Volo. Il sole caldo di mezzo mattino verde e azzurro. Amore. Volo. Oro sul mare argento delle colline. Qualche nembo pallido. Bella, bellissima. Volo. Lontano e poi giù in picchiata. Un ciclamino odore di muschio e di terra. Erba, pietre. Giallo e arancione. Il vento leggero. Rosso. Fuoco. Legna che brucia. Fumo. Volo. Più in alto. Blu. Un gabbiano. Una lacrima.
E continuo a guardare la luna, a parlarle. Sono folle a parlare alla luna? Lo sarei di più se non l’ascoltassi. Mi racconta di ciò che esisteva prima del mondo, prima di te. Sei nata la notte in cui ho cominciato a parlare alla luna. Morirai quando smetterò di ascoltarla. E continuo a guardare la luna…
Ormai ti conosco. A memoria. Eppure, ogni volta che ti vedo resto obnubilato dall’esondazione di grandezza che trasuda da ogni stilla, non meno divina, di te. Sei qualcosa di prodigioso e oltremodo sublime. È evidente che su di te sia caduta una supernova di irradiante e traboccante meraviglia. Con te è tutto troppo grande e troppo indefinito. Tra due o tre secoli potrei ancora guardarti con tutta la misterica deferenza con cui oggi ammiro un’opera d’arte in un museo. Non sei neanche più solo bellezza: sei porta della percezione che ogni volta varco, tra drammi onirici e agnizioni brutali. Sei l’universo altro che si scompone e ricompone disegnando sciarade sfuggenti. Sei la perfezione. Punto.
È sufficiente passare qualche ora a Weimar, visitare la casa in cui visse e farsi conquistare dello magia del luogo per avvertire in che modo Friedrich Schiller ha saputo incarnare lo spirito liberale e borghese di quella Germania che poi verrà spazzata via dalla reazione nazionalista successiva all’invasione napoleonica…
Tra le mie mani la tua pelle diventa poesia. Quieta pittura, che mi riveste l’anima, vento leggero che accarezza i miei occhi Lascerai questo letto, presto, appiccando nuove fiamme dalla cenere.
Uno stormo di quadri immorali, uccelli con ali di vampa, avvolge i miei occhi e vi pianta lame frementi e profonde. Un lume di sangue veglia il tuo sonno e i miei brividi folli. Con labbra chiuse tu dormi e il tuo corpo scoperto soffia braci di ansimi e sospiri corrotti sulla mia impotente miseria, agonizzante nel lebbrosario del vizio che il tuo seno cupido nutre e sostenta. Mai sarò stanco di amarti, mio dissoluto tormento…
Ho sempre desiderato incontrare una donna che mi possedesse a tal punto l’ispirazione da renderla, con i miei versi, un’opera d’arte vivente! (R. P.)
Sono stanco. Sono stanco anche di odiarti, fantasma, a tal punto da ucciderti affinché ti dilegui. Ma tu non svanisci e torni ogni notte per farmi morire sulle labbra e sul corpo a cui appartenevi!
Il maggior grattacapo di ciascun critico letterario è certamente quello di non poter mai, o quasi mai, ascoltare dalla viva voce dell’autore che critica alcunché riguardo la sua poetica. Il primo, infatti, deve sempre procedere gattoni, con una lampada in mano, anche in pieno giorno, per cercare di districarsi, di individuare quello che, molto spesso, costituisce un vero e proprio bandolo di matassa della mente del secondo. Ciò detto, semmai qualche critico letterario in un lontano futuro dovesse interessarsi alla mia opera poetica, ecco un piccolo ragguaglio su di essa.
Nel settembre del 2002, in un’aiuola sotto un albero di pere, nel mio giardino, a Sant’Agata sui Due Golfi, spuntarono alcuni ciclamini. Avrei creduto, per molto tempo, che vi fossero germogliati spontaneamente, fino a quando, qualche anno dopo, seppi da mia madre che era stata mia sorella a piantarli. Trascorrevo molte ore di quei pomeriggi settembrini in giardino, perché vi erano comode poltrone sulle quali sedevo a leggere e, di tanto in tanto, il mio sguardo si posava su quei ciclamini.
Nel mio immaginario, non soltanto poetico, i ciclamini hanno sempre rappresentato, anche pascolianamente, la mia infanzia. Agli inizi degli anni ’80, il mio paese era pieno di prati che a settembre cominciavano a colorarsi del viola dei ciclamini. Questi fiori sono stati tra i primi che noi, bambini, donavamo a nostra madre o a qualche compagnuccia.
Alla fine di quel settembre del 2002 ritornai per gli ultimi mesi a Urbino, terminando i miei studi universitari. Anche il mio giardino mutò d’aspetto, a causa di una diversa destinazione che fu decisa per la nostra proprietà, seppure quella aiuola vi è rimasta. Si chiuse, così, un periodo della mia esistenza, che ho cristallizzato in quei ciclamini. Da allora, ogni settembre, nel mio cuore sboccia sempre un fascetto di ciclamini, nei cui petali e nei miei versi rivivono quel bimbo, quel giovane e quel tempo che non ci sono più.
Tu sei sfuggente confessione di delicatezza, il mio dolce risveglio abbandonato. Sei pioggia di luce che mi schiude le mani. Sei liquore che scorre tra le parole, sapore che luccica, melodia che mi risuona negli occhi. Sei splendore abbronzato e rovente, sei rimorso assordante, sei notte di tacite stelle. Sei pensiero di piombo pesante, battere d’ali alluso di farfalla. Sei sorriso amarognolo e nebbia di tocco mielato. Sei alba fragrante, sguardo di labbra taglienti. Sei fiore di voce, vela malinconica della mente. Tu sei sottile confine, il mio confine sottile tra il sogno e la carne.
Seduto su una panca ho soltanto un biglietto per la mia destinazione: il viaggio di una notte. Né valigia, né fogli di carta. Nessuna fermata ho programmato.
La strada è un flusso senza fine di sigarette e nostalgia.
Questa notte sarò da te ancora una volta.
Vorrei essere già a casa. Dove le mie parole correvano via. Dove tu sei ad aspettarmi. In silenzio.