Mi ricordo di un giorno quei due confini ordinati tra i passaggi insidiosi dove filava il diretto noi due dentro sui polsi richiusi traboccati all’amorevole cospetto di una gioventù inesperta e spaesata come lo squillo di una chiamata il nostro viaggio spaurito poi la trasferta là sulle alte quote nelle quali ancora si incurva tra i freddi sentieri uno Stelvio promettente e marziale l’ortica agra cresciuta sotto il frizzare irrequieto di quegli eterni binari i nostri due bicchieri di whisky convergenti al colare nel nero dell’uovo rosso del sole mentre mi suona la O’ Connor e Nothing else matter affonda la tua notte sul fare del giorno perfino adesso che l’alba sposa l’erba alle pietre la pelle al fuoco la menta agli orti la pioggia sul picco in sella e i poderi che la campagna ritorta con fatica raggranella. Ecco fermiamoci qui a un passo dal bordo scontroso la prova del nove sul selciato erto e nevoso che pure ci unisce per vivere o morire credere o brindare mentre puntiamo questo traforo radioso di stelle e non ci rabbrividisce d’asprezza il pavido vento o un’eclisse se sei tu la mia certezza ed io la tua sera io la tua pelle.
Apro gli occhi su un pensiero. Il pensiero è che mi odio quando faccio così. Incontro qualcuno. Lo ascolto mentre si racconta, mi ascolta mentre mi racconto. E poi mi spingo oltre e mi spingo oltre perché in definitiva ci sto veramente bene. E ci sto veramente bene perché stavo per perdere il lavoro e quando l’ho ritrovato era troppo tardi e avevo già perso un sacco di pezzi e volevo ridisegnare tutto quanto da capo. Gli parlo attaccato alla spalla, fitto e veloce e scoordinato e sbandato, e poi barbuglio e arranco e inciampo e mi incazzo e poi non lo so nemmeno io. So che vorrei che lui sentisse lo stesso, che mi stringesse, baciasse, invece no. Perché io sono un talebano, lui una persona, io sono irrequieto, lui eteroetero-dunque-sublima. Direzioni opposte che si incrociano per ragioni poco chiare. Ma siccome si sono incrociate allora divento arrogante e tronfio. E dopo è quella stanza grigia, la stanza delle decisioni. Che sono inutili quanto certi sughi. Sono un saltimbanco che fa la ruota, la capriola, uno che agli uomini stringe spesso il cazzo e rare volte la mano, e si dimentica di un sacco d’altre cose. Bisognerebbe chiedere misericordia. E non perché sono misero e da compatire. Ma perché so di poter essere anche meglio di così. So di poter essere un uomo. Come te.
La tua carezza regge il peso del mio pensiero cacciato dalla terra in cui si è fatto voce e coraggio per invocare il tuo nome e gridarlo nel deserto della notte dove non splendono stelle.
La difficoltà sta tutta lì. Nei dialoghi che si inceppano, nelle false ed edulcorate visioni che la gente ha su questo e su quello. Tutti a metafisicare. Tutti a costruire una saggezza fatta di stupidi proverbi retrivi, vuote asserzioni ascoltate già un milione di volte. Che al limite funzionavano negli Anni Novanta, poi però il mondo è cambiato. Esempio, l’amico di vecchia data che non capisce perché non hai ancora mai pubblicato un libro attraverso i canali ufficiali. La gente è convinta che la scrittura sia una cosa con cui svoltare. Bene. A riuscirci sono in pochi. Pochissimi rispetto alla moltitudine di penne che vive nascosta. Pochissimi e sempre gli stessi. E mica scrivono e basta. Fanno un sacco di altre cose. Tra cui andare in tv, possibilmente da Fazio. Guadagnare con la propria “arte” comporta obbligatoriamente la combinazione talento-rete di contatti. Il tutto, sia chiaro, misurabile poi sull’ascissa del lungo termine. Altrimenti basta vincere un concorso, e poi di nuovo eclissarsi, tornare al brulichio sommerso, alla macchia. Vanto da anni una dozzina di lettori ogni settimana, proprio qui, dove ognuno illusoriamente sembra potere in tutto-ma-proprio-tutto. Fossi in uno scaffale di Feltrinelli ne avrei altrettanti? Boh. Campo da anni di questo minimo successo, prima solo d’occasione, ora un filo più solido grazie alla fidelizzazione. E mi basta. Ecco, la fidelizzazione. La fidelizzazione è uno dei segreti per durare nel tempo. Anche quando non si è nessuno, insomma si è uno dei tanti, uno nel mucchio, dico. In fondo i veri frustrati non sono coloro che sfornano la torta nel chiuso silenzioso della loro cucina. Ma coloro cui, malgrado si dannino l’anima, l’impasto non riuscirà mai. Ecco, volevo dir questo.
L’amore di un cane fa rumore, strema a volte. Ma l’amore deve far rumore, deve stremare. Altrimenti è indifferenza. È puro silenzio incolore. Ovatta. Come quella tra le persone.
Sarà che ho John Legend nelle cuffie, e a me John Legend mette sempre quel senso di Natale metropolitano, newyorkese, sapete, vetrine che scintillano, Park Avenue. Sarà che i cambiamenti chiamano i cambiamenti. O che sono al solito troppo sfasato e fuori orario, più spesso in anticipo che non in ritardo. L’appuntamento alle 13,30 ma anche oggi ho calcolato male. Fortuna che Trastevere ha quel suo modo lì. E allora mi metto comodo a pensare. A quante volte mi sbaglio, per esempio. Alla tenerezza che mi manca. A come sono prevenuto. A come correvo verso la schiuma delle onde. E non avevo mai paura.
Gerolamo Folengo, col cui pseudonimo più noto, Merlin Cocai, era chiamato un locale notturno a Massa Lubrense, dove andavo con gli amici a bere i miei doppi Bourbon & Ginger Ale, detti anche Scotch&American, nacque a Cipada, in provincia di Mantova, l’8 Novembre 1491, in una famiglia di nobili, i quali, però, erano finiti in cattive acque. Ottavo di nove figli, fu mandato dal padre in convento dove avrebbe potuto studiare e sfamarsi alquanto adeguatamente, vista la penuria di mezzi familiare. Quando vestì l’abito di monaco benedettino, dunque, cambiò il nome in Teofilo. Il diavolo tentatore, però, era sempre in agguato, acquattato tra le pieghe della gonna di una nobildonna, Girolama Dieda, per la quale buttò via la tonaca e con la quale vagò per tutto il Nord Italia, vivendo di stenti, fino a quando entrò al servizio del condottiero Camillo Orsini, a Roma. Decise, poi, di rientrare in convento e gli fu comminato un periodo di penitenza ed espiazione, che trascorse al Monte Conero ad Ancona e nei pressi proprio di Massa Lubrense, il mio paese nativo, all’eremo di San Pietro a Crapolla. Così, fu riammesso nell’ordine e mandato in Sicilia. Morì a Bassano del Grappa il 9 dicembre 1544.
Le opere
Folengo scrisse diverse opere, che fece poi confluire in un unico capolavoro, al quale lavorò tutta la vita ed ebbe quattro edizioni diverse: l’Opus macaronicum. In ogni modo, ciascuna parte di questo corpo può essere comunque trattata singolarmente. La prima di queste è l’Orlandino, che pubblicò con lo pseudonimo di Limerno Pitocco, ovvero, Merlino il miserabile. Poemetto di otto canti in ottave, racconta l’infanzia del famoso paladino Orlando: figlio di Milone e Berta, sorella di Carlo Magno, sposati in segreto e, per questo, costretti a fuggire, fu partorito dalla madre in un’umile capanna e visse i primi anni della sua vita in campagna, tra ai contadini. Il Caos Triperuno, invece, è una vera e propria insalata di maccheroni. I tre personaggi, Limerno, Fulica e Merlino (tutti e tre sono l’Autore stesso), parlano, rispettivamente, in latino, in volgare e in maccheronico. Quest’ultimo, è un linguaggio artificiale, costituito da un lessico in parte dialettale, in parte latino. Chissà, dunque, cosa si capisce! Tutto si svolge attraverso tre selve: nella prima, Triperuno conversa della nascita dell’uomo e della conoscenza umana. Nella seconda, il discorso va a finire sulla pericolosità del mondo sensibile, quando Triperuno si perde ma, ritrovata la via, attraversa i regni di Carossa, Matotta e Perissa, che stanno a significare tre modi di fare degli ecclesiastici e cioè, la crapula, la superfluità e la vanità. Nella terza selva, Triperuno incontra nientemeno che Gesù Cristo in persona o, meglio, in spirito, gli dona il cuore e gli dice: “Sono nelle tue mani, non farmi fare una brutta fine!”.
Il Baldus
Venticinque capitoloni in esametri, lungo i quali Merlin Cocai, alias Folengo, racconta le imprese di Baldus e della sua sgangherata banda di delinquenti.
Phantasia mihi plus quam phantastica venit
historiam Baldi grassis cantare Camoenis.
Altisonam cuius phamam, nomenque gaiardum
terra tremat, baratrumque metu sibi cagat adossum.
Sed prius altorium vestrum chiamare bisognat,
o macaroneam Musae quae funditis artem.
An poterit passare maris mea gundola scoios,
quam recomandatam non vester aiuttus habebit? […]
Credite, quod giuro, neque solam dire bosiam
possem, per quantos abscondit terra tesoros:
illic ad bassum currunt cava flumina brodae,
quae lagum suppae generant, pelagumque guacetti.
Hic de materia tortarum mille videntur
ire redire rates, barchae, grippique ladini,
in quibus exercent lazzos et retia Musae,
retia salsizzis, vitulique cusita busecchis,
piscantes gnoccos, fritolas, gialdasque tomaclas.
Res tamen obscura est, quando lagus ille travaiat,
turbatisque undis coeli solaria bagnat.
(Mi è venuta la fantasia – proprio una bella fantasia – di raccontare la storia di Baldo con le mie grasse Camene. La sua fama risonante, il suo nome gagliardo fa venire ancora la tremarella alla terra e la voragine infernale, nella sua nera paura, si caga sotto. Ma per prima cosa, bisogna invocare il vostro aiuto, o Muse che spandete la bell’arte macaronica. Potrebbe la mia gondola strigarsi dagli scogli di questo mare, se il vostro favore non l’accompagnasse? […] Credetemi, non sono stupidaggini, ve lo giuro: e poi una bugia, nemmeno una sola, non la direi per tutto l’oro del mondo. Verso il basso corrono giù cavi fiumi di brodo saporitissimo che poi vanno a finire in un lago di zuppa, in un mare di stracottini. E qui passano e spassano barche, barbotte, brigantini agevoli e snelli, a migliaia, tutti di torta: e sopra ci stanno le mie Muse e gettano lacci e reti – reti cucite con budella di maiale e con busecche di vitello – e pescano gnocchi, frittole e tomacelle gialle. Ma è un grosso guaio quando quel lago va in agitazione e con le onde bagna le soffitte del cielo).
Baldovina, la figlia di Carlo Magno, ama alla follia Guidone di Montalbano, ma il babbo non vuole. I due amanti, allora, decidono di scappare da Parigi e si rifugiano a Cipada, il paesello di Folengo dove, nella capanna del contadino Berto Panada, succede il fattaccio e dopo nove mesi nasce Baldus. Guidone, però, poco dopo abbandona Berta e quella muore per il dispiacere. Rimasto solo con Berto, Baldus si unisce ai monellacci del paese e, insieme a questi, va combinando guai dappertutto. Crescendo, il nostro eroe diventa il capo di una ben assortita gang di farabutti, che mettono a ferro e fuoco le campagne mantovane, tra cui spiccano Cingar, il gigante Fracasso e Falchetto, metà uomo e metà cane. Chi Baldus finisce presto nei guai. Durante la festa di calendimaggio, dopo aver battuto tutti nei giochi popolari, viene provocato, ammazza un nobile con una grossa pietra e scappa. È inseguito dalle guardie. Ne uccide una e si rifugia in una casa. Gli sbirri riescono a legarlo, ma viene liberato dal compare Sordello. Passano gli anni, prende in moglie una contadinotta, Berta, vive senza lavorare approfittandosene di Zambello, il figlio di Berto Panada. Zambello un giorno si ribella, rivolgendosi a Tognazzo, un villano proprietario di terre e podestà di Cipada. Questi, nemico giurato delle teste calde del paese, prende al volo l’occasione e mette in piedi un piano per fregare Baldus. Il giovane è invitato a presentarsi al Palazzo comunale, per assumere il comando di un esercito contro i lanzichenecchi. Qui, dopo una feroce rissa, è sopraffatto dalla folla e messo in galera. Cingar, riesce a liberarlo e la banda decide di cambiare un po’ aria col solito viaggio iniziatico – ricerca della propria anima o giù di lì, attraverso luoghi magici, popoli stranissimi, abissi, isole del tesoro, streghe, grotte profondissime, mostri, esseri indecifrabili, e non vi dico tutto il resto. Arrivano perfino all’Inferno e, nell’Antro della Fantasia, Baldus e i compari impazziscono e si trovano davanti ad una grossa zucca, secca e vuota, dentro la quale, vivono astrologi, poeti e cantanti, a cui tremila satanassi, travestiti da barbieri, tirano tutti i denti, uno per uno, ma questi, puntualmente, ricrescono. Colà vive anche l’autore, il quale, stanco di quelle torture, decide di far continuare, a chi vorrà, il racconto delle avventure di Baldus e della sua banda.
Ergo sorellarum, o Grugna, suprema mearum, si nescis, opus est hic me remanere poëtam: non mihi conveniens minus est habitatio zucchae, quam qui Greghettum quendam praeponit Achillem forzibus Hectoris; quam qui alti pectora Turni spezzat per dominum Aeneam, quem carmine laudat «Moenia mentum mitra crinemque madentem». Zucca mihi patria est; opus est hic perdere dentes tot quot in immenso posui mendacia libro. Balde, vale, studio alterius te denique lasso, cui mea forte dabit tantum Predala favorem ut te Luciferi ruinantem regna tyranni dicat et ad mundum san salvum denique tornet. Tange peroptatum, navis stracchissima, portum, tange, quod ammisi, longinqua per aequora remos! He heu, quid volui, misero mihi? perditus, Austrum floribus et liquidis immisi fontibus apros!
(Perciò, o Grugna, ultima delle mie Muse, se non lo sai, io poeta devo rimanere qui: la dimora della zucca non è meno adatta a me che a colui che antepone un grecuccio come Achille alla forza di Ettore; a colui che fa spezzare da un Enea il petto del grande Turno, che in quel suo verso glorifica “avvolto il mento e la chioma profumata in un copricapo orientale da donna”. La zucca è la mia patria; è necessario qui perdere i denti, tanti quante sono le bugie che ho messo nel libro lunghissimo. Baldo, ti saluto e ti lascio finalmente al lavoro di qualche altro, cui forse la mia Pedrala darà tanto aiuto per dire di te che distruggi i regni del tiranno Lucifero e per farti tornare al mondo sano e salvo. Entra nel porto desiderato, o nave stanchissima! Entra perché nei lunghi viaggi per mare ho perso i remi. Ahi! Che cosa ho voluto tentare, povero me? Folle, ho messo l’Austro tra i fiori e i cinghiali nelle fonti pulite!).
Questa è la lingua del Baldus, questo è il famoso maccheronico.
Spesso mi rimiro in un cortiletto schiuso una panca di ferro battuto la fontanella col muschio tutt’attorno che non dà acqua da anni quel tubo di gomma torto su se stesso in disuso a un angolo e il cedro scarnato tra una rovina di foglie due cicale spossate in un bianco e nero che cresce ed indulge ed è un po’ come questo mio corpo stanco il cigolio che fa un gatto ora che spiove e la sera mi saluta da lontano.
Anch’io ho visto le menti migliori della mia generazione distrutte, non dalla pazzia, ma dall’imposizione alla paralisi, schiacciate, soffocate e graffiate dal bradipo di acciaio luccicante, sanguinanti nella melassa di un’allucinazione lisergica e intossicata, rivoli di glucosio marrone zampillare dalle vene lacere e bucate, placche cristallizzate del colore dell’avorio guasto, dal fiato greve di scimmia e di gin. Stipate, costrette e ingabbiate tra sbarre d’etere e foglie d’acanto, marmo di Paro per idoli ignoti e spietati, déi finti e impostori che svettano tra nebbie velenose e miasmi all’idrogeno, al suono cieco di tamburi di tenebra e trombe di manganese fuso. Rami nodosi avvolgono e riducono a brandelli il fegato pulsante e grondante bile scura, gocce vaporose ne cadono sul terreno impastato di croste e tungsteno incandescente da cui germogliano corone di spine e scettri di canna pieni di linfa morta e pestilente, mentre caducei circolari inanellano organici decomposti e stecchi di delta-9, pietre di quarzo e lamine d’oro, donnole imbalsamate e aeriformi al cloroformio. Lupi con le zampe lorde di fango viscoso urlano davanti alle mura di calcestruzzi di risulta, stemperati con incubi e ghiaie di fiumi prosciugati dal sole alogeno a basso consumo; sentinelle con scudi di plexiglas e lanciafiamme a combustione interna in garitte di guardia con fari al cherosene bruciano la strada battuta da transgender vogliosi e lastricata con le ombre dei vagabondi dalle barbe pesanti e i cappelli a cilindro che portavano boccette piene di ovatta imbevuta, morti di fame, di freddo e di isteria. Canti di capri risuonano tra la vaga caligine livida, pezzi di carne sporca riscaldano gli intestini retti e arrossati, galloni di seme liquido e gommoso allagano gole prone di schiavitù e dominio, muschio strappato alla radice e sputato su lastre epidermiche lisciate di borotalco e creme idratanti, schiere di microscopici coscritti lavano pareti ingorde e senza crepe, protette da imeni infibulati dalla falsità. Da incubatrici meccaniche, tane di tenie, ossiuri, cestodi, strongiloidi e ascaridi, piene di polveri di allume e tartaro, di muco, di sebo e di pus, bardati di bigiotteria opaca, angeli coi denti marci cantano vomitando insetti impalati e ali incollate: “Non in commotione, non in commozione, Dominus”. “God is now back on the road and he’s floating around with the Bird”. La cicuta e l’olio di sandalo, l’incenso e il cinnamomo, il miele e la pelle di daino mescolati e bevuti per stanare la bestia, per spuntarle le zanne e cacciarla, spingendola fino alle Colonne d’Ercole, precipitandola nel mare di pece e cobalto tra gorgoglii che si chiudono sopra l’aroma di benzoino e caffè idrosolubile, lavando l’onta del peccato originale col mercurio cromo. Vexilla regis proderunt Inferni verso di noi. “Welcome to Freedom City. Never loocked back, never feared, never cried”.
II
Un soffio di polvere imperlato di diamanti stellati, accende una luce dai colori trasparenti che, carica di protoni di follia e di pulviscolo dietilamidico, dilata i contorni delle cose eccitando il pistillo del fiore della storia del mondo dal cui ventre, fecondato dallo psilocybe, stanno per essere partorite nuove gesta. Gli eroi hanno strappato i cuori dei bardi lontani e se ne stanno cibando, accrescendo il loro valore e la loro potenza. Sono pronti a mettersi in cammino, i peana risuonano fino agli antipodi. Sospinti da venti di terra e cerchi di fumo, avanzano Sanno di andare a morte sicura, già vedono i lumi muti e la terra sconsacrata, ma sorridono. Le carni saranno dilaniate invano. Sorridono. Esaltati dalla materia primordiale, dalle visioni diurne e dal calore dei triangoli di fuoco, avanzano. Dietro di loro, migliaia di spettri si sciolgono in rivi di fluido azzurrato che si increspa ed evapora. E per un’ultima volta, un’ultima parte, un ultimo passo e un ultimo tempo.
Jess Collins, “Narkissos” (1991), San Francisco, Museum of Modern Art