dalla padella alla brace, viene sequestrato da una banda di ladroni. Tornato a Cipro, dopo aver vinto una gara di bellezza, è incoronato re dell’isola e si riavvinghia a Venere ma Marte, durante una battuta di caccia, lo fa uccidere da un cinghiale. Adone muore fra le braccia di Venere, che trasforma il suo cuore in un fiore rosso, l’anemone. Solenni giochi funebri sono allestiti per onorare il bel giovane. Quest’opera è tra le più lunghe di tutta la Letteratura Italiana: 5.033 ottave, per un totale di 40.264 versi, distribuiti in venti canti. L’Adone è un poema sostanzialmente antinarrativo perché l’esile trama è soltanto il ponteggio adottato dell’Autore per edificare il suo castello di metafore e concetti, che tanta parte avevano nella poetica della meraviglia barocca. Marino dovette dare fondo a tutta la sua potenza immaginifica per costruire un’opera nella quale non è difficile perdersi, appunto perché manca il filo di Arianna, rappresentato dalla narrazione lineare degli eventi. Esso è un poema per immagini, come una galleria d’arte, dove sono esposti i quadri più splendidi e differenti. Descrittività, mito, citazioni, altissima ritmicità metrica e lirica, ne sono componenti fondamentali.

 

 

 

 

I Canti di Giacomo Leopardi

 

 

 

Per anni, ho tenuto questa sublime raccolta poetica sul comodino accanto al mio letto, leggendone, ogni sera, qualche verso, prima di addormentarmi. tumblr_mibi5ajPwA1s2cwoio1_1280In copertina dell’edizione che posseggo, vi è raffigurato un particolare del quadro di Giuseppe Pietro Bagetti, Notturno con effetto di luna (immagine a destra), bellissimo. È stato il libro che in assoluto ho regalato di più, ovviamente, alle donne. Tutte quelle che, finora, sono state importanti per me, ne hanno una copia, con la mia dedica in prima pagina. Ad ogni modo, comunque, nulla di meglio degli stessi versi di Leopardi potrebbero dare spiegazione di se stessi, ma, se riportassi qui di seguito, verso dopo verso, tutti i componimenti inclusi nei Canti, commetterei un plagio maldestro, nonostante non debba diritti d’autore a nessuno. Il rimando al testo leopardiano, qui, è d’obbligo, altrimenti, qualsiasi mio sforzo sarebbe inutile. Quindi, consiglio vivamente, una volta terminata la lettura di questo articolo, di giacomo-leopardi-ragazzoaprire una qualsiasi edizione dei Canti, oppure, di digitare Canti in un qualsiasi motore di ricerca su internet, e leggere. Solo così, l’arte del grandissimo Giacomo Leopardi (immagine a sinistra) potrà far breccia nei cuori dei lettori. Ciò, tuttavia, non mi esenta dal compito di raccontarne i tempi della composizione, i temi e tutte quelle altre utili notizie che possano essere preparatorie alla lettura vera e propria. Bene, i testi poetici contenuti in questa cassaforte di preziosi preziosissimi furono composti dall’autore lungo quasi tutta la sua vita e pubblicati man mano, prima di finire nelle due principali edizioni dei Canti, del 1831 e del 1835. Il tramonto della luna e La ginestra, invece, furono aggiunti nella definitiva edizione postuma del 1845. Ora, se qualcuno mi chiedesse: “Di cosa parla l’Infinito?”. Io risponderei: “Questo idillio è una proiezione della mente dell’autore, una mente infinita, a beautiful mind, direbbero gli americani. Solo, sul colle dell’Infinito, non lontano da casa, a Recanati, al poeta non è possibile ammirare il panorama, a causa della siepe che da tanta parte de l’ultimo orizzonte il guardo esclude (vv. 2-3). E, allora, lui immagina, con la sua mente percorre l’infinità dello spazio e del tempo, l’eternità, e, per una volta felice, il naufragar gli è dolce in questo mare. “E il Bruto minore?”. “Questa canzone ha un significato molto profondo. Bruto, uno degli assassini di Cesare, è a Filippi, sul campo di battaglia, dove, insieme con Cassio, è stato sconfitto da Antonio. L’uomo, assassinando Cesare il dittatore, in cuor suo sa di aver agito per difendere la Repubblica e la libertà di Roma e, per questo, non è soltanto la sconfitta in battaglia a rattristarlo, quanto piuttosto il fatto che il suo gesto e il suo amore per la libertà non siano stati compresi. cetraCosì, si uccide, sicuro di non essere ricordato da nessuno”. “E’ vero che L’ultimo canto di Saffo tratta un tema simile al Bruto minore?”. “In un certo senso sì. La poetessa Saffo (immagine a destra) è innamorata di Faone, che la respinge, perché, nonostante sia molto colta e compita, non è bella. La Natura maligna ha fatto sì che gli uomini preferissero la bellezza del corpo alle virtù dell’intelletto e, nell’impossibilità di trovare un senso a queste cose, Saffo si uccide”. “Quali sono gli argomenti della canzone Alla Primavera o delle favole antiche?”. “Beh, il riferimento a questa stagione, simbolo della natura che ogni anno si rinnova, è inteso dal poeta in contrapposizione alla primavera della storia, vale a dire a quell’età originaria in cui gli uomini vivevano in armonia con la Natura avvertendone, grazie alla forte potenza immaginativa di cui erano dotati, aspetti nascosti e spirituali in ogni sua creatura. Purtroppo, però, a causa dell’evoluzione delle civiltà, essi hanno perso tutto ciò, conoscendo il vero delle cose, ovvero la tristezza e l’infelicità.” “Chi era Silvia e che cosa fece per meritarsi la splendida canzone a lei dedicata?”. “Silvia, in realtà, si chiamava Teresa Fattorini ed era figlia del cocchiere di casa Leopardi. Non è facile stabilire se il poeta ne fosse stato innamorato, tanto da dedicarle questa lirica. In essa, infatti, il rapporto tra i due giovani si risolve in un altro modo: dal balcone di casa sua, Giacomo sente Silvia cantare la speranza nel domani. Insieme, sognano l’avvenire, quell’avvenire che, giunto, vedrà la fanciulla morta nel fiore degli anni, così come tutte le speranze in essa riposte”. “E su La quiete dopo la tempesta?”. “I temi di questa canzone, il cui titolo è diventato anche un comune modo di dire, sono riconducibili ai concetti di piacere e dolore nel pensiero di Leopardi. Passata una tempesta, la vita riprende con una certa gioia, si riguadagnano le consuete attività. Questo piacere però, è effimero e momentaneo. E’ soltanto una piccola interruzione del dolore, rappresentato dalla tempesta. La vita continua, inesorabilmente dolorosa ed infelice, aspettando solo di aver fine con la morte”. “I contenuti de La quiete dopo la tempesta sono simili a quelli de Il sabato del villaggio?”. 365196-800x535-500x334“Sì. La felicità di poter avere l’indomani, una giornata di riposo, è presto annullata dal pensiero che, comunque, tutto tornerà com’è, passato quel giorno festivo. Il piacere dura un momento, non di più”. “La ginestra o il fiore del deserto è tra le ultime composizioni dell’autore: vi è concentrato il suo pensiero? Rappresenta, quindi, una sorta di testamento spirituale?”. “Decisamente  sì.  Fu  scritta  proprio con  questo intento. Da Torre del Greco, Leopardi poteva ammirare quotidianamente il Vesuvio, sulle cui pendici spoglie e riarse crescevano soltanto ginestre. Queste piante, nella simbologia leopardiana, rappresentano l’uomo: esse resistono alla furia del Vesuvio – Natura, ricrescono sulla lava pietrificata, nonostante le continue eruzioni. È contro la Natura crudele che gli uomini devono combattere, non contro loro stessi. Anzi, unendosi, essi possono affrontare insieme i dolori della propria condizione”. Credo che a questo punto l’interrogazione sia finita. Chissà che voto mi darebbe il mio professore di Letteratura Italiana Guido Arbizzoni, semmai leggesse questo articolo. Un altro 30 e lode? Forse. Magari, un giorno, glielo mando.

L’abbraccio del canto

Casella e la melodia del ricordo eterno

 

 

 

Casella, il musico fiorentino amico di Dante, appare nel Canto II del Purgatorio della Divina Commedia. La sua figura, avvolta da un’aura di dolcezza e nostalgia, incarna una delle più toccanti rappresentazioni dell’amicizia e dell’arte nella Commedia. Il sua comparizione è breve, ma carica di significato simbolico ed emotivo.
Dante e Casella si incontrano sulla spiaggia del Purgatorio, in un momento sospeso tra il ricordo della vita terrena e l’attesa della purificazione. Casella compare come un’anima gentile, capace di riportare a Dante un conforto antico attraverso la musica. Quando il sommo poeta lo riconosce, il tono del suo discorso si colora subito di affetto e malinconia. Le prime parole di Dante rivolte all’amico sono piene di calore e desiderio di risentire quella musica che un tempo gli aveva offerto tanto sollievo:

E io: “Se nuova legge non ti toglie
memoria o uso a l’amoroso canto
che mi solea quetar tutte mie doglie,
di ciò ti piaccia consolare alquanto
l’anima mia, che, con la sua persona
venendo qui, è affannata tanto!”.
(Purg. II, vv. 106-111)

In questi versi si percepisce il desiderio di Dante di trovare un momento di tregua dalle fatiche del viaggio, attraverso una consolazione che solo l’arte di Casella gli può offrire. La musica diventa qui un balsamo per l’anima affaticata, un ricordo dei tempi passati, quando l’amicizia e l’arte condividevano lo stesso respiro.

Casella, con la sua risposta affettuosa, non si sottrae alla richiesta dell’amico. Il canto che intona è una canzone, Amor che ne la mente mi ragiona, realmente composta da Dante e inclusa nel Convivio. La sua voce, sulla spiaggia del Purgatorio, sembra sospendere il tempo, creando un momento di perfetta armonia tra il mondo terreno e quello ultraterreno. La scena si carica di una bellezza malinconica, poiché i due amici, per un attimo, rivivono i giorni della vita passata.
Ma questa tregua dura solo un istante. Quando Casella inizia a cantare, tutte le anime presenti si fermano, incantate dalla dolcezza della melodia. Questo idillio viene bruscamente interrotto da Catone, che li richiama all’ordine, ricordando loro che non è tempo di indulgenza, ma di redenzione. Il suo ammonimento è severo:

Che è ciò, spiriti lenti?
Qual negligenza, quale stare è questo?
Correte al monte a spogliarvi lo scoglio
ch’esser non lascia a voi Dio manifesto.
(Purg. II, vv. 120-123)

Il richiamo di Catone segna la fine del momento di contemplazione e ci riporta alla realtà del cammino che Dante deve intraprendere. La figura di Casella, che per un attimo aveva riportato il poeta ai giorni della giovinezza, scompare tra le altre anime. Eppure, il ricordo di questo incontro resta potente, come un’eco lontana, un segno di quanto l’arte e l’amicizia possano elevare l’anima anche nei momenti più difficili.
Casella diventa così simbolo di una dolcezza che il Purgatorio stesso permette, pur nella sua tensione verso la purificazione. In lui, Dante riconosce il potere dell’arte di trasportare l’anima oltre il tempo e lo spazio, rendendola capace di avvicinarsi, almeno per un istante, a quell’armonia divina che solo alla fine del cammino potrà essere raggiunta.
In questa breve apparizione, Casella incarna l’elegia della memoria, dell’amicizia e dell’arte, capace di risvegliare in Dante l’umana nostalgia, ma anche di ricordargli che il cammino verso la salvezza non può arrestarsi per troppo tempo nella dolcezza del ricordo.

 

 

 

Lectura Dantis: INFERNO

 

 

 

Sin dai decenni immediatamente successivi alla morte di Dante cominciarono a tenersi pubbliche letture dei suoi versi, sovente accompagnate da interventi analitici di commentatori. Tra i primi, Giovanni Boccaccio, nel 1373, a Firenze. La grandezza e l’immutato fascino dell’opera di Dante si aprono, oggi, alla tecnologia, pur nella secolare tradizione della lectura espressiva e della lectura esegetica. Questo è lo spirito che anima la  realizzazione di Riccardo Piroddi. Immagini, musiche, effetti sonori e gli stessi versi danteschi, magistralmente interpretati dalla potente voce recitante di Giulio Iaccarino, danno vita ad alcuni tra i più celebri personaggi dell’Inferno, prima cantica del Divino Poema (Paolo e FrancescaFarinata degli Uberti, Pier delle VigneUgolino della Gherardesca e altri).

 

Lectura Dantis: INFERNO. I Personaggi”

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La notte e i notturni nella letteratura e nella musica

 

 

di Carmela Puntillo

 

 

La notte è uno dei temi più ricorrenti nella letteratura e nella musica: ne hanno subito il fascino sia la prosa che la poesia (che hanno dato parole ai suoi paesaggi interiori), sia le composizioni di musicisti rinomati dall’Ottocento ai giorni nostri. Questi autori hanno descritto gli aspetti, le caratteristiche che le sono proprie ed i sentimenti che essa suscita…

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Sfumature di pallido

Musica e poesia in A Whiter Shade of Pale

 

 

Un commento critico

 

 

A Whiter Shade of Pale è una delle canzoni più iconiche degli anni ‘60 e rappresenta un perfetto esempio di come la musica pop rock possa fondersi con la musica classica e la poesia, creando un’opera unica e senza tempo. Pubblicata nel 1967 dai Procol Harum, è nota per il suo suono organistico e per il testo enigmatico, che ha ispirato interpretazioni diverse nel corso degli anni.
L’aspetto più distintivo di A Whiter Shade of Pale è l’uso dell’organo Hammond, suonato da Matthew Fisher, che domina l’introduzione e gran parte della canzone. Questa melodia ricorda chiaramente Bach, in particolare il suo Oratorio di Natale e il Preludio n. 1 in Do maggiore dal Clavicembalo ben temperato. Tuttavia, Fisher ha spesso dichiarato che l’intenzione non era quella di copiare direttamente il grande compositore tedesco, ma di ispirarsi alla sua struttura armonica per creare un sound sofisticato e classico.
La progressione degli accordi della canzone segue un ciclo che richiama le composizioni barocche, creando un’atmosfera solenne e, al tempo stesso, nostalgica. L’uso dell’organo è accompagnato da un arrangiamento strumentale minimale, che lascia spazio alle note delicate e all’effetto ipnotico del brano. Questo tipo di approccio compositivo ha segnato una delle prime fusioni tra rock e musica classica, una tendenza che sarebbe poi cresciuta durante gli anni ‘70 con il progressive rock.
Dal punto di vista strumentale, uno degli elementi chiave della canzone è la semplicità e l’efficacia dell’arrangiamento. L’organo Hammond B3 è lo strumento principale e Fisher lo suona in modo magistrale. La melodia si basa su accordi ampi, con l’uso di riverbero e sustain per creare un effetto maestoso e quasi liturgico. Anche la linea di basso (David Knights), gioca un ruolo importante, fornendo una struttura armonica stabile su cui poggia l’intero brano. La chitarra elettrica (Robin Trower), pur non essendo centrale, appare discretamente a tratti, offrendo un’ulteriore texture sonora, mentre la batteria di B.J. Wilson resta quasi sommessa, accompagnando senza dominare. Questo minimalismo strumentale contribuisce all’atmosfera sospesa e onirica della canzone. E, poi, la voce di Gary Brooker, che si distingue per il suo timbro caldo e profondo, conferendo alla canzone un senso di solennità, sposandosi perfettamente con il suono dell’organo Hammond e con l’influenza classica della melodia. L’uso di dinamiche sottili, crescendo e diminuendo in determinati punti della canzone, sottolinea i momenti di tensione emotiva e rende ogni frase più carica di significato. Ad esempio, nel verso Her face, at first just ghostly, Brooker pronuncia le parole con delicatezza, per poi crescere d’intensità su turned a whiter shade of pale, creando, così, un effetto narrativo che accompagna l’evoluzione del testo. La voce di Brooker è uno strumento perfetto per mantenere l’equilibrio tra il lirismo del testo e il mistero che lo avvolge. Nonostante il testo di Keith Reid sia complesso e aperto a diverse interpretazioni, Brooker lo canta in modo naturale e credibile, senza forzare spiegazioni o emozioni. Questo lascia spazio all’ascoltatore per interpretare la canzone a livello personale, senza che la voce guidi troppo pesantemente in una direzione.


Uno degli aspetti più discussi di A Whiter Shade of Pale è proprio il suo testo, che risulta profondamente simbolico e aperto a diverse interpretazioni. Alcuni lo hanno visto come un riferimento alla cultura psichedelica degli anni ‘60, mentre altri vi leggono un’allegoria di esperienze esistenziali o spirituali.
We skipped the light fandango
Il brano si apre con questo verso, che introduce immediatamente un senso di movimento caotico e surreale. Il fandango è una danza vivace spagnola, e skipped the light fandango potrebbe suggerire un ballo frenetico, un’esperienza disorientante o un passaggio oltre i limiti della realtà. Alcuni lo vedono come una metafora per una serata selvaggia o un viaggio psichedelico, tipico della cultura degli anni ‘60. Il verbo skipped (saltammo) potrebbe indicare una deviazione dai comportamenti normali, un tentativo di evadere la realtà o una fuga mentale.
Turning cartwheels ‘cross the floor
Questo verso rafforza l’immagine di un ambiente scomposto e caotico. Le capriole (cartwheels) evocano l’idea di movimento incontrollato, forse legato a uno stato di confusione mentale. Questa scena potrebbe essere intesa come la rappresentazione di un’esperienza psichedelica, in cui la percezione della realtà si distorce, o come un’allegoria di una situazione in cui il narratore sente che il mondo attorno a lui è fuori controllo.
The room was humming harder
Il “ronzio” nella stanza suggerisce una crescente tensione o ansia, come se il mondo esterno stesse diventando sempre più opprimente. Ciò può essere interpretato in vari modi: come una sensazione fisica e mentale di perdita di controllo (ancora una volta, collegata all’esperienza psichedelica) oppure come un simbolo di disagio emotivo e confusione.
As the miller told his tale
Questo riferimento a un mugnaio che racconta una storia è uno dei passaggi più enigmatici del testo. La figura del mugnaio potrebbe essere un riferimento letterario o simbolico. Alcuni critici lo collegano alla poesia The Miller’s Tale dai Racconti di Canterbury di Geoffrey Chaucer, che tratta di inganno e amore illecito. Tuttavia, Reid ha dichiarato che non c’era un intento specifico di rifarsi a Chaucer. Potrebbe, quindi, trattarsi di una figura archetipica, un narratore che introduce un senso di fatalismo o di ciclicità nella vita, come il mugnaio che macina continuamente il grano.
Her face, at first just ghostly, turned a whiter shade of pale
Questa è forse la frase più famosa e discussa della canzone. Il “viso spettrale” che diventa ancora più pallido richiama un’immagine di malattia, morte o shock emotivo. Il pallore potrebbe simboleggiare una perdita: di innocenza, di amore, di speranza o, persino, della vita stessa. Alcuni hanno interpretato questo come un riferimento a una relazione che si sta spegnendo, dove l’amore un tempo vibrante diventa sempre più distante e insipido.
One of sixteen vestal virgins who were leaving for the coast
Il riferimento alle “sedici vestali” introduce un’immagine classica. Le vestali erano sacerdotesse nell’antica Roma, votate alla castità e incaricate di mantenere il fuoco sacro acceso. Il fatto che “stiano partendo per la costa” può essere visto come un abbandono del loro dovere o un allontanamento dai loro princìpi sacri e potrebbe simboleggiare una perdita di purezza, di dedizione o di scopo. Alcuni hanno ipotizzato che le vestali rappresentino un gruppo di persone in cerca di una nuova direzione spirituale o esistenziale, mentre coast (costa) potrebbe alludere a una transizione o a un viaggio verso l’ignoto.
Il tema centrale di A Whiter Shade of Pale sembra comunque essere quello della perdita. Che si tratti di una perdita emotiva (come la fine di una relazione), spirituale (la ricerca di un significato più profondo nella vita) o psicologica (la perdita di contatto con la realtà), il testo suggerisce uno stato di disorientamento e di riflessione interiore.
L’alienazione è un altro tema importante. Le immagini di persone che ballano capriole attraverso la stanza o di vestali che abbandonano il loro compito tradizionale evocano un senso di estraniamento dal mondo e dalle norme consuete. Il narratore sembra essere un osservatore passivo, incapace di fermare il declino che vede intorno a sé.
Infine, c’è un elemento di trascendenza. Molte interpretazioni vedono nel pallore crescente e nell’atmosfera surreale della canzone un tentativo di superare i limiti della realtà materiale. In questo contesto, la canzone potrebbe essere letta come un viaggio verso una forma di realizzazione spirituale o di accettazione dell’inevitabile.
Un’altra interpretazione comune è che il testo sia un’allegoria di una relazione amorosa in crisi. L’amore iniziale, rappresentato dal ballo e dall’energia dei primi versi, si spegne gradualmente, come indicato dal pallore crescente e dal tono sempre più malinconico del testo. La “vestale” potrebbe rappresentare la donna amata, che si allontana (partendo per la costa), mentre il narratore si sente impotente di fronte a questo cambiamento.
Non si può ignorare il fatto che A Whiter Shade of Pale sia stata scritta, come detto, durante l’epoca della controcultura e della sperimentazione psichedelica. Molti vedono nel testo un riferimento a esperienze con sostanze psichedeliche, con le immagini surreali e i cambiamenti di prospettiva tipici di quel tipo di esperienza. Versi come the room was humming harder e turned a whiter shade of pale potrebbero quindi facilmente adattarsi alla descrizione di un viaggio lisergico.
In definitiva, il testo di A Whiter Shade of Pale è un mosaico di immagini poetiche e simboli, che lascia spazio a una vasta gamma di interpretazioni. Che si tratti di una riflessione sulla perdita dell’innocenza, di una metafora di una relazione fallita o di un commento sull’alienazione moderna, la canzone rimane un enigma affascinante. Il suo linguaggio ricco e allusivo ha contribuito a renderla un classico senza tempo, permettendo agli ascoltatori di trovarvi significati personali e di rivisitarla continuamente con nuove prospettive.

Ascolta la canzone

 

 

 

 

 

Rustico Filippi e la poesia comica (da morire dal ridere)

 

di

Riccardo Piroddi

 

 

Rustico Filippi visse a Firenze tra il 1230 e la fine del secolo. Come i compagni poeti, gli stilnovisti, scrisse qualche poesia per celebrare la sua donna. Ebbe, tuttavia, maggiore fama di diffamatore del gentil sesso, sempre con intenti comici, però. Quando prendeva di mira qualcuno e gli dedicava i suoi versi, chi li ascoltava andava per terra dal ridere, dimenandosi come un indemoniato, tranne, ovviamente, gli interessati.carta_della_catena_showing_pa__br_hi Si diceva che durante i consigli comunali, a Firenze, l’opposizione inserisse qualche suo verso nell’ordine del giorno, in modo che i consiglieri di maggioranza abbandonassero la sala consiliare per andare a ridere nei corridoi attigui e, mancando il numero legale, non si approvassero i provvedimenti sgraditi alla minoranza. Per i vicoli e le strade della città, per il Lungarno o per i sestieri cittadini, ragazze magre e brutte, donne che non si potevano guardare manco a farsi pagare, rutti e scoregge, gente vanagloriosa e ingenua, uomini che pensavano solo a dove poterlo infilare, pernacchie e sberleffi, venivano catturati nelle sue rime. Quando il sonetto era confezionato non ce n’era per nessuno. Sentite un po’ qualche verso:

Ovunque vai, conteco porti il cesso
oi buggeressa vecchia puzzolente,
che quale – unque persona ti sta presso
si tura il naso e fugge inmantenente.

(Ovunque vai, con teco porti il cesso, vv. 1-4)

A confronto con questa vecchia, una discarica abusiva sarebbe un laboratorio per la distillazione di profumi.

Oi dolce mio marito Aldobrandino,
rimanda ormai il farso suo a Pilletto,
ch’egli è tanto cortese fante e fino
che creder non déi ciò che te n’è detto. […]

Nel nostro letto già mai non si spoglia.
Tu non dovéi gridare, anzi tacere:
ch’a me non fece cosa ond’io mi doglia.

(Oi dolce mio marito Aldobrandino, vv. 1-4 e 12-14)

Il buon Aldobrandino farebbe bene a controllare più spesso la bella e giovane mogliettina.

Lingerie Medievale 02

Ne la stia mi par esser col leone,
quando a Lutier son presso ad un migliaio,
ch’e’ pute più che ‘nfermo uom di pregione
o che nessun carname o che carnaio […]                                       
ed escegli di sopra un tal sudore,
che par veleno ed olio mescolato:
la rogna compie, s’ha mancanza fiore.

(Ne la stia mi par essere col leone, vv. 1-4 e 12-14)

Quasi certamente, a casa di Lutier devono aver staccato l’acqua corrente da qualche mese.

Se tu sia lieto di madonna Tana,
Azzuccio, dimmi s’io vertà ti dico;
e se tu no la veggi ancor puttana,
non ci guardar parente ned amico:
ch’io metto la sentenza in tua man piana,
e di neiente no la contradico,
perch’io son certo la darai certana;
non ne darei de l’altra parte un fico
.

(Se tu sia lieto di madonna Tana, vv. 1-8)

Azzuccio, chiedi alla tua donna che perlomeno si faccia pagare!

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I cittadini “celebrati” nelle sue poesie erano facilmente riconoscibili da chi ne leggeva o ne udiva le “gesta” e si incazzavano così tanto che l’autore, di sicuro, avrà avuto, da questi, più di un “paliatone”. Il realismo poetico di Rustico è straordinario. I suoi sonetti, seppure sub specie della comicità, sono l’effettiva rappresentazione di una società in cui dilagavano corruzione, vizi carnali e scarsissima, se non inesistente, igiene personale.