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Brevi ragguagli su alcuni aspetti della poetica di Salvatore Di Giacomo

 

 

Salvatore Di Giacomo, in tutta la sua opera, ha espresso il senso drammatico e gioioso insieme, che caratterizzava l’anima del popolo napoletano e le bellezze naturali della città partenopea. E’ stato capace di raccogliere quei colori, quella musicalità e quella poesia, tipicamente napoletani, sui fogli di carta prima e, poi, musicati da compositori, negli spartiti musicali. Prostituzione, malavita, miseria, bassi, vicoli, umanità sofferente, umanità gioiosa, amore, passione, vi erano rappresentati con una vivacità quasi teatrale. Il sapiente uso del dialetto, così dolce e musicale, tuttavia, perfettamente vero e veridico, faceva di un raffinato intellettuale, un piccolo 03-DI-GIACOMOborghese che si calava nello spirito e nell’anima di un popolo e ne diventava cantore, con un realismo senza pari, esprimendo, nei versi, le sfumature e le sfaccettature peculiari di una plebaglia, di quel ventre di Napoli (Matilde Serao), che, così, acquistava dignità poetica. La grandezza e l’importanza dell’opera di Di Giacomo, rispetto al popolo napoletano, è stata duplice: da un lato, proprio per la sua condizione di piccolo borghese, stupiva la capacità descrittiva di un mondo che doveva, per nascita, per storia personale e per educazione, non appartenergli, ma che, evidentemente, sentiva visceralmente suo; dall’altro, il lascito poetico, divenuto lo specimen di quel mondo. Nessun altro aveva saputo, fino agli inizi del Novecento, diventare un così abile e mirabile testimone poetico del popolo napoletano. La poetica di Di Giacomo risentiva, certamente, degli influssi del Verismo, il movimento letterario che, ispirandosi al Naturalismo francese, aveva pervaso la letteratura italiana della seconda metà dell’Ottocento. L’Autore, comunque, aveva interpretato il Verismo o, meglio, lo aveva adattato alla propria sensibilità, alla propria condizione e all’ambiente, nel quale si era trovato a vivere. Di Giacomo, infatti, rispetto a Giovanni Verga, maggiore esponente del Verismo, il quale riproduceva la realtà in modo diretto, crudo, impersonale, tale da rendere i suoi personaggi protagonisti di storie volte a mostrare quadri di decadenza, di fallimento, di impotenza, nei confronti degli eventi, ancorché di passiva e fatale accettazione degli stessi, tratteggiava, dipingeva i suoi personaggi e le loro storie con la fresca aria del mattino, con i raggi tenui della luna, con una petrarchesca idealizzazione di tipi e di modi, che sembravano cristallizzati in una realtà fuori dal tempo, grazie all’uso del dialetto napoletano, dolce e raffinato, il cui impiego aveva lo scopo non della mera rappresentazione, quanto piuttosto del vero che diventa musica, timbro, colore e sensazione, alla maniera dei pittori impressionisti. Il Verismo diciacomiano non era un Verismo dall’interno, non era la voce diretta del reale che agiva, ma era lo sguardo dell’autore su quelle azioni. Nella poesia di Di Giacomo, era senza dubbio il reale a produrre l’evento e il movimento della storia, ma era l’autore a darne contezza, inevitabilmente, riproducendolo attraverso il suo vissuto e la sua visione del mondo. Ciò era antitetico al napoli-comera-libromodus scribendi schiettamente verista (Giovanni Verga, Luigi Capuana, Federico De Roberto), nel quale l’autore diventava mero narratore di realtà che erano completamente al di fuori di esso e senza alcun contatto con esso. Per quanto riguarda il rapporto con le donne, pur volendo attribuire una fortissima valenza al legame di Di Giacomo con la madre (si sarebbe sposato tardi, nel 1916, dopo la morte della madre), non era divenuto così totalizzante nella sua visione della donna e nel suo rapporto con essa. Si poteva ipotizzare una incapacità, da parte del poeta, di sostituire, nel suo cuore, l’immagine della madre, con quella di un’altra donna, in grado di occupare un posto altrettanto importante. Con il rischio, tuttavia, di giudicare le donne cantate dal poeta nient’altro che la stessa rappresentazione, con caratteri diversi, della madre. Quelle donne, quindi, sarebbero state figure femminili fittizie, meri artifici della sua poesia. C’era anche chi, tra gli stessi amici e colleghi, leggeva la presenza delle donne, nell’opera digiacomiana, come strettamente collegata al suo concetto di amore. Le donne, in Di Giacomo, diventavano lo strumento con il quale il poeta offriva se stesso e i suoi sentimenti al mondo, rappresentando l’amore nei suoi molteplici aspetti, tutti umani. In questo caso, la stessa varietà delle figure femminili di Di Giacomo rifletteva l’umanità del suo sentimento amoroso, che si manifestava inquieto, instabile, dispettoso e a tratti doloroso. L’amore era intenso, malinconico e perduto nelle tante sfaccettature della vita quotidiana. Le donne e l’amore, in Di Giacomo, erano l’aspirazione alla personificazione, non cosciente, di un desiderio molto più complesso: ricercare e concentrare l’essenza dell’umanità. Quasi una galleria-museo, dove erano esposti i diversi quadri dell’amore, tutti rappresentati attraverso donne diverse, con storie diverse, con passioni diverse. Donn’Amalia ’a Speranzella, la donna colta nell’atto di friggere le frittelle e l’osservatore che l’ammirava, desideroso della sua bellezza; Zì munacella, una ragazza che, per salvare il suo innamorato, condannato a morte per aver commesso un delitto passionale, si digiacomo-elisaaviglianofaceva monaca, senza sapere che quel delitto non era stato consumato per lei, ma per un’altra donna; Palomma ‘e notte, una donna-farfalla, la quale, per esercitare la propria libertà, rischiava di bruciarsi: Carolina era come una farfalla che girava e rigirava intorno a una candela che la attraeva, come se fosse stata un fiore, nonostante il poeta la mettesse in guardia dal prendere fuoco; ‘E ttrezze e Carulina, dove il poeta, con dispetto, esortava il pettine della donna desiderata a strapparle tutti i capelli, lo specchio nel quale ella si mirava ad appannarsi, le lenzuola ad infuocarsi e pungere le sue carni, le piante sul tetto della casa a farsi trovare seccate. Ma, poi, il poeta si mostrava felice di constatare che, nella realtà, avvenisse il contrario. Le donne, in Di Giacomo, assumevano, però, anche caratteri cupi, che le legavano al concetto di morte. La dolce sensibilità del poeta, il suo carattere fragile e mite, capace di soffrire e di far soffrire, e la sua paura del mondo, si esprimevano proprio in queste immagini di donne e morte, donne e dolore, come “Carmela”, ormai sposata, che sembrava aver dimenticato il primo amore, raccontato in un crescendo di ricordi e di gesti; come Tarantella scura, in cui veniva narrata una vicenda di vita e di sangue, o, ancora, in Femmene, femmene!, dove le donne prima ammaliavano e, poi, facevano disperare.

 

 

 

Victoria Embankment

 

 

Tra quelle panchine di ferro scuro,
i lampioni dorati,
i leoni di bronzo accucciati sugl’argini
e i palazzi maestosi di marmo bianco,
lo sfavillio di riverberi biondi, ad aprile,
sulla superficie verdastra dell’acqua,
abbaglia, lungo Victoria Embankment.
Londra,
prima rosa d’amore,
tempio d’amor sventurato,
talamo violato da un destino beffardo
che né io, né tu, abbiamo voluto cambiare,
forse già scritto,
tra le pieghe di una tunica scura
indossata per forza,
e i vicoli stretti che portano a Bartholomew Close.
 
E’ buio.
Non s’ode un rumore,
se non un sospiro affannato.
Il Tamigi accompagna il mio cammino notturno
per l’ultimo requiem di un sogno,
trasportando il mio pianto
e i pappi degli alberi in fiore.


Giuseppe-De-Nittis-The-Victoria-Embankment-LondonGiuseppe De Nittis, “The Victoria Embankment” (1875)

 

Notturno con effetto di luna

 

 

Guardarti.
Provare a sfiorarti mentre dormi,
baciare i tuoi gomiti,
toccarti le labbra col dito
intinto delle lacrime della mia stupidità.
Fissare i tuoi occhi chiusi,
carezzarti i capelli argentati dalla luce della luna,
disegnare i contorni del tuo volto diafano.
 
Ti muovi,
le tue mani s’intrecciano,
non oso svegliarti.
Sono io che son sveglio.
Perdonami.
L’alba.

 

downloadGiuseppe Pietro Bagetti, “Notturno con effetto di luna” (primi dell’800), Torino, Palazzo Reale

 

 

 

Quel giglio bianco

 

 

Quel giglio bianco venato di rosso
con lo stelo reciso
che avrei voluto appuntare
tra i tuoi capelli sciolti.
Avrei voluto adornarti
con questo diadema d’amore
e dopo baciarti, per sentirne il profumo.
Ma non ho avuto il coraggio
e il giglio bianco venato di rosso
è rimasto lì, a seccare al sole cocente.
Misera fine per il più bello dei fiori
triste presagio di una più dura rovina.
Quei giorni passavano splendidi
e i mesi a seguire altrettanto
ma poi dopo tutto marcì
come quel giglio bianco venato di rosso.
Avrei dovuto appuntarmelo io
quella mattina d’estate.
Avrei dovuto piantarmelo dentro.
Di te e di quel giglio
è rimasto solo un intenso profumo.

 

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Lascia che sia io

 

 

Se volessi essere dolce per qualcuno
come i boccioli rosa
di un albicocco in fiore,
lascia che sia io.
Se volessi permettere a qualcuno
di perdersi nei tuoi occhi
dove si può vedere la bellezza
della terra in cui vivi,
lascia che sia io.

Se volessi mostrare a qualcuno
come volare spinto dalla brezza d’estate
che soffia al tramonto,
lascia che sia io.
Se volessi prendere il cuore di qualcuno
con le tue labbra
dello stesso sapore del mare,
lascia che sia io.

Se dovessi aver bisogno di qualcuno
che sappia seguirti da lontano
senza perderti mai, nemmeno un momento,
lascia che sia io.
E se tutto questo
resterà solo un sogno,
lascia che sia io.

 

MarcoSox

 

 

Iperione di fronte alla crisi greca: quella di Hölderlin

 

Nella storia della letteratura mondiale vi è un capolavoro assoluto, scritto in tedesco, nel 1797, da Johann Christian Friedrich Hölderlin (immagine a sinistra), un testo in cui la tensione poetica non è inferiore a quella di autori considerati insuperabili, come Dante Alighieri e William Shakespeare. Quest’opera è Hyperion oder der Eremit in Griechenland (Iperione o l’eremita in Grecia). In essa, è narrata la storia del giovane eponimo greco il quale, tornato nella sua terra e trovatavi una situazione politica catastrofica, scrive all’amico Bellarmino, rimasto in Germania, raccontandogli le sue esperienze. Iperione vive nella metà del XVIII secolo nella Grecia Meridionale, immerso nella natura, dove, introdotto dal saggio pedagogo Adamas al mondo eroico di Plutarco e a quello incantato delle divinità greche, si appassiona alle antichità del suo Paese. Più tardi, conosce Alabanda, unico a condividere i suoi ideali riguardo un progetto di liberazione della sua patria, pur non condividendone la visione sul ruolo dello Stato. 1Poi, l’incontro con Diotima, a Kalaurea, della quale finisce per innamorarsi e che durante un viaggio, di fronte alle rovine di Atene, gli infonde la forza per tramutare i suoi ideali in azione. Il giovane, così, partecipa alla guerra di liberazione della Grecia dai turchi. La lotta, però, lo cambia profondamente: viene ferito gravemente, Alabanda deve fuggire perché ricercato e una lettera gli annuncia la morte di Diotima, consunta dal dolore perché lo crede morto. Iperione comincia a vagare senza meta e senza scopo. In Sicilia, alle pendici dell’Etna e, poi, in Germania. Decide, infine, di tornare in Grecia, dove inizia una vita di eremitaggio, scoprendo, ancora una volta, la bellezza della natura, nella quale risuona la voce della sua amata Diotima. Riesce, così, a superare la tragicità della sua solitudine. La poesia di quest’opera insegna ad amare la Grecia, terra dal cui spirito e da quello del cui popolo, parafrasando un altro grande connazionale di Hölderlin, Georg Wilhelm Friedrich Hegel, è nata tutta la nostra civiltà occidentale.

 

Pubblicato il 20 luglio 2011 su www.caravella.eu

 

 

 

Per sempre

 

 

Per sempre
darò all’amore il tuo nome
lo porterò
a dar luce alle stelle
e la più bella di quelle
avrà il tuo medesimo nome.
Per sempre
seguirò quella stella
dove la notte si perde
nelle tenebre vinte
dal nuovo giorno che nasce
su un raggio di sole che si colora di verde.
Per sempre
lascerò che quel raggio
m’illumini il viso
e riscaldi il mio cuore
troppo a lungo deserto
perché colmo di cose inservibili.
Per sempre, dunque,
darò all’amore il tuo nome
e continuerò a chiamarti
anche se adesso non puoi più sentirmi
io chiamerò il tuo nome
fino a restar senza voce
per sempre.

 

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Via dei Fori Imperiali

 

 

Passeggiavo di lì, in via dei Fori Imperiali,
quei torridi pomeriggi d’estate,
solo, col capo chino, a terra
a scalciare pietruzze e sassolini.
Mi si impolveravano le scarpe,
quando passavo davanti la tomba di Cesare,
faceva caldo e avevo sete,
trovavo sempre quella fontanella.
Meditavo, come uomini prima di me,
su quelle stesse lastre di selce secoli prima,
sospiravo, deliravo, ti bramavo,
ignaro di quanto ci sarebbe accaduto.
 
*******
 
Passeggiavo di lì, in via dei Fori Imperiali
e il vento mi agghiacciava il petto,
solo, con lo sguardo verso l’alto, tra i pini,
a cercare quei torridi pomeriggi d’estate.
L’estate di un altro millennio,
di un tempo perduto, sparito, mancato,
di un desiderio non ancora divenuto reale,
di un altro uomo che ero.
In Via dei Fori Imperiali,
ho innalzato il monumento al mio amore per te,
tra le statue di bronzo e i muri di pietre,
ho sepolto il mio cuore straziato.

 

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Mai più

 

 

Se mi chiedessi perché
non saprei rispondere.
Ma poi, a cosa servirebbe?
Non mi resta che raccogliere i pezzi
rammendare il vestito di te
che avrei dovuto indossare
per non soffrire il freddo
provare a ricordare le parole
per permettere al silenzio
di ricominciare a parlare,
tutte le volte che penserò
a te e al tuo sorriso
alle tue lacrime e alle mie
alle promesse
a quello che tu non volevi
io facessi
a quella piccola Stella
che resterà soltanto un’idea
una splendida idea
come te.
E a tutto quello che
avrebbe dovuto significare
per sempre
e invece adesso
vuol dire
mai più.

 

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