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La mia nuova pubblicazione poetica

 

CRONACHE DELLA MERAVIGLIA, in CERS, Antologia poetica, ALETTI EDITORE, 2015

 

cers

 

Il titolo dell’opera, Cers, implica un viatico romantico, simbolico ed evocativo: il nome di un vento che trasporti questi componimenti in fuga verso altri territori, altre culture, altri lettori, altri autori. Cers è un vento francese che soffia da nord-ovest in Languedoc inferiore, freddo in inverno, caldo in estate. Porta bel tempo. È anche chiamato Narbonne, in onore della regione da cui proviene. All’interno di questa antologia si susseguono, in ordine alfabetico: Francesca Di Gioia con Portate dal vento; Anna Latagliata con Tempo Astrale; Giuseppe Perrone con Le storie che non vedo; Riccardo Piroddi con Cronache della meraviglia; Larisa Elena Rotaru con Cuore Libero; Umberto Viviani con Poesie a km Zero.

(dalla prefazione di Giuseppe Aletti)

 

Il Crepuscolarismo e Guido Gozzano

 

I primi vent’anni della ma vita li ho trascorsi al mio paese, Sant’Agata sui due Golfi. Vivevo, insieme con i miei genitori e mia sorella, al secondo piano di un palazzetto giallo. Il balcone della mia camera da letto affacciava su un panorama mozzafiato: a sinistra, la collina di Santa Maria della Neve, dove potevo vedere l’edificio in cui avevo frequentato le scuole elementari, poi, il Monte San Costanzo, dalla cui cima si gode uno degli spettacoli più belli del mondo, 20150210_172906al centro della scena, l’isola di Capri e sulla destra, il colle del Deserto, col suo cupo monastero. Fin da bambino, mi incantavo, poggiato sulla ringhiera, a guardare, tra ottobre e novembre, il sole tramontare tra Capri e il mare. Ho quasi sempre accostato questa immagine al ricordo della mia infanzia e della mia terra bellissima ogniqualvolta, essendone lontano, ho pensato ad esse. Anche il termine Crepuscolarismo mi rimanda a questa dolce memoria per cui, a prescindere, ne sono affezionato. In qualche modo, questa definizione ha a che fare con il tramonto, perché fu adoperata per definire quella tendenza poetica che si sviluppò in Italia nei primi quindici anni del Novecento. Gabriele D’Annunzio aveva celebrato la poesia eroica, ponendo il poeta nella posizione di animatore della storia e creatore delle forze del futuro (il solito megalomane!). I crepuscolari, al contrario, rifiutavano questa concezione del poeta e della poesia, ripiegando su temi e movimenti più semplici, di declino, smorzati e spenti, comuni e usuali, come il sole che tramonta, appunto. Ecco il perché del termine Crepuscolarismo. Non so se avete mai fatto caso a ciò: in letteratura, funziona come in fisica, perché, ad ogni azione, corrisponde una reazione uguale e contraria. E allora, dopo il Petrarchismo c’è stato il Barocco, dopo il Barocco, l’Arcadia, dopo l’Arcadia, l’Illuminismo, dopo l’Illuminismo, il Romanticismo, dopo il Romanticismo, la Scapigliatura, dopo la Scapigliatura, il Verismo, dopo il Verismo, la poesia dannunziana, dopo la poesia dannunziana, il Crepuscolarismo and so on, come dicono gli inglesi. guido_gozzanoOgnuno di questi movimenti poetici deve qualcosa a quello che lo ha preceduto, soprattutto perché, ne viene fuori come contrapposizione, quasi a dire: “Io sono così, perché tu sei stato colì!” È un po’ come alle elezioni, dove ogni partito o coalizione si proclama diverso e migliore di chi era prima al governo, ma nei fatti, poi, non cambia mai niente. In letteratura per fortuna, non funziona così. Ogni singola stagione culturale ha dato qualcosa di importante alla sua storia. Comunque, torniamo ai nostri crepuscolari. Il più famoso tra essi fu senza dubbio Guido Gozzano. Nato a Torino nel 1883, studiò con poco profitto alle scuole superiori, si iscrisse all’Università senza, però, laurearsi. Si interessò soltanto alla letteratura, praticamente. Visse molto poco, 33 anni, distrutto dalla tisi, malattia che tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, fece strage non solo di poeti e letterati, ma anche di gente comune perché, a differenza dei concorsi pubblici, dove si fa a chi figlio e a chi figliastro, come si suol dire, la tisi non ha mai guardato in faccia a nessuno, né ha accettato raccomandazioni: per questo infame morbo erano tutti figli di NN! Il suo compendio poetico che vale la pena leggere è “Colloqui”. La poetica di Gozzano risente della malattia e del continuo confrontarsi con essa, dell’incertezza del futuro e del rifugio in un passato tutto da ricordare. Avrebbe desiderato solo essere felice, poter amare ed essere amato, ma la tisi glielo impedì. Ne sono dimostrazione due tra le sue liriche migliori:

Loreto impagliato ed il busto d’Alfieri, di Napoleone
i fiori in cornice (le buone cose di pessimo gusto),
il caminetto un po’ tetro, le scatole senza confetti,
i frutti di marmo protetti dalle campane di vetro,
un qualche raro balocco, gli scrigni fatti di valve,
gli oggetti col monito, salve, ricordo, le noci di cocco,
Venezia ritratta a musaici, gli acquarelli un po’ scialbi,
le stampe, i cofani, gli albi dipinti d’anemoni arcaici,
le tele di Massimo d’Azeglio, le miniature,
i dagherottìpi: figure sognanti in perplessità,
il gran lampadario vetusto che pende a mezzo il salone
e immilla nel quarzo le buone cose di pessimo gusto,
il cùcu dell’ore che canta, le sedie parate a damasco
chèrmisi… rinasco, rinasco del mille ottocento
cinquanta!

(L’amica di nonna Speranza, vv. 1 – 14)

«Piccolino, ti piaccio che mi guardi?
Sei qui pei bagni? Ed affittate là?»
«Sì… vedi la mia mamma e il mio papà?»
Subito mi lasciò, con negli sguardi
un vano sogno (ricordai più tardi)
un vano sogno di maternità…
«Una cocotte!…»
«Che vuol dire, mammina?»
«Vuol dire una cattiva signorina:
non bisogna parlare alla vicina!»
Co – co – tte… La strana voce parigina
dava alla mia fantasia bambina
un senso buffo d’ovo e di gallina…
Pensavo deità favoleggiate:
i naviganti e l’Isole Felici…
Co – co – tte… le fate intese a malefici
con cibi e con bevande affatturate…
Fate saranno, chi sa quali fate,
e in chi sa quali tenebrosi offici!
Un giorno –  giorni dopo –  mi chiamò
tra le sbarre fiorite di verbene:
«O piccolino, non mi vuoi più bene!…»
«È vero che tu sei una cocotte?»
Perdutamente rise… E mi baciò
con le pupille di tristezza piene.

(Cocotte, vv. 19-43)

crepuscolo1

Gozzano non si atteggiò mai a grande poeta, perché verseggiò con tristezza, quasi piangendo. Come me. Una volta, scrissi una poesia di getto, per una donna che mi aveva abbandonato improvvisamente, dopo due mesi che eravamo insieme. Impiegai meno di dieci minuti a comporla e lo feci con le lacrime che grondavano dagli occhi, nel vero senso della parola. Dovetti tenerli quasi chiusi, per non allagare la tastiera del computer. Non è crepuscolare, ma esprime, comunque, il bisogno di impedire il crepuscolo di una passione. Voglio farvela leggere:

La perla e il pescatore

Seppure raccogliessi tutto il silenzio che ti è succeduto,
per farne un’unica parola d’amore
che recasse il tuo nome,
seppure avessi la possibilità,
un’unica, sola, possibilità ancora
di averti davanti e guardarti sorridere,
seppure pensassi di annegare il mio cuore
nel dolore che piango
al ricordo incomparabile dei tuoi occhi,
seppure maledicessi quelle mani che mi carezzavano,
quelle labbra che baciavano le mie
e i raggi di luna in una notte d’inverno,
e seppure permettessi alla rabbia di gridare,
per provare a trovare una ragione,
che sia pure vana e illusoria,
potrò mai dimenticarti?
Non voglio! Non voglio che il silenzio diventi parola,
che il tuo sorriso, i tuoi occhi, le tue mani, le tue labbra
siano solo ricordo.
Non voglio una perla,
voglio pescare lì dove il mare è profondo,
dove mi troverai quando risalirò dall’abisso
in cui la tua assenza mi ha fatto sprofondare.

 

 

Giuseppe Gioachino Belli: er poeta de Roma

 

Ma cche Ffajòla, Cristo, è ddiventata
sta Roma porca, Iddio me lo perdoni!
Forche, che state a ffà, ffurmini, troni,
che nun sscennéte a ffanne una panzata?

(Campa e llassa campà, vv. 1 – 4)

Romano de Roma, come pochissimi altri nella storia della Letteratura Italiana, nacque nel 1791. Non aveva compiuto 16 anni, che entrambi i genitori erano già morti: il padre di colera, la madre non si sa, ma, certamente, non di vecchiaia. Il giovanotto allora, dovette abbandonare gli studi gioacchino_bellie mettersi a lavorare, esercitando la professione di famiglia, il contabile. Si arrangiò in ogni modo possibile, facendo sempre salti mortali per portare qualche soldino a casa. Per arrotondare, dava lezioni private di italiano, geografia e aritmetica. Nel 1816, sposò una vedova, Maria Conti, molto più anziana di lui. Si buttò a capofitto nella vita matrimoniale anche perché, la dote della moglie, gli permise di vivere un po’ più tranquillamente. Di tanto in tanto, viaggiò, ebbe tempo sufficiente per soddisfare le sue curiosità letterarie, partecipò alla vita culturale romana, entrando a far parte dell’Accademia Tiberina, di cui fu anche segretario e presidente. Trascorse il resto della vita a comporre poesie in romanesco, fino a quando, la sera del 21 dicembre 1863, un ictus lo stroncò. Qualche tempo prima di morire, aveva detto al figlio: “Ah Ciro, me raccomanno, quanno moro devi da bbrucià tutte ‘ste cartacce mia, ‘a capito!”. “Sì ah papà, nun te preoccupà, quanno che sarà ‘o farò!”. Per fortuna, Ciro non lo ascoltò.

Torzetto l’ortolano a li Serpenti
prometteva oggni sempre ar zu’ curato
c’a la su’ morte j’averìa lassato
cinquanta scudi e ccert’antri ingredienti.

Quanto, un ber giorno, lui casc’ammalato;
e ccurreveno ggià cquinisci o vventi
tra pparenti e pparenti de parenti
a mmostrajje un amore indemoniato.

Ecchete che sse venne all’ojjo – santo;
e ‘r curato je disse in ne l’ontallo:
“Ricordateve, fijjo, de quer tanto…”

Torzetto allora uprì ddu’ lanternoni,
e jj’arispose vispo com’un gallo:
“Oggne oggne, e nnu mme roppe li cojjoni.

(Er testamento der Pasqualino)

Belli è stato, senza dubbio alcuno, il poeta del popolo romano. In oltre 2000 sonetti, lo cucinò in tutte le salse, ce ne ha fatte sapere di tutti i colori, dando voce ai plebei, facendogli parlare il loro linguaggio, pieno di parolacce, insulti e scurrilità, con i quali essi lamentavano01_02_Cat i loro bisogni, mostrando i maltrattamenti e le prepotenze subite dal clero e dalla nobiltà. La comicità che ne viene fuori è spesso esilarante, ma la sua produzione rappresenta anche uno specchio fedele e profondo della Roma del Papa Re, una città alquanto arretrata, sporca, con le greggi di pecore che andavano a brucare l’erba tra le rovine dell’antico impero, stracolma di bordelli e di furfanti, mendicanti e pover’uomini ad ogni angolo della strada, forche dalle quali pendevano malfattori e spesso sventurati innocenti, gente che si arrangiava come poteva, furbescamente e un po’ truffaldinamente, ma, tutto sommato, con un grande cuore. Questo è concentrato nella poesia di Belli.

Accidenti a l’editti, a cchi l’inventa,
chi li fa, chi li stampa, chi l’attacca,
e cchi li legge. E a vvoi st’antra patacca
schiccherata cor brodo de pulenta!

E addosso all’ostarie! ggente scontenta,
fijji de porche fijje d’una vacca!
Si all’ostaria ‘na purcia sce s’acciacca,
cqua ddiventa un miracolo diventa!

Papa Grigorio, dì ar Governatore
che sto popolo tuo trasteverino
si pperde l’ostarie fa cquarc’orrore.

Noi mànnesce a scannatte er giacubbino,
spènnesce ar prezzo che tte va ppiù a ccore,
ma gguai pe ccristo a cchi cce tocca er vino.

(L’editto de l’ostarie)

Come lui stesso ebbe a dire: “Vojo fà de a plebe romana, monumento.” E ci è riuscito, perché nei suoi sonetti quella plebe c’è tutta, parla, si sbraccia, cerca attenzione e la ottiene. I suoi concittadinibelerma1 lo ricambiarono, erigendogli un bel monumento nella piazza omonima, proprio all’ingresso del rione Trastevere (foto a sinistra). Tanto per sorridere ancora un po’: nel 1827, Giuseppe Gioachino Belli raggiunse Milano perché in molti, a Roma, gli avevano detto che nella capitale del Lombardo – Veneto avrebbe potuto trovare tanti uomini di lettere e bravi rimatori come lui. Ed infatti, vi conobbe il poeta Carlo Porta. Sarebbe stato bello poterli sentire tutt’e due, uno in milanese e l’altro in romanesco, scambiarsi versi e versacci. Forse per rispondergli con le rime, o, forse, per imitazione, Belli compose un sonetto simile a Dormiven dò tosann tutt do attaccaa di Porta (a breve, un articolo su questo letterato milanese). Il “nobile” argomento è sempre lo stesso:

Àghita, sai? je l’ho ggià ddetto a cquello:
e llui s’è sbottonato li carzoni,
e mm’ha ffatto vedé ccome un budello
attaccato a ddu’ ova de piccioni.

Quer coso disce che sse chiama uscello,
oppuro cazzo, e ll’antri dua cojjoni.
Io je fesce: “E cch’edè sto ggiucarello?
E sti du’ pennolini a cche ssò bboni?”

Mo ssenti, Àghita mia, quello che rresta.
Disce: “Fa ddu’ carezze a sto pupazzo.”
Io je le fesce, e cquello arzò la testa.

Perantro è un gran ber porco sto sor cazzo,
perché ppoi, strufinannome la vesta,
ce sputò ssopra, e mme sce fesce un sguazzo.

(Le confidenze de le ragazze)

 

 

Spartiti

 

 

Hai voluto premere a tempo
i tasti della mia passione
e con questi
mi hai insegnato a suonare
e insieme abbiamo scritto partiture
che io ho eseguito
e nelle quali ho stonato
e mi son perso
dove tu mi hai ritrovato
e sono stato felice.
Sento risuonarne le note
come suono
che non è più suono
che è muto
ma canta di te
nelle notti passate
a modulare la voce
in notturni malinconici e appassionati
al chiaro di luna
e le mie lacrime brillano
sulla tua immagine riflessa
da qualche parte
nel mio cuore.
Questo canto sì,
avrà fine
ma voglio che sia
un ad libitum
che duri.
Per tutta la vita.

 

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Guido Guinizzelli

 

Il primo che, nella Letteratura Italiana, quando si trattò di parlare d’amore, mischiò le carte in tavola, calando, poi, un paio di carichi da 11 punti, fu Guido Guinizzelli. Nato a Bologna nel 1235, figlio di un personaggio molto noto in città, il giudice Guinizzello da Magnano, studiò diritto nella famosissima Alma Mater Studiorum, l’Università più antica di tutta Europa, diventando avvocato. cavalcanti_02La sua vera passione, tuttavia, fu la politica. Questa, però, gli rovinò la vita: schieratosi con la famiglia ghibellina dei Lambertazzi, la seguì in esilio, insieme con la moglie, Bice della Fratta e con il figlio, Guiduccio, quando, nel 1274, i guelfi Geremei gli fecero trovare, fuori le mura di Bologna, le valige e tre biglietti di sola andata per la provincia di Padova. Morì, lontano da casa, nel 1276. Sebbene non fiorentino, Guinizzelli è stato considerato il primo poeta stilnovista. La sua canzone, Al cor gentil rempaira sempre amore, è, infatti, non soltanto il manifesto della propria arte, quanto anche quello della poetica dello Stil Novo. In essa, l’autore ci tiene a dire che amore e core gentile devono per forza compenetrarsi e, attraverso una serie di metafore, dalle pietre preziose alla fiamma della candela, fino ai raggi del sole, dimostra come, se un animo non è predisposto ad amare, ovvero non è gentile, hai voglia il sole di riscaldare il fango, come dice lui, quello sempre fango rimane.

Al cor gentil rempaira sempre amore,
come l’ausello in selva a la verdura;
né fe’ amor anti che gentil core,
né gentil core anti ch’amor, natura:
ch’adesso con’ fu ’l sole,
sì tosto lo splendore fu lucente,
né fu davanti ’l sole;
e prende amore in gentilezza loco
così propïamente
come calore in clarità di foco.

(Al cor gentil rempaira sempre amore, vv. 1-10)

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La donna celebrata da Guinizzelli, caratteristica comune, poi, a tutti i suoi colleghi, è una creatura la quale, per la sua bellezza, esalta l’uomo e lo fa salire al cielo. Ella, proprio come un angelo, è mediatrice fra la materialità del nostro mondo e la spiritualità di quello ultraterreno, arrivando fino a Dio. Una scala per il paradiso, in definitiva!

Splende ’n la ’ntelligenzïa del cielo
Deo crïator più che ‘n nostr’occhi ’l sole:
ella intende suo fattor oltra ’l cielo,
e ’l ciel volgiando, a Lui obedir tole;
e con’ segue, al primero,
del giusto Deo beato compimento,
così dar dovria, al vero,
la bella donna, poi che ’n gli occhi splende
del suo gentil, talento
che mai di lei obedir non si disprende
.

(Al cor gentil rempaira sempre amore, vv. 41-50)

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A differenza dei compagni poeti, quando Guido incontrava la sua amata, non traballava o si faceva venire i tic. Restava immobile, come una statua di ottone, e pensava, pensava, pensava:

Lo vostro bel saluto e l’gentil sguardo
che fate quando v’ encontro, m’ancide:
Amor m’assale e già non ha riguardo
s’elli face peccato over mercede […]
 
remagno come statüa d’ottono,
ove vita né spirto non ricorre,
se non che la figura d’omo rende.

(Lo vostro bel saluto e l’gentil sguardo, vv. 1-4 e 12-14)

Con la coda dell’occhio la guardava salutarlo e il suo cuore gentile si riempiva di gioia, ma con tutto quello che gli si scombussolava dentro, rischiava ogni volta un infarto. Scrisse cinque canzoni e quindici sonetti, non tutti celebrativi e felici come quelli che abbiamo letto insieme. Qualcuno, infatti, anche un po’ triste, specialmente se composto quando la sua donna se la tirava troppo.

 

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Fame

 

Una totale assenza di poesia. Ecco quello che più mi scoraggia dello stare a questo mondo. L’incapacità da parte dei più ad essere poesia, questa fin troppo generalizzata inabilità al silenzio, alle cose in controluce, all’introspezione e all’introiezione. Non ci hanno insegnato a leggerci dentro, non ci hanno insegnato nessuna ermeneutica di noi stessi. Per questo poi mangiamo e vomitiamo. Per questo poi mangiamo e restiamo con la fame. Per questo.

Patrick Gentile

 

arteditacere

 

 

Naufragio

 

Gocce di rugiada
bagnano il mio volto!
Il tuo urlo di piacere
mi salva dal naufragio!

(Anonimo Sorrentino, 25 ottobre 2015)

 

Caspar_David_Friedrich_-_Das_Eismeer_-_Hamburger_Kunsthalle_-_02Caspar David Friedrich, “Mare di ghiaccio”, 1824, Amburgo, Kunsthalle

 

La pioggia

 

 

La pioggia monda di sé
il baccano del tempo
che abbiamo vissuto.
Il tuo giovane viso,
ormai già avvizzito,
si dissolve nei rivoli
d’acqua e 
di ricordi.

Nuvole scure si raccolgono ancora
all’orizzonte dei nostri giorni.
La tua mano, raggio di luce,
non può più diradarle.
Temporali imminenti
ci tormentano il cuore.

 

pioggia