Tu sei sfuggente confessione di delicatezza, il mio dolce risveglio abbandonato. Sei pioggia di luce che mi schiude le mani. Sei liquore che scorre tra le parole, sapore che luccica, melodia che mi risuona negli occhi. Sei splendore abbronzato e rovente, sei rimorso assordante, sei notte di tacite stelle. Sei pensiero di piombo pesante, battere d’ali alluso di farfalla. Sei sorriso amarognolo e nebbia di tocco mielato. Sei alba fragrante, sguardo di labbra taglienti. Sei fiore di voce, vela malinconica della mente. Tu sei sottile confine, il mio confine sottile tra il sogno e la carne.
Seduto su una panca ho soltanto un biglietto per la mia destinazione: il viaggio di una notte. Né valigia, né fogli di carta. Nessuna fermata ho programmato.
La strada è un flusso senza fine di sigarette e nostalgia.
Questa notte sarò da te ancora una volta.
Vorrei essere già a casa. Dove le mie parole correvano via. Dove tu sei ad aspettarmi. In silenzio.
Nella notte, il poeta ha fame di stelle. Seppure leggera, il poeta rende alle stelle la luce abbagliante. Tremolante, come il suo cuore, delle stelle il riflesso. Il poeta ha fame di stelle. Ciò che sarebbe potuto accadere sono le stelle, o ciò che accadrà. Anime belle che danzano, sono le stelle. Respiro del tempo, sono le stelle. Cicatrici d’amore, versi nel cielo sono le stelle Il poeta ha fame di stelle. Il poeta ha fame di te…
Guarda. Il glicine è già fiorito. E tu, filo tessuto in un arazzo di primavera, non smettere mai di sbocciare per me. Sono alla fine dei versi e reggo il mio vodka&lime. Il cielo ha tonalità comprensibili e, per terra, screziature d’azzurro…
Io canto il tuo corpo, lo declamo! Terra promessa nella quale mi abbandono fino a raggiungerne le viscere profonde, per baciarne l’odore. Ne lambisco i confini, abbraccio il calore che avvinghia, che scioglie, e torno lì, dove tutto ha inizio, a bere il tuo sudore tremante, che avvampa la giogaia assetata. E poi su, a riverso, tra i petali scuri e sottili del fiore negato, tra due ali di vento e una forra incavata, umida, nivea, affondo l’idioma dinamico mentre il resto impietrisce al tuo ritmico andare. Mi alzo e percorro lentamente, una per una, con passo sicuro, le stanze della notte, fino a far deflagrare il tuo respiro madido, tormentato, canne di un organo ad un accordo in maggiore, sacra rappresentazione cadenzata, modulata, danza primigenia di anime possedute. E a quel punto muoio con te e lascio morire anche il mio corpo distrutto e disfatto, strappato, trafitto, da ciò che tu sola, tu sola, tu sola mi hai saputo svelare.
Un secolo fa, nel 1919, usciva il libro La escatología musulmana en la Divina Comedia di Miguel Asín Palacios che fece molto scalpore e che in Italia fu accolto da una dantista autorevolissima, Maria Corti, la quale arrivò a titolare un articolo sul Corriere della Sera «Dante. Il sommo poeta partorito dall’Islam». Un versetto del Corano, il primo della sura XVII, recita…
Effimero è qualcosa di fugace e passeggero. E’ ciò che è fragile nel suo essere nel tempo. La sua attrattiva e la sua bellezza, quella che seduce e che si vorrebbe poter fissare, trova la propria ragion d’essere nell’incostanza. Nella mancanza di continuità. Nella negazione dell’eternità e, persino, nella deliberata rinunzia all’Assoluto. Proprio lì, in quell’attimo di non perpetuo, davanti alla vacuità del tempo, saltano gli schemi, i piani e tutte le certezze. Si annullano le distinzioni e le consuetudini. Si mandano all’aria le regole. Si sovverte lo status quo ante. I poeti crepuscolari, Guido Gozzano (immagine a destra) (1883-1916), Corrado Govoni (1885-1965), Tito Marrone (1882-1967) e Sergio Corazzini (1886-1907), massimi cantori dell’effimero nella storia della Letteratura italiana, dopo la stagione della poesia celebrativa di Giosuè Carducci e dell’estetismo superomistico di Gabriele D’Annunzio, con il mito del poeta, come animatore della storia e creatore delle forze del futuro, avevano ripiegato su temi e movimenti più semplici, declinanti, smorzati e quasi spenti. Il loro verso si presenta privo di qualsiasi ornamento e fluttua libero dal peso della tradizione formalistica. Tutto è accomunato dal bisogno del compianto e della confessione, nonché da una sorta di rimpianto pascoliano per un tempo che non c’è più e che diviene, giocoforza, fonte di perenne insoddisfazione: un’insoddisfazione che non si trasforma, giammai, in ribellione, piuttosto in rifugio dell’anima. La poesia crepuscolare evoca la tristezza e canta la coscienza infelice, la musica raminga, le canzoni d’amore del tempo perduto, le suppellettili che sanno di polvere, le luci soffuse nelle chiese, dove le candele si consumano lente, gli autunni nostalgici, fatti di addii e, persino, le primavere disadorne, senza alberi in fiore e senza profumi di vita rinnovata. Un lirismo della malinconia, la cui bellezza diventa canto dell’illusione. Quell’illusione che, seppure concepita in un momento di entusiasmo o di disperazione, si trasforma, poi, in verità, in realtà, disvelando, come un lampo improvviso, i misteri più nascosti, gli abissi più cupi della natura, i rapporti più lontani e segreti, le cause più inaspettate e remote, le astrazioni più sublimi, nei confronti delle quali la poetessa, paziente tessitrice di stati dell’animo, per dirla leopardianamente: “si affatica indarno per tutta la vita, a forza di analisi e di sintesi”.
“Quantunque la bellezza brilli, essa cade. Così in questo mondo chi potrebbe essere in eterno? Valicando oggi le profonde valli dell’esistenza non farò più vani sogni né mai più m’illuderò!”.
Così, il monaco buddhista giapponese Kobo Daishi, vissuto tra l’ottavo e il nono secolo d. C., medita sulla fugacità della bellezza. “Cosa bella e mortal passa e non dura”, scrive Francesco Petrarca nel sonetto 248 del “Canzoniere”. E Molière, nel terzo atto della commedia “Le donne sapienti”, ricorda come “La bellezza del viso è un fragile ornamento, un fiore che appassisce presto, il bagliore di un istante”. Il bardo immortale William Shakespeare, in “Sogno di una notte di mezza estate”, si presenta sulla stessa lunghezza d’onda: “Tanto presto, quel che risplende è pronto a sparire”. Riecheggia anche “La canzone di Marinella” di Fabrizio De André: “E come tutte le più belle cose, vivesti solo un giorno, come le rose”. Non valgono patti faustiani con il demonio, oppure trasferimenti wildiani su tavole dipinte! La parola diviene tutto quello che resta. “Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus”, recita l’excipit del romanzo di Umberto Eco, “Il nome della rosa”. La rosa, che era, ora esiste solo nel nome, noi possediamo soltanto nudi nomi! Nomi, parole, versi, specula dell’ispirazione poetica, cifre del vissuto dei poeti crepuscolari, pendoli silenti che oscillano tra la realtà e l’immaginazione, tra l’illusione e il disincanto.
Esistesse una Commissione Disciplinare anche nella Letteratura Italiana, Cino da Pistoia dovrebbe essere sanzionato pesantemente per discriminazione territoriale! Guittoncino, detto Cino, della nobile famiglia dei Sighibuldi, nacque a Pistoia nel 1270. Studiò legge all’estero, prima a Bologna (per un pistoiese del XIII secolo, Bologna era all’estero!), poi, a Orleans, in Francia. Tornato in patria, esercitò l’avvocatura ma pochissimo tempo dopo, nel 1303, fu costretto a lasciare Pistoia perché i guelfi avevano cacciato i ghibellini dalla città. Rientratovi dopo tre anni, si dedicò alla scrittura di opere giuridiche, guadagnandosi, così, molti apprezzamenti e la cattedra di diritto presso le Università di Siena, di Perugia e di Napoli. All’ombra del Vesuvio conobbe e frequentò Giovanni Boccaccio, col quale, molto probabilmente, ragionava di donne e di poesia d’amore. L’insegnamento accademico, comunque, non gli impedì di celebrare, in versi, la sua amata, Selvaggia. Compose venti canzoni, undici ballate e centotrentaquattro sonetti (dopo Dante è lo stilonovista di cui ci sono giunte più rime). Quando morì, nel 1337, Francesco Petrarca, suo allievo di stile, gli dedicò un sonetto, Piangete, donne, e con voi pianga Amore. Se lo scontroso, geloso e un po’ invidioso letterato aretino si scomodò per Cino, è la prova che questi era stato un uomo e un poeta di grande valore. Quando lo incontrai al Liceo per la prima volta, mi fu subito simpatico perché il suo nome mi faceva tornare alla mente quello di un personaggio che ho molto amato durante la mia infanzia: il mago Zurlì, il cui vero nome è, appunto, Cino Tortorella. Mia madre aveva regalato a me e a mia sorella Tiziana un cofanetto di musicassette con le più famose fiabe, raccontate proprio dal mago dello Zecchino d’Oro. Ricordo ancora il mangianastri nero con i pulsanti rossi e i pomeriggi trascorsi insieme con Anna, la nostra babysitter, ascoltando Pollicino, La bella addormentata nel bosco, Cenerentola, Biancanevee i sette nani, Heidi, Lutra la lontra e Raperonzolo. Quando, però, cominciai a ricercare materiali per la miaStoria della Letteratura Italiana, il pistoiese si rese antipatico perché scoprii che aveva scritto, non un semplice sonetto, ma una lunga canzone contro i napoletani, Deh, quando rivedrò ‘l dolce paese, in cui ci conciò davvero male:
“Deh, quando rivedrò ‘l dolce paese di Toscana gentile, dove ‘l bel fior si mostra d’ogni mese, e partiròmmi del regno servile ch’anticamente prese per ragion nome d’animal sì vile? Ove a bon grado nullo ben si face, ove ogni senso fallace – e bugiardo senza riguardo – di virtù si trova, però ch’è cosa nova, straniera e peregrina di così fatta gente balduina. O sommo vate, quanto mal facesti (non t’era me’ morire a Piettola, colà dove nascesti?), quando la mosca, per laltre fuggire, i n tal loco ponesti, ove ogni vespa deveria venire a punger que’ che su ne’ tocchi stanno, come simie in iscranno – senza lingua la qual distingua – pregio o ben alcuno. Riguarda ciascheduno: tutti compar’ li vedi, degni de li antichi viri eredi. O gente senza alcuna cortesia, la cu’ ‘nvidia punge l’altrui valor, ed ogni ben s’oblia; o vil malizia, a te, perché t’allunge di bella leggiadria, la penna e l’orinal teco s’aggiunge. O sòlo, solo voto di vertute, perché trasforme e mute – la natura, già bella e pura – del gran sangue altero? A te converria Nero o Totila flagello”.
Concluse, poi, passando la palla agli juventini, ai milanisti, agli interisti, agli atalantini e ai veronesi, anche se, oggi, da Roma in su, non c’è tifoseria, tranne quella genoana, che non canti, quasi ogni domenica, “Noi non siamo Napoletani!” o “Vesuvio lavali col fuoco!”:
“Vera satira mia, va’ per lo mondo, e de Napoli conta che ritén quel che ‘l mare non vole a fondo”.
Ad ogni modo, a parte la discriminazione territoriale contro i miei conterranei dell’epoca, Cino fu un rimatore molto bravo che seppe cantare il dolore e l’inquietudine per la mancanza d’amore, in uno stile dolce e armonioso, malinconico e mesto, espresso con un’accuratezza linguistica da grande poeta. Il pistoiese era capace di arrivare al cuore delle donne, di tutte le donne, tranne, evidentemente, a quello della donna bramata (succede sempre così!).
“La dolce vista e ‘l bel guardo soave de’ più begli occhi che lucesser mai, c’ho perduto, mi fa parer sì grave la vita mia ch’i vo traendo guai”.
E ancora:
“Angel di Deo simiglia in ciascun atto questa giovane bella che m’ha con gli occhi suoi lo cor disfatto”.
Che tenerezza, poi, la canzone Oïmè lasso, quelle trezze bionde, composta quando l’amata Selvaggia morì. Le bionde trecce, gli occhi azzurri e poi… il viso, il suo sorriso, la morte s’era portata via tutto, pure le sue calzette rosse (W Mogol-Battisti!).
E allora sì, sì, ca t’abbraccio forte, t’astregno accussì forte a te fa ‘mmanca’ ‘o ciato, ma me l’aie chierere tu pecchè ‘a quanno te ne si’ ghiuta so’ addiventato scemo, e tanta cose nun ‘e capisco cchiu’. Nun ave’ paura. Stiennele ‘sti braccia, io stongo ‘cca’ nun me ne vaco. Io c’aggio sempe stato. Vieni, vieni ccà, fatte leva’ sti capille ‘e oro annanze all’uocchie, ca te voglio guarda’ ancora. M’aggio sfasteriato ‘e te sunnà sultanto. Io voglio sta’ scetato!
E allora sì, sì, ca t’abbraccio forte. Stiennele ‘sti braccia, fatte ‘na risata e arape ‘o core, io stongo ‘cca’ nun me ne vaco. Io c’aggio sempe stato, pecchè tu, nenne’, si’ troppa bella, ‘o ‘bbuo’ cape’ o no ca over si’ ‘a cchiu’ bella, e chesto m’è abbastato pe’ me fa ‘nnammura’.
Ho provato a inventare
i modi più diversi per farti brillare, te, già bella e terribile come un angelo, ballando sugli oceani cupi, torcendomi nell’acqua spumosa, senza paura d’affogare. Sono stato lì per giorni, muovendo le labbra soltanto per respirare il tuo nome e restare vivo. Ho riaperto gli occhi e mi son trovato solo, sopra il mare in tempesta e t’ho annegata nel profondo di me. Ed è già domani.