Quando apri i tuoi occhi vedo la vita che vorrei. Sono brivido che mi solca l’anima e si riflette nel mio respiro esploso. Desiderio di ogni tua carezza mai avuta, vento che mi riporta il profumo del mare e il mio sorriso annegatovi. Il sentiero della tua armonia, tracciato con la mia passione, scorre lento e fragoroso, trascinandomi, senza scampo, a te.
Nessuno m’ha mai detto che avrei incontrato una donna più bella del fiore più bello del giardino più bello. Ed io l’ho incontrata. Nessuno m’ha mai detto che avrei visto nei suoi occhi il colore con cui son dipinti i sogni incantevoli. Vi guardo attraverso. Nessuno m’ha mai detto che avrei udito dalla sua bocca suoni più dolci di quelli del coro degli angeli. Son rimasto rapito. Nessuno m’ha mai detto che avrei sfiorato le sue mani, leggere come la brezza che spira nelle notti stellate. Io le ho toccate. Nessuno m’ha mai detto che avrei potuto misurare nel suo corpo, le compiute corrispondenze dell’Universo. Eppure l’ho fatto. Nessuno m’ha mai detto che la sua mente sia pura come una sposa illibata il giorno del suo giuramento. Ne ho percepito l’essenza. Nessuno m’ha mai detto che il suo cuore sia un mare smeraldo dove è dolce annegarvi. Ho voluto provare. Nessuno m’ha mai detto che lei possa accendere il desiderio che alligna i miei giorni. Mi sta consumando! Nessuno m’ha mai detto che lei sia capace di rendere nulla il mondo in cui sola, esiste. È diventata il mio tutto. Qualcuno m’ha detto che è stato l’amore. Ma io non credo a questa bugia. L’amore è un fantasma. Lei, invece, il suo corpo.
No. Non imprigionarmi ancora nel tuo sorriso. Mi richiuderesti in una gabbia di sale che brucerà la mia carne. Sciogli i lacci che mi stringono legandomi al ricordo dei tuoi occhi di velluto. Lasciami farneticare malfermo e libero, sì, libero, e io ti spoglierò dell’ordinario, rivestendoti con gli abiti folli della mia poesia.
Tre ‘ccose so’ rimaste d’ ‘o paraviso, dicette ‘o poeta a tutto: ‘e stelle, ‘e sciure e ‘e criature. Pe’ ‘mme, ca nun songo tanto gruosso comme a isso, ‘sti tre ‘ccose songo ‘e stelle, ‘e sciure e tu. ‘E stelle ‘e tiene dinto a chisti uocchie ca ancora me guardano. ‘E sciure ‘e tiene ‘mmocca e cacciano l’addore quanno me parli. E po’ ‘nce stai tu ca si’ stella, sciore, criatura e paraviso. ‘Na vita senza e te me facesse ferni’ ‘nto ‘nfierno e si pure accussì fosse m’abbastasse ‘e cade’ ‘nterra acciso pe turna’ subbeto addu te, ‘nto paraviso.
Perchè i celesti danni ristori il sole, e perchè l’aure inferme Zefiro avvivi, onde fugata e sparta delle nubi la grave ombra s’avvalla; credano il petto inerme gli augelli al vento, e la diurna luce novo d’amor desio, nova speranza ne’ penetrati boschi e fra le sciolte Ppuine induca alle commosse belve; forse alle stanche e nel dolor sepolte umane menti riede la bella età, cui la sciagura e l’atra face del ver consunse innanzi tempo? Ottenebrati e spenti di febo i raggi al misero non sono in sempiterno? Ed anco, Primavera odorata, inspiri e tenti questo gelido cor, questo ch’amara nel fior degli anni suoi vecchiezza impara?
vivi tu, vivi, o santa Natura? vivi e il dissueto orecchio della materna voce il suono accoglie? Già di candide ninfe i rivi albergo, placido albergo e specchio furo i liquidi fonti. Arcane danze d’immortal piede i ruinosi gioghi scossero e l’ardue selve (oggi romito nido de’ venti): e il pastorel ch’all’ombre meridiane incerte ed al fiorito margo adducea de’ fiumi le sitibonde agnelle, arguto carme sonar d’agresti Pani udì lungo le ripe; e tremar l’onda vide, e stupì, che non palese al guardo la faretrata Diva scendea ne’ caldi flutti, e dall’immonda polve tergea della sanguigna caccia il niveo lato e le verginee braccia.
Vissero i fiori e l’erbe, vissero i boschi un dì. Conscie le molli aure, le nubi e la titania lampa fur dell’umana gente, allor che ignuda te per le piagge e i colli, ciprigna luce, alla deserta notte con gli occhi intenti il viator seguendo, te compagna alla via, te de’ mortali pensosa immaginò. Che se gl’impuri cittadini consorzi e le fatali ire fuggendo e l’onte, gl’ispidi tronchi al petto altri nell’ime selve remoto accolse, viva fiamma agitar l’esangui vene, spirar le foglie, e palpitar segreta nel doloroso amplesso dafne o la mesta Filli, o di Climene pianger credè la sconsolata prole quel che sommerse in Eridano il sole.
Né dell’umano affanno, igide balze, i luttuosi accenti voi negletti ferìr mentre le vostre paurose latebre Eco solinga, non vano error de’ venti, ma di ninfa abitò misero spirto, cui grave amor, cui duro fato escluse delle tenere membra. Ella per grotte, per nudi scogli e desolati alberghi, le non ignote ambasce e l’alte e rotte nostre querele al curvo etra insegnava. E te d’umani eventi disse la fama esperto, musico augel che tra chiomato bosco or vieni il rinascente anno cantando, e lamentar nell’alto ozio de’ campi, all’aer muto e fosco, antichi danni e scellerato scorno, e d’ira e di pietà pallido il giorno.
Ma non cognato al nostro il gener tuo; quelle tue varie note dolor non forma, e te di colpa ignudo, men caro assai la bruna valle asconde. Ahi ahi, poscia che vote son le stanze d’Olimpo, e cieco il tuono per l’atre nubi e le montagne errando, gl’iniqui petti e gl’innocenti a paro in freddo orror dissolve; e poi ch’estrano il suol nativo, e di sua prole ignaro le meste anime educa; tu le cure infelici e i fati indegni tu de’ mortali ascolta, vaga natura, e la favilla antica rendi allo spirto mio; se tu pur vivi, e se de’ nostri affanni cosa veruna in ciel, se nell’aprica terra s’alberga o nell’equoreo seno, pietosa no, ma spettatrice almeno.
(Giacomo Leopardi, “Alla Primavera o delle favole antiche“, gennaio 1822)
John William Waterhouse, “Flora and the Zephyrus” (1898), olio su tela (video da www.restaurars.altervista.org)
Nella latta del cielo tralucemmo – zeppi ferrosi – laggiù a cavalcioni di un pomeriggio bigio da fare spavento. Senza scampo colti sul finire affilato dell’estate viperina. Settembre 1982. Morti sul colpo a causa di un frontale mentre rientravano dalla villeggiatura: Dario Politi, nove anni da finire e sua madre appena trentenne. Padre si salva, così la sorella. Si chiusero feritoie convergenti su noi come fossimo bestie prese al laccio. Il cartoccio bisunto per celare la vergogna del sole precipitato sul fondo bollito, svilire il carbonio di cui s’impregnò l’aria prima del mezzogiorno. Guardammo agli eventi come ad unghie incarnite, nello stesso identico modo le stalattiti, i rivi, le siepi. E come sarebbe tornata a brulicare la spiaggia. Le nostre opinioni più scialbe. Le nostre scelte incontrovertibili, manuali di pronto intervento, prospettive a medio termine, i viaggi che avremmo organizzato con intelligenza sommaria. Come valve di una sola conchiglia Fummo in forza delle epifanie. In ragione delle collisioni. E poi tangenti. Risoluti e fermi. Cresciuti col pelo sullo stomaco. E una fronte sulla spalla. Ambimmo a farci garza, bisturi, flebo. Il corridoio, il portone, il giardino. E tornammo d’aprile.
Vittime di un attacco terroristico. Docili cavie, colla carie ad un dente. Noi venuti al delta tra la strada e le scarpe, lo sgancio e l’introduzione. Noi che morte non tacemmo, mentre vita ci tacque.
Io sono l’uomo che posa il piede sulla tua terra. Colui che varca la soglia, il topo che ti rode la schiena. Sono la tua bestemmia, la bestia senza titolo, abito, nome. Sono la tua fame, i tuoi giri di parole. Sono la sabbia che ti riempie le scarpe. Io sono lì quando non sai cosa dire. Sono la tua piazza, il tuo traffico che impazzisce, il mitra col muso levato. Io sono lo squillo di tromba, colui per cui la campana non suona. Io sono l’osceno, il fetore sotto il tuo naso. Sono il collasso, il refuso, il figlio abortito dal tuo mondo lontano.
Tu sei e sarai l’itinerario, la traccia, la metafisica colma, speculazione inclemente o sommaria alle volte. Sarai tu: erranza, verzura, calvario, il tempo del lupo, il tempio, la nemesi asciutta, temperie del gramo mio rinascermi dai ventri più oscuri. Premessa la vergogna di me, ch’ebbi e ne avrò. La titubanza aliena a dirmi felice per non sgomentare gli amici frangibili, mutante per scelta, ambientato attore delle abitudini volute, pretese, piegate al duttile, contrarie alla noia. Felice al modo della mannaia. O sei tu, gozzoviglia brutale, che loro massacri consumandoli fuori, poi dentro. Quanti moccoli arsi, all’ingresso frementi. Per la vita tramata, passata, e loro lì curvi. Di una precoce, immonda vecchiezza, io come loro avvezzo ma a una canizie vitale ancor giovane e così germinale che ho una felicità qui tra le ciglia, come fossero masse di verde arboreo più una volpe minuta che vi punta fra gli intrichi lo sguardo. Come fosse stato ogni punto sbandato nell’arco tirato della mia vita intera una primavera tramortente e dopo un vivido mare composto. Come fossero mucchi di cose orrende. Tornate alla svelta ciascuna al suo posto.
(Patrick Gentile)
Jackson Pollock, “Murale”,1943, University of Iowa Museum of Art, Iowa City
Dal sopralluogo alla perizia per quanti autogrill siete passati, caselli, poi viadotti. Interminabili. Prima che i tentacoli della notte oltrepassassero lo zenit. Dal fiato corto al collasso. Per quanti squallidi androni. Le tue calze smagliate. Il sudore di cui s’impregnò la sua canottiera sbrillentata. Briciole, atomi. Quanto nulla, In quegli amori. Fu la devastazione senza casa. Fu di voi l’assassinio svelto. Quando i mattoni smisero d’ipotizzare il giorno.