LEZIONE DEL CENTRO SCALIGERO DEGLI STUDI DANTESCHI
CANTO XXII DEL PARADISO: SPIEGAZIONE E COMMENTO
27/09/2021
Il canto si divide in tre parti: nella prima Beatrice rassicura Dante, rimasto stordito dal grido dei Beati, sulla protezione di cui gode in Paradiso, dove regna l’ardore di carità; nella seconda il poeta vede l’anima di San Benedetto che gli parla della sua azione di propugnatore del cristianesimo, gli presenta altre anime del cielo di Saturno e condanna la corruzione del suo ordine; nella terza Dante ascende al Cielo delle Stelle fisse, invoca la costellazione dei Gemelli perché lo ispiri nella descrizione dell’ultima parte del suo viaggio e, vedendo dall’alto la terra ed i sette cieli percorsi, fa delle considerazioni sulla fragilità umana e l’inutilità della ferocia e della violenza che regnano nel mondo…
Guido Guinizzelli è stato il teorico del Dolce Stil Novo, l’altro Guido, come lo chiamò Dante (Purg. XI, v. 97) ne ha rappresentato il maggiore esponente. Fiorentino, nacque più o meno nel 1260, dalla nobile famiglia Cavalcanti, mercanti molto ricchi. Notissime erano, a Firenze, quasi fossero un punto cardinale, le terre e le case dei Cavalcanti, situate non lontane dalla Chiesa di Santa Maria in Campidoglio, nei pressi del Mercato Vecchio. Da giovane, era stato mandato dal padre a studiare la filosofia da Brunetto Latini e proprio lì aveva conosciuto il futuro sommo poeta, divenendone amico fraterno. Guelfo bianco convinto, per dare il buon esempio, cercando, in tal modo, di calmare un po’ le tormentatissime acque in città, aveva sposato Bice degli Uberti, figlia del famoso Farinata, il segretario comunale del PGF, Partito Ghibellino Fiorentino. Tutto questo, comunque, era servito a poco o niente. La tensione, a Firenze, era sempre altissima, tanto che quando non si riuscivano ad eliminare gli avversati in casa, si mandavano i sicari a raggiungerli in trasferta. Durante un pellegrinaggio al santuario di Santiago di Compostela, infatti, nei pressi di Tolosa, Guido prese una coltellata alla schiena, inflittagli da un assassino mandato da Corso Donati, il capo dei guelfi neri. Si salvò per miracolo! Incurante dei numerosi pericoli e della sua incolumità fisica, si fece eleggere al Consiglio Generale. Solo pochi anni dopo, però, ne fu escluso, quando Giano della Bella, un aristocratico passato a sinistra, fece approvare la riforma degli “Ordinamenti di Giustizia”, vietando, ai nobili non iscritti ai sindacati, l’accesso alle cariche pubbliche. Il 24 giugno del 1300, dopo aver preso parte ad una mega rissa in cui guelfi bianchi e neri se le erano suonate di santissima ragione, fino a quando non erano rimaste in piedi che due-tre persone, essendo lui un capo fazione, fu punito con l’esilio a Sarzana, oggi ridente centro in provincia di La Spezia, ma, nel XIII secolo, zona paludosa e insalubre. Fu proprio l’amico Dante, divenuto, nel frattempo, Priore, a firmare, con le lacrime agli occhi, la sua condanna. In poche settimane, a causa dei miasmi mortiferi esalati dagli acquitrini sarzanesi, Guido contrasse la malaria. Tornò a Firenze giusto in tempo per morire, nelle case dei Cavalcanti, il 29 agosto. Fiero nel carattere e altero nell’aspetto, è il più “tragico” dei poeti stilnovisti. L’amore, spesso, gli provocava sbigottimento, lasciandolo dubbioso, destrutto e desfatto:
L’anima mia vilment’è sbigotita de la battaglia ch’ell’ave dal core che s’ella sente pur un poco Amore: più presso a lui che non sòle, ella more.
(L’anima mia vilment’è sbigotita, vv. 1-4)
Forte e nova mia disaventura m’ha desfatto nel core ogni dolce penser, ch’i’ avea, d’amore.
(Forte e nova mia disavventura, vv. 1-3)
Allo steso modo, la sua donna pare non essere così celeste e luminosa come quelle esaltate dagli altri poeti, tanto che il suo valore è difficilmente conoscibile dall’uomo. Se Guido fosse stato un trovatore avrebbe accompagnato le sue canzoni con una musica malinconica e angosciosa:
Se Mercé fosse amica a’ miei desiri, e l’movimento suo fosse dal core di questa bella donna e’l su’ valore mostrasse la vertute a’ mie’ martiri.
(Se Mercé fosse amica a’ miei disiri, vv. 1-4)
La canzone Donna me prega, per ch’eo voglio dire, i cui versi sono di difficile comprensione perché volutamente astrusi, è lo specimen della sua poesia. In essa, filosofia, metafisica, psicologia, tristezza, guai, lamenti e spiriti, introdotti nella sua lirica per spiegare il funzionamento dei sensi e dei sentimenti dell’uomo, mostrano la donna non come una guida che renda l’anima perfetta, quanto come creatura la cui bellezza costringa a meditare, ad almanaccare, a scervellarsi, ad elucubrare e a rimuginarvi. Però, rimuginandovi troppo a lungo, il povero Guido correva il rischio di andare fuori di testa.
Donna me prega, – per ch’eo voglio dire
d’un accidente – che sovente – è fero
ed è sì altero – ch’è chiamato amore:
sì chi lo nega – possa ’l ver sentire!
Ed a presente – conoscente – chero,
perch’io no spero – ch’om di basso core
a tal ragione porti canoscenza:
ché senza – natural dimostramento
non ho talento – di voler provare
là dove posa, e chi lo fa creare,
e qual sia sua vertute e sua potenza,
l’essenza – poi e ciascun suo movimento,
e ’l piacimento – che ’l fa dire amare,
e s’omo per veder lo pò mostrare.
(Donna me prega, – per ch’eo voglio dire, vv. 1-14)
Tra le sue composizioni più famose, infine, è la ballata Perch’i’non spero di tornar giammai. Il poeta, fuori dalla Toscana, chiese a questa sua ballatetta di raggiungere l’amata per dirle, tra pianti, sospiri e accidenti:
Questa vostra servente viene per star con vui, partita da colui che fu servo d’Amore.
Tra i frammenti d’oro dell’eternità che si riverberano nel mondo dei fenomeni, vive un uomo la cui anima sapeva danzare sulle corde dell’amore e della poesia. Il suo nome era Casella, un musicista virtuoso, un cantore di versi sublimi, un artista la cui voce incantava i cuori e sollevava gli spiriti. Il dolce Casella, così Dante lo ricordava, colui che nelle note trovava il modo di parlare all’anima, colui che aveva il potere di trasformare le parole in melodie celestiali. Nella Divina Commedia Dante ci dona un incontro struggente con Casella, un momento intriso di affetto e nostalgia. Nel canto II del Purgatorio, Dante, appena giunto sulle spiagge dell’isola del Purgatorio, incontra il suo caro amico. È un incontro tanto atteso, un riconoscimento immediato tra anime affini, tra chi condivideva non solo l’amicizia, ma anche l’amore per la bellezza e la verità.
Io vidi una di lor trarresi avante per abbracciarmi, con sì grande affetto, che mosse me a far lo somigliante.
Ohi ombre vane, fuor che ne l’aspetto! tre volte dietro a lei le mani avvinsi, e tante mi tornai con esse al petto.
Di maraviglia, credo, mi dipinsi; per che l’ombra sorrise e si ritrasse, e io, seguendo lei, oltre mi pinsi.
Soavemente disse ch’io posasse; allor conobbi chi era, e pregai che, per parlarmi, un poco s’arrestasse.
Rispuosemi: “Così com’io t’amai nel mortal corpo, così t’amo sciolta: però m’arresto; ma tu perché vai?”.
“Casella mio, per tornar altra volta là dov’io son, fo io questo vïaggio”, diss’io; “ma a te com’è tanta ora tolta?”.
Ed elli a me: “Nessun m’è fatto oltraggio, se quei che leva quando e cui li piace, più volte m’ ha negato esto passaggio;
ché di giusto voler lo suo si face: veramente da tre mesi elli ha tolto chi ha voluto intrar, con tutta pace.
Ond’io, ch’era ora a la marina vòlto dove l’acqua di Tevero s’insala, benignamente fu’ da lui ricolto.
A quella foce ha elli or dritta l’ala, però che sempre quivi si ricoglie qual verso Acheronte non si cala”.
(Purg., II, vv. 76-105)
Casella appare a Dante come un’anima gentile, in attesa di purificazione, eppure già avvolta da un’aura di serenità e dolcezza. Dante, col cuore traboccante di emozione, lo prega di cantare ancora una volta una delle sue melodie, quelle stesse melodie che una volta risuonavano nelle strade di Firenze, portando conforto e gioia. Casella, con la sua voce soave, intona un canto che sembra fatto di pura luce, una melodia che trasforma quel luogo di attesa in un anticipo di paradiso. La canzone che Casella canta è “Amor che ne la mente mi ragiona”, un inno all’amore e alla bellezza, un’ode che risuona come un eco eterno nei cuori di chi ascolta. In quel momento, le anime che popolano le rive del Purgatorio si fermano, rapite dalla bellezza del canto, dimenticando per un attimo le loro pene e il loro cammino. È un istante di pura armonia, un riflesso dell’amore divino che permea ogni cosa. L’incontro con Casella non è solo un momento di commozione per Dante, ma anche un simbolo di speranza e di redenzione. Casella, con la sua musica, rappresenta la possibilità di trovare la bellezza e la pace anche nel viaggio dell’anima verso la purificazione. È un richiamo alla potenza dell’arte, alla capacità della musica di elevare lo spirito e di avvicinare l’uomo al divino. Così, Casella vive ancora nei versi di Dante, come un’ombra luminosa che continua a cantare, portando con sé il profumo di un’amicizia eterna e il dolce suono di una melodia che sfida il tempo e lo spazio. E in ogni nota, in ogni parola cantata, risuona l’eco di un’anima che ha trovato nella musica la strada per l’eternità.
Nelle pieghe oscure della storia fiorentina, tra intrighi e tradimenti, visse Bocca degli Abati, un uomo il cui nome è marchiato dall’infamia della sua stessa azione. Nato in una nobile famiglia ghibellina, si trovò nel crocevia delle lotte tra guelfi e ghibellini, un periodo in cui la fedeltà era moneta rara e l’opportunismo un’arte raffinata. Era il 4 settembre del 1260 e le nuvole nere della battaglia di Montaperti si addensavano minacciose sopra le colline toscane. In quella funesta giornata, Bocca compì un atto che avrebbe scolpito il suo nome nella memoria collettiva quale sinonimo di traditore. Durante lo scontro decisivo, quando le sorti della guerra sembravano pendere a favore dei guelfi fiorentini, fu proprio lui a compiere l’atto che avrebbe cambiato il corso degli eventi. Alzò la sua mano, non per difendere, ma per tradire. Con un solo colpo recise quella di Jacopo de’ Pazzi, che teneva alto lo stendardo fiorentino, seminando il caos tra le file dei suoi compatrioti. Fu un atto di perfidia che consegnò la vittoria ai ghibellini senesi e segnò indelebilmente il destino di Firenze. Dante Alighieri non poté ignorare tale atto di viltà e tradimento. Nella Divina Commedia, Bocca degli Abati trova la sua giusta collocazione nel nono cerchio dell’Inferno, tra i traditori della patria. Nel canto XXXII, immerso nel ghiaccio eterno della Antenora, Bocca è avvolto da un freddo tanto penetrante quanto il disgusto che le sue azioni ispirano. Dante, colmo di indignazione, lo riconosce e lo condanna con parole taglienti come lame di ghiaccio:
Io avea già i capelli in mano avvolti, e tratti glien’avea più d’una ciocca, latrando lui con li occhi in giù raccolti, quando un altro gridò: “Che hai tu, Bocca? non ti basta sonar con le mascelle, se tu non latri? qual diavol ti tocca?”. “Omai”, diss’io, “non vo’ che più favelle, malvagio traditor; ch’a la tua onta io porterò di te vere novelle”.
(Inf., XXXII, vv. 103-111)
Bocca, inchiodato nel suo freddo castigo, con la sola testa che viene fuori dalla superficie ghiacciata del lago Cocito, incarna la perenne condanna del traditore, privo di redenzione, immobile nell’eternità del suo peccato. Bocca degli Abati, nella sua crudele semplicità, diventa simbolo del tradimento più vile, una figura che la storia e la letteratura non possono dimenticare. Il ghiaccio che lo avvolge è metafora del suo cuore gelido, incapace di fedeltà e di onore. Il suo ritratto, immerso nell’eterna condanna dantesca, ci ammonisce sui pericoli della slealtà e ci ricorda che le azioni compiute nella vita terrena riverberano nell’eternità. E così, attraverso le parole di Dante, Bocca degli Abati diventa monito e memoria, una raffigurazione poetica di tradimento che attraversa i secoli, ricordandoci che l’onore e la fedeltà sono virtù che non possono essere tradite senza conseguenze.
Giacomo Leopardi, il melanconico cantore delle stelle, nacque sotto un cielo che pareva già tingersi di tristitia infinita. Figlio di nobiltà decadente, trovò rifugio non nelle pur fastose sale del palazzo di famiglia, ma nelle scure biblioteche, dove i libri divennero i suoi veri compagni. Con il suo volto pallido e gli occhi colmi di antica sapienza, si aggirava tra le ombre del pensiero, cercando di svelare i segreti della vita e dell’universo. La sua filosofia si è levata come un grido soffocato contro l’indifferenza dell’esistenza. Vedeva la natura non come una madre benevola, ma come una matrigna crudele, sorda ai dolori e alle gioie degli uomini. In questa sua visione disillusa, l’uomo era solo, abbandonato a sé stesso, destinato a scontrarsi con l’inevitabile sofferenza.
Eppure, in mezzo a questo buio sconforto, trovava una sorta di sublime bellezza. Nella consapevolezza della propria fragilità, Leopardi vedeva l’essenza stessa dell’essere umano: un eroe solitario, capace di affrontare l’infinito nulla con dignità stoica. La sua poesia è divenuta un inno alla caducità della vita, un lamento dolce e struggente per tutto ciò che è destinato a svanire. Leopardi, con la sua penna intrisa di malinconia, tracciava versi che erano come stelle cadenti, brevi e brillanti, destinate a spegnersi nel vasto firmamento dell’eternità. Ma la sua voce risuona ancora oggi, un’eco lontana che ci ricorda la nostra vulnerabilità e, al contempo, la nostra straordinaria capacità di trovare bellezza nel dolore. Così, Giacomo Leopardi rimane per sempre il poeta delle illusioni perdute, un filosofo dell’esistenza che ci invita a guardare dentro noi stessi, a riconoscere la nostra solitudine, ma anche a celebrare la nostra irriducibile umanità.
Matelda, figura misteriosa e affascinante del Purgatorio dantesco, affiora dai versi della Divina Commedia immersa in un’aura di sacra purezza e di bellezza incontaminata. La sua presenza è annunciata da un’aura luminosa, un riflesso dorato che si diffonde nella foresta del Paradiso Terrestre, dove il Dante e Virgilio la incontrano. E proprio nella cornice lussureggiante del Paradiso Terrestre, Matelda appare come una creatura celestiale, una ninfa dai tratti divini, che incarna la perfezione e l’armonia della natura. I suoi capelli, lunghi e fluenti, sembrano intrecciarsi con i raggi del sole, creando un manto luminoso che avvolge il suo corpo esile e aggraziato. Ogni suo gesto è un inno alla grazia e alla serenità e il suo sguardo, dolce e penetrante, riflette una saggezza antica e profonda.
Matelda è la custode di questo Eden ritrovato, un simbolo di purezza e redenzione. La sua voce, quando intona il canto che celebra le meraviglie della creazione, risuona come una melodia capace di toccare le corde più intime dell’anima. Ella rappresenta l’innocenza originaria dell’uomo, la beatitudine perduta e poi riconquistata attraverso il pentimento e la purificazione. La sua figura è immersa in una dimensione di eternità, dove il tempo sembra sospeso e ogni attimo diventa un’eco dell’armonia universale. I fiori e gli alberi attorno a lei sembrano danzare al ritmo della sua presenza, come se riconoscessero in lei la sovrana naturale di quel regno incontaminato. Matelda, con la sua dolcezza e la sua purezza, diventa per Dante il simbolo della bellezza spirituale, della speranza e della redenzione. La sua apparizione è un momento di pace e di illuminazione, un preludio alla visione finale del Paradiso. Attraverso di lei, il poeta riscopre la meraviglia della creazione divina e la possibilità di una rinascita spirituale. Matelda, quindi, non è solo una figura della letteratura, ma un archetipo di perfezione e armonia, un riflesso della bellezza eterna che abita nelle profondità dell’animo umano. La sua immagine risuona come un canto di speranza e di riscatto, un invito a riscoprire la purezza e la bellezza che giacciono nascoste in ogni cuore.
Figura luminosa, donna di rara bellezza e di ancor più rara intelligenza, nata sotto i cieli azzurri della Francia meridionale, ha incarnato l’eleganza e la forza, una rosa in un mondo di spade e intrighi. Eleonora, fiore d’Aquitania, la cui giovinezza fu nutrita dai versi dei trovatori, sorse e crebbe come un’aurora, illuminando le corti con il suo spirito ribelle e la sua mente acuta. Non solo una regina, ma una musa, ispiratrice di poeti e di guerrieri, il cui cuore batteva al ritmo delle antiche leggende e dei nuovi sogni di libertà. Sposa di re e madre di sovrani, il suo destino la condusse dalle colline di Aquitania ai troni di Francia e d’Inghilterra. Moglie di Luigi VII, divenne regina di Francia, e, come una cometa, attraversò i cieli d’Europa, portando con sé una visione di cultura e raffinatezza. Ma il suo spirito indomito non poteva essere contenuto in un solo regno. Con il divorzio, trovò nuova luce nelle terre d’Inghilterra, accanto a Enrico II, divenendo regina e madre di uomini epici, Riccardo Cuor di Leone e Giovanni Senza Terra.
Eleonora, promotrice dell’amore cortese, protettrice dei trovatori e delle arti, riuniva attorno a sé corti brillanti, dove l’intelletto e il coraggio erano riveriti, dove le donne trovavano una voce e gli uomini un ideale. Ma non fu solo nella lì che ella brillò. Anche nelle ombre della prigionia, trovò la forza della resistenza e, nei momenti più oscuri, la sua determinazione non vacillò mai. Quando le catene avrebbero potuto spezzare il suo spirito, rimase un faro di speranza e di tenacia. Eleonora d’Aquitania, la cui vita fu un arazzo di passione, potere e poesia, insegna a noi cittadini del XXI secolo che la vera regalità risiede nel cuore e nella mente e che una donna può essere tanto guerriera quanto saggia, madre e musa, regina e anima libera. In un mondo dominato dagli uomini, Eleonora divenne leggenda, il suo nome sussurrato nei corridoi del tempo, un’eco di ciò che una donna può essere quando si lascia guidare dal fuoco interiore e dall’inesauribile sete di libertà e giustizia.
Giuseppe Parini è stato certamente stato il più frizzante degli illuministi milanesi, colui il quale sferzò, con la sua ironia, la classe nobiliare della Lombardia “austriaca” della seconda metà del ’700. Nella sua opera più celebre, Il Giorno, narra, in versi endecasillabi, la tipica giornata del “giovin signore”, l’esemplare esponente del patriziato milanese, dal risveglio a tarda mattina fino al rientro a casa a notte fonda. L’Autore funge da “precettor d’amabil rito”, com’egli stesso si definisce, sempre pronto a mostrare al suo signore i trucchi e i modi per riempire, con stuzzicanti e coinvolgenti avventure, i tanti momenti di noia. L’opera è un capolavoro insuperato di umorismo. Parini, d’altronde, conosceva bene gli ozi e le abitudini della nobiltà milanese, secondo quello stile di vita condensato nell’adagio “vizi privati e pubbliche virtù”, perché l’aveva frequentata a lungo, quando era stato precettore presso le aristocratiche famiglie dei Serbelloni e degli Imbonati. Emerge, quindi, un ritratto sì caricaturale, ma rispondente al vero. Tutto è teso alla presa in giro e alla messa alla berlina dei nobili e dei loro stravaganti modi di vivere. Finanche il linguaggio, il cui uso è così volutamente fine e ricercato, denso di metafore fascinose e richiami mitologici dal sapore barocco, in modo da risultare spesso comico, serve alla causa. La critica di Parini (immaginea destra) al mondo nobiliare non è stata, però, soltanto distruttiva. Non semplice disapprovazione o preconcetta avversione: egli sperava che i nobili la smettessero di vivere da parassiti e partecipassero attivamente alla vita sociale, che si impegnassero in politica e, forti della loro posizione e della loro ricchezza, contribuissero a migliorare la società. Il portato di queste riflessioni è più attuale che mai, oggi, che si sta facendo un gran parlare di caste e presunta negligenza dei politici.
Giacomo Leopardi e Lucio Dalla. Un poeta-filosofo e un cantautore. Cosa possono avere mai in comune? Lo scoprirete presto! Voglio, però, condurvici pian piano, cominciando da un elemento naturale, visibile, di notte, da qualche parte nel cielo: la luna. La luna ha eccitato la fantasia dei poeti sin dalla notte dei tempi. Gli antichi greci la deificarono, arrivando a conferirle una triplice personificazione: Proserpina, moglie di Ade e regina degli Inferi (simbolo della luna calante); Artemide, dea della caccia (simbolo della luna crescente), e Selene, la luna propriamente detta (la luna piena). Anche Dante Alighieri cedette al fascino di questa triplice personificazione e, nel canto X dell’Inferno, ai versi 79-81, mise in bocca a Farinata degli Uberti, fiero capo ghibellino, una profezia post eventum, scritta, cioè, quando gli eventi predetti erano già accaduti: “Ma non cinquanta volte fia raccesa/ la faccia de la donna che qui regge/ che tu saprai quanto quell’arte pesa”. Dante si riferiva proprio alla luna (Proserpina, la donna che qui regge, in una commistione tra mitologia classica, dottrina cristiana e astronomia medievale), e le cinquanta volte in cui si sarebbe “riaccesa” rappresentavano i cinquanta mesi mancanti alla sua condanna all’esilio. Più vicino a noi, come non citare i tenerissimi versi di uno dei miei migliori conterranei: il principe De Curtis, Totò, il quale, nella poesia “A cunsegna”, esplora il topos poetico della luna quale benevola protettrice degli innamorati: “’A sera quanno ‘o sole se nne trase/ e dà ‘a cunzegna a luna p’ ‘a nuttata/ lle dice dinto ‘a recchia: I’ vaco ‘a casa:/ t’arraccumanno tutt’ ‘e nnammurate”. La luna, quindi, è il trait d’union tra i due protagonisti di questo mio breve scritto.
Nonostante tutto ciò, mi si potrebbe obiettare: “Cosa c’entra uno dei più grandi, se non il più grande poeta italiano con Lucio Dalla, un cantante, seppure famoso? Cosa possono avere in comune un uomo che, a 10 anni, aveva una cultura vasta quanto quella di un paio di centenari messi insieme con un personaggio che ha giusto terminato le scuole medie? Cosa c’entra, dunque, Giacomo Leopardi con Lucio Dalla? Posso assicurarvi che hanno molti punti in comune e cercherò, qui, di esporveli nel modo più breve ma più esauriente possibile. Il materialismo del pensiero marxista, dal punto di vista filosofico-letterario (ciò, in Italia, è avvenuto soprattutto grazie all’opera di Antonio Gramsci), ha avuto il merito di permettere ai critici di concentrarsi su problematiche, relative agli autori, non soltanto di poetica ma anche, e soprattutto, di vita reale, materiale. Ecco perché, allora, gli elementi biografici di un autore assumono una importanza fondamentale nel tentativo di ricostruire e motivare l’arte dello stesso. Detto questo, andiamo ad analizzare cosa successe nelle vite di questi due personaggi, Leopardi e Dalla, in quella fase delle loro vite dove, per usare una felice espressione, andò in scena, per entrambi, il “preludio del genio”. Giacomo Leopardi, il conte Giacomo Taldegardo Leopardi (immagine a destra), nacque a Recanati, il 28 giugno 1798. Era figlio di genitori molto particolari. Il padre Monaldo, nobile, intellettuale, era il responsabile del dissesto economico familiare. Un uomo che viveva con la testa tra le nuvole, o, meglio, tra i libri, e incapace ad amministrare i beni di famiglia, terreni, fattorie, campi. Fu scrittore anch’egli, eclissato, ovviamente, dalla fama del figlio. Fu lui ad istillare nel piccolo Giacomo l’amore per le lettere. Aveva una biblioteca prodigiosa, visitabile, ancora oggi, a Recanati. Era un brav’uomo, a modo suo affettuoso con i dieci figli, ma, ripeto, totalmente incapace nella gestione degli affari di famiglia. La madre, Adelaide dei marchesi Antici, fu l’amministratrice economica della casa, riuscendo anche ad assestare il patrimonio, a prezzo di grandi sacrifici. Una donna dura, che non mostrava affetto, arida, molto religiosa, ai limiti della superstizione. Una figura, quindi, tutt’altro che materna. Il rapporto di Leopardi con la madre è, ancora oggi, oggetto di studio. Vi è un solo luogo nella sua opera, nelle Operette morali, in cui il poeta identifica la cattiva Natura con la madre, ma è comunque troppo poco per ritenere che sia l’interpretazione preponderante del suo rapporto con donna Adelaide. Lucio Dalla nacque a Bologna, il 4 marzo 1943. Il padre, Giuseppe, era un commesso viaggiatore, poco impegnato nel suo lavoro, quanto piuttosto nelle sue passioni, la caccia e la pesca. Un bell’uomo, alto e prestante. Morì di tumore quando Lucio aveva solo 6 anni. Il dolore di quella perdita avrebbe accompagnato il cantante per tutta la vita, influenzandone anche la poetica. La madre, Iole, era una sarta, una donna energica e risoluta, che dovette farsi carico dell’educazione del figlio e della sua crescita, in una Italia che usciva devastata dalla guerra. Una figura fondamentale nella vita di Lucio. La balena bianca, come è stata spesso chiamata. Giacomo Leopardi trascorse l’infanzia e la prima giovinezza nel palazzo di famiglia a Recanati, più propriamente, nella biblioteca del palazzo, in lunghissime ore di studio. A quindici anni già conosceva il latino, il greco, l’ebraico, l’inglese e il francese. Componeva trattati di astronomia e di chimica. Era già un vero e proprio erudito. Aveva mostrato, quindi, a quell’età, le caratteristiche del genio letterario che lo avrebbero consacrato alla fama immortale. Lucio Dalla (immagine a sinistra) ebbe, in sua madre, il vero incentivo della sua carriera d’artista. La donna lo faceva esibire prima delle sfilate di moda che teneva d’estate, a Manfredonia, dove si recava per vendere i capi delle sue collezioni. A dieci anni, Lucio era un animale da palcoscenico. Ci sono delle bellissime fotografie nel libro di Angelo Riccardi, “Ti racconto Lucio Dalla” (2014), che lo ritraggono con gli abiti di scena. Fa tenerezza. Era davvero un bel bimbo, disinvolto, sicuro di sé. Gli insuccessi scolastici, l’abbandono della scuola al quinto ginnasio e l’amore per la musica, per quel clarinetto, che gli era stato regalato da un amico di famiglia, il forsennato studio dello strumento, da autodidatta, e l’arrivo a Roma, lo proiettarono nel mondo della musica, grazie anche alla protezione di Gino Paoli. Questi, infatti, gli aveva consigliato di affrancarsi da I Flippers e di intraprendere la carriera solista. Appare chiaro, quindi, come entrambi, sin dall’infanzia, manifestassero quelle qualità che, poi, avrebbero sublimato nelle proprie creazioni artistiche. Vi ho già detto della luna. La poetica di Leopardi e di Dalla è una poetica naturalistica, in cui con gli elementi della natura è costante. Sono riuscito a contare almeno cinquanta occasioni in cui, nelle canzoni di Dalla, compaia la luna. Di meno nelle poesie e prose di Leopardi. Questo dialogo dei due, però, si compie in modi differenti. Dalla vi dialoga come un innamorato che si rivolge al garante del suo amore per la natura. Nella poetica dalliana la luce della luna illumina l’esistenza notturna degli uomini, nella notte della vita, quando le cose non appaiono ben chiare e definite nei loro contorni. La luna di Dalla ha anche una funzione salvifica e apotropaica. Pensate ai versi di Caruso: “Ma quando vide la luna uscire da una nuvola/ gli sembrò più dolce anche la morte”. In Leopardi, invece, le invocazioni alla luna sono disperate richieste di aiuto contro una Natura che il poeta giudica essenzialmente maligna e dannosa per gli uomini. Sono grida infelici di una grande mente che si sforza di ricercare qualche positività in un sistema di elementi che lui giudica pernicioso per l’uomo. Questa concezione viene fuori, principalmente, nel Canto notturno di un pastore errante per l’Asia e in Alla luna, opere al cui dialogo con l’astro l’autore affida lo svelamento delle proprie concezioni filosofiche sulla natura, sulla vita e sulla condizione degli uomini. Un altro elemento che accomuna i due autori, è un concetto di derivazione classica: il binomio Eros-Thanatos, Amore e Morte. Esso sottintende al capolavoro di Dalla, Caruso, perché ha attraversato anche la sua vita. Lucio si è portato dietro, per sempre, il ricordo della tragica fine del padre e, altre volte nella vita, ha perso persone a lui care. Questi sentimenti sono presenti nella sua canzone più celebre. Il grande tenore Enrico Caruso, nell’ora della morte, è innamorato della fanciulla sorrentina, alla quale sta dando lezioni di canto. L’amore, Eros, nell’ora della Morte, Thanatos, la rende più dolce, in un binomio indissolubile. “Amore e morte”, invece, è il titolo di un canto di Leopardi, scritto all’epoca dello sfortunato amore per Fanny Targioni Tozzetti, per cui, certamente risente della delusione per la mancata corrispondenza amorosa. Anche per Leopardi, Amore e Morte rappresentano un binomio indissolubile: “Fratelli, a un tempo stesso, Amore e Morte/ ingenerò la sorte”, recita il citato canto. Nella concezione leopardiana, tipicamente estremista, la morte non è soltanto un male a cui bisogna rassegnarsi, ma, vista in contrapposizione con il dolore, la malattia e le pene dell’esistenza, assume connotazioni positive, come una sorta di miglioramento rispetto allo stato abituale dell’uomo, una liberazione dai laceranti dolori dell’animo. La morte è un punto di arrivo, una soluzione finale, una meta verso cui tendere, un traguardo indolore e quieto, che rappresenta la fine di ogni tormento. Un ultimo, importante legame, che accomuna questi due personaggi straordinari: l’amore per Napoli. Quello di Lucio Dalla per Napoli, per Sorrento e per il Sud Italia, come è ormai noto, grazie anche alle recenti pubblicazioni di Raffaele Lauro (“Caruso The Song – Lucio Dalla e Sorrento”, 2015, “Lucio Dalla e San Martino Valle Caudina – Negli occhi e nel cuore”, 2016, e “Lucio Dalla e Sorrento Tour – Le tappe, le immagini e le testimonianze”, 2016), è stato un amore fatto di rapporti sinceri con le persone, di lunghe frequentazioni, di curiosità per gli aspetti della vita delle genti del Sud. Lucio era interessato alla vita del Sud. Aveva dei taccuini neri sui quali annotava sempre tutto. Era un curioso come il don Ferrante de I promessi sposi. Anche Leopardi amò Napoli, seppure di un amore bisbetico e insofferente, per un ambiente, soprattutto intellettuale, che considerava alquanto arruffato. Leopardi morì a Napoli, a 39 anni, più precisamente, a Villa delle Ginestre, a Torre del Greco, ospite del fidato amico Antonio Ranieri. A Napoli è, ancora oggi, la sua tomba. In quella villa aveva composto il suo testamento spirituale, quella La ginestra, che nel 2014, è stata protagonista della scena di chiusura del film di Mario Martone, Il giovane favoloso, dedicato proprio alla breve esistenza del poeta di Recanati. L’attore Elio Germano, che interpreta Leopardi, ne recita alcuni versi, mentre il Vesuvio, lo “sterminator Vesevo”, erutta. Pochi giorni prima di morire, a Torre, Leopardi aveva composto Il tramonto della Luna. Ancora una volta, la luna.
Quanto riportato di seguito è soltanto un infinitesimo aspetto della maestà poetica di Dante Alighieri e della sua opera (tratto dalla mia “La Letteratura Italiana. Dalle origini al primo Novecento”, capitolo “Dante Alighieri”):
Ci pensò proprio Dante a prendersi la rivincita, per sé stesso e per tutti i poeti amanti non corrisposti (me compreso!). Leggete questi versi:
I’ son Beatrice che ti faccio andare; vegno del loco ove tornar disio; amor mi mosse, che mi fa parlare.
Quando sarò dinanzi al segnor mio, di te mi loderò sovente a lui.
(Inf., canto II, vv. 70-74)
Ci troviamo nel II canto dell’Inferno. È il tramonto. Superata la selva oscura e le tre fiere, il poeta è immobile, impaurito e ormai deciso a non intraprendere più il viaggio nell’aldilà, nonostante la presenza rassicurante di Virgilio, sua guida. A quel punto, l’autore dell’Eneide gli riferisce di non temere, poiché la sua salvezza sta a cuore a tre donne, la Madonna, Santa Lucia e, sì, proprio a lei, Beatrice: “Una donna beata e bella, con gli occhi più lucenti di una stella, si è rivolta a me, con voce soave e angelica, chiedendomi di soccorrerti, perché ella, dopo aver udito che ti eri smarrito, è arrivata troppo tardi. “Anima gentile e onesta – mi ha pregato – ti imploro di aiutarlo, affinché io ne abbia consolazione. Io sono Beatrice ed è per amore che te lo chiedo” (amor mi mosse, che mi fa parlare). La donna, infatti, dal Paradiso, era scesa nel Limbo, dove dimorava l’anima di Virgilio, per esortarlo a proteggere e seguire colui il quale, io, qui e adesso, secondo quanto riferiscono i suoi meravigliosi versi, posso finalmente definire il suo amato!!! Dopo essere stata celebrata lungo tutta la sua breve vita e molto oltre, seppure andata in sposa a un altro uomo, alla fine, Beatrice ricambia l’amore di Dante. Dante ce l’ha fatta! Vi giuro che, scrivendo questi ultimi righi, non sono riuscito a trattenere la commozione! È una mia opinione, ma mi piace ritenere che tutto, proprio tutto lo slancio spirituale dal quale è nata la Divina Commedia, sia contenuto in questi cinque versi del canto II dell’Inferno, pronunciati da Beatrice.
John William Waterhouse, “L’incontro di Dante con Beatrice”, 1915
C’è poco da fare. È stato il più grande di tutti. Al di là di quanto abbiate potuto conoscere di lui e delle sue opere sfogliando le pagine, a lui dedicate, in questo libro, vi consiglio di andare a prenderli i suoi libri e di leggerli voi stessi. Ho sempre pensato che la migliore storia della letteratura sia quella che ognuno di noi si “fa” da solo, semplicemente leggendone e meditandone le opere, senza la mediazione e i filtri interpretativi di quanti, seppure con competenza, esplicano i contenuti di ciò che è stato scritto da altri. Cominciate proprio con Dante. In fondo, sarebbe un bel modo per essergli grati, per esprimere riconoscenza a quella mente eccelsa, instillata in un uomo di“mediocre statura, d’onestissimi panni sempre vestito, col volto lungo, il naso aquilino e gli occhi grossi, le mascelle grandi e dal labbro di sotto era quel di sopra avanzato, i capelli e la barba spessi, neri e crespi e sempre nella faccia malinconico e pensoso” (Giovanni Boccaccio, Trattatelo in laude di Dante, XX), che io immagino ancora passeggiare lungo l’Arno e per i suoi ponti, nell’amata Firenze, immerso nei propri pensieri, tutti per Beatrice e per i versi che, di lì a poco, le avrebbe composto, solo, nella sua piccola stanza, attraverso il cui lucernario, ogni notte, rivolgendo lo sguardo sognante e incantato verso il cielo, avrebbe, poi, scorta, meravigliosa, risplendere tra le stelle.