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Il barbaro nel mondo greco

Tra identità culturale e pregiudizio ideologico

 

 

 

 

Il termine barbaro ha un’origine etimologica profondamente radicata nella percezione che i greci avevano del mondo esterno. Derivato dall’onomatopea “bar-bar”, imitava il suono che i greci attribuivano a chi parlava lingue incomprensibili o sconnesse rispetto alla loro. Questo uso originariamente descrittivo si trasformò in uno strumento culturale e politico per distinguere tra il “noi” e il “loro”. Parlare greco correttamente, o meglio ancora padroneggiarne le sfumature colte, significava essere parte della civiltà; non farlo equivaleva a essere esclusi da essa.
Questo pregiudizio linguistico era intrinsecamente legato al concetto di cultura e identità, ponendo i greci al centro di un universo ideale. Persino popoli di grande raffinatezza culturale, come i Persiani, venivano inclusi nella categoria dei barbari, nonostante fossero portatori di una tradizione ricca e consolidata. L’idea di barbaro, quindi, non era semplicemente una questione di lingua o di capacità comunicativa, ma uno strumento di categorizzazione culturale che implicava giudizi di valore e gerarchie di civiltà.
Nel mondo greco, il concetto di barbaro era fluido e multifattoriale, adattandosi ai bisogni ideologici e politici del tempo. Da una parte, serviva a consolidare l’identità collettiva dei greci, definendo il loro sistema di valori e il loro modello di convivenza sociale. Dall’altra, rappresentava uno specchio delle loro paure e aspirazioni nei confronti di popoli stranieri. La distinzione fondamentale non era tanto basata su un’oggettiva arretratezza delle altre civiltà, quanto sulla contrapposizione simbolica tra polis greca e il mondo esterno.
La polis, con il suo sistema di partecipazione politica, l’uguaglianza tra cittadini e la centralità delle leggi, incarnava il modello ideale di organizzazione civile. In contrapposizione, le società definite “barbare” venivano spesso descritte come dominate dal dispotismo e caratterizzate dalla subordinazione degli individui a un sovrano assoluto. Questa visione stereotipata non teneva conto della complessità dei sistemi sociali stranieri, ma serviva a giustificare la percezione di superiorità greca.
Tuttavia, è importante sottolineare che questa dicotomia non era immutabile. Nel corso dei secoli, l’interazione con altre culture portò a una maggiore consapevolezza della ricchezza culturale straniera. Le guerre persiane, ad esempio, furono un momento cruciale: pur essendo un confronto violento e ideologicamente polarizzato, permisero ai greci di osservare da vicino la complessità e l’organizzazione dei loro avversari.
In questo panorama dominato da pregiudizi e contrapposizioni, alcune figure emersero come punti di riferimento per un’analisi più equilibrata. Erodoto, considerato il padre della storiografia, è uno degli esempi più emblematici. Nelle sue Storie, non si limitò a descrivere i conflitti tra greci e barbari, ma trattò con curiosità e ammirazione le tradizioni, i costumi e le istituzioni di popoli come Egiziani, Persiani e Lidi.

Pur rimanendo ancorato a una prospettiva greco-centrica, Erodoto riconobbe l’importanza dei contributi culturali e scientifici del Vicino Oriente. Egli osservò, ad esempio, che molte delle conoscenze greche in ambito matematico, astronomico e medico derivassero dall’Egitto e dalla Mesopotamia. Questa visione, sebbene non completamente priva di giudizi di valore, introdusse una sfumatura di apertura e rispetto per l’altro, che contrastava con l’immagine stereotipata del barbaro come rozzo e inferiore.
Se Erodoto cercava un punto di equilibrio tra curiosità e pregiudizio, Aristotele contemplò un approccio diametralmente opposto, consolidando una visione fortemente gerarchica delle relazioni tra greci e barbari. Nel suo trattato Politica, Aristotele sviluppò una teoria che attribuiva una differenza biologica e naturale tra questi due gruppi. I barbari, secondo lui, erano “schiavi per natura” (physei douloi), incapaci di esercitare il controllo sulla propria vita e dunque destinati a essere governati da altri.
Questa concezione non era solo una giustificazione della superiorità greca, ma una base teorica per la legittimazione di rapporti di subordinazione politica, economica e sociale. Aristotele elevava la polis greca a modello ideale, suggerendo che essa rappresentasse l’apice della civiltà e che i popoli barbari, incapaci di creare istituzioni simili, fossero intrinsecamente inferiori. Questa idea trovò terreno fertile nella società greca, contribuendo a radicare stereotipi che avrebbero influenzato il pensiero occidentale per secoli.
L’idea di barbaro non può essere compresa senza analizzare il suo ruolo nel definire l’identità greca. Per i greci, il barbaro rappresentava l’opposto del cittadino: era l’altro, il diverso, colui che metteva in evidenza, per contrasto, i valori e i meriti della cultura greca. Questo dualismo, tuttavia, non era privo di ambiguità. Da un lato, il barbaro era considerato inferiore e minaccioso; dall’altro, il suo stesso esistere stimolava i greci a riflettere su se stessi e sul significato della loro civiltà.
La percezione dei barbari si trasformò ulteriormente con l’espansione dell’Impero macedone e, successivamente, con l’Ellenismo, quando le culture greca e orientale entrarono in una fase di intensa contaminazione reciproca. Durante questo periodo, l’idea di superiorità greca fu parzialmente mitigata dalla consapevolezza della complessità e della ricchezza delle civiltà orientali.
L’evoluzione del concetto di barbaro nel mondo greco ci rivela molto non solo sul rapporto tra i greci e gli altri popoli, ma anche sulla loro stessa visione del mondo e della civiltà. Il barbaro era un simbolo, una costruzione ideologica che rifletteva le ansie, i pregiudizi e le aspirazioni di una cultura in continua ricerca di definizione. Oggi, l’analisi storica di questo concetto ci invita a riflettere su come le categorie di “noi” e “loro” continuino a plasmare il nostro modo di vedere il mondo.

 

 

 

 

Luce nell’ombra

Il canto malinconico di Manfredi

 

 

Dedicato a Manfredi Brichetto Scotti

 

 

 

Tra i tanti spiriti che Dante incontra lungo il suo viaggio letterario ultraterreno, Manfredi di Svevia si distingue per la dolente dignità e per il tragico intreccio di storia, politica e redenzione. Nel Canto III del Purgatorio, egli appare quale figura luminosa, immersa in una malinconia che non è disperazione, ma consapevolezza del destino umano e della misericordia divina. La sua vicenda, narrata nei versi danteschi, è un richiamo alla fragilità del potere terreno e alla speranza eterna che si accende nel pentimento.
Figlio illegittimo dell’imperatore Federico II e di Bianca Lancia d’Agliano, Manfredi incarnava molte delle virtù e dei difetti della dinastia sveva. Nato nel 1232, fu cresciuto in un ambiente di raffinata cultura, che lo plasmò come poeta e uomo d’ingegno. Al pari del padre Federico, fu un mecenate delle arti e della letteratura e la sua corte fu un centro di straordinario fermento culturale. Tuttavia, la sua vita non fu solo votata alla cultura: fu un abile stratega militare e politico, che lottò per consolidare il Regno di Sicilia contro le minacce dei papi e dei nemici esterni. Dopo la morte di Federico II e del fratellastro Corrado IV, assunse la reggenza del regno, che proclamò suo nel 1258. La sua bellezza fisica e il carisma personale contribuirono a creare il mito di un re amatissimo dal popolo, ma odiato dalla Chiesa, che lo scomunicò ripetutamente per la sua resistenza all’autorità papale. Manfredi trovò la morte nella battaglia di Benevento, nel 1266, sconfitto dall’esercito angioino di Carlo I, inviato da papa Clemente IV per estirpare la dinastia sveva. La sua morte fu l’epilogo di una vita segnata dal contrasto tra ambizione e persecuzione, tra grandezza e condanna.
Nel Purgatorio, Dante lo incontra tra le anime degli scomunicati, che attendono di purificarsi per salire verso il Paradiso. Il re è descritto con delicatezza e rispetto, quasi con affetto, come un’apparizione luminosa ma malinconica. Manfredi è presentato con un gesto umile e regale insieme, svelando la sua identità con un senso di tragica ironia:

Io mi volsi ver’ lui e guarda il fiso:
biondo era e bello e di gentile aspetto,
ma l’un de’ cigli un colpo avea diviso.

La descrizione fisica è simbolica: la bellezza del principe è spezzata da una ferita, un dettaglio che richiama la sua morte violenta e il destino travagliato. L’elemento lirico del verso si mescola alla concretezza della sua storia, rendendo Manfredi una figura profondamente umana e poetica.

Manfredi narra a Dante il momento della sua fine, quando, ferito a morte, si rivolse a Dio con un pentimento sincero. I versi sottolineano la potenza della misericordia divina, che supera ogni giudizio terreno:

Poscia ch’io ebbi rotta la persona
di due punte mortali, io mi rendei,
piangendo, a quei che volontier perdona.

Questa ammissione di pentimento, accompagnata dal verbo “piangendo,” dona alla figura di Manfredi una dimensione struggente. Egli, sovrano orgoglioso e guerriero indomito, si arrende infine alla grazia divina, trovando la redenzione nel momento della massima vulnerabilità.
Il racconto di Manfredi si concentra poi sulla crudele sorte del suo corpo dopo la morte. L’arcivescovo di Cosenza, su ordine del papa, fece dissacrare la sua sepoltura, un atto che intendeva cancellare ogni traccia della sua esistenza. Le sue ossa furono gettate al di là del fiume Verde, oltre i confini del Regno di Napoli:

l’ossa del corpo mio sarieno ancora
in co del ponte presso a Benevento,
sotto la guardia de la grave mora.
Or le bagna la pioggia e move il vento
di fuor dal regno, quasi lungo ’l Verde,
dov’e’ le trasmutò a lume spento.
Per lor maladizion sì non si perde,
che non possa tornar, l’etterno amore,
mentre che la speranza ha fior del verde.

Questa immagine del “fior del verde” è profondamente lirica e simbolica: il verde della speranza divina contrasta con la desolazione del luogo dove furono gettate le sue spoglie. Anche qui, Dante ribalta la condanna umana: nonostante l’ingiustizia terrena, l’anima di Manfredi è accolta dalla misericordia divina. Il suo messaggio è un grido contro l’arroganza del potere ecclesiastico, che non può limitare la grazia di Dio.
Manfredi incarna uno dei temi fondamentali della Divina Commedia: la possibilità della redenzione, che è aperta a tutti, anche agli scomunicati e ai peccatori più gravi, purché si pentano sinceramente. La sua figura richiama altre anime del Purgatorio, come Bonconte da Montefeltro, che si salva grazie a un ultimo pensiero rivolto a Dio.
La storia di Manfredi risuona anche come un ammonimento per i lettori: il potere terreno è effimero, ma la salvezza è eterna. Dante utilizza la sua vicenda per criticare l’eccessiva severità della Chiesa medievale e per ribadire il primato della misericordia divina. L’umanità di Manfredi, il suo pentimento e la sua speranza sono un esempio di come la grazia possa illuminare anche le esistenze più tormentate.
La figura di Manfredi nella Divina Commedia è un intreccio di storia, poesia e teologia. Il suo racconto, intriso di malinconia e speranza, supera la dimensione individuale per diventare un simbolo universale. Egli non è solo un re sconfitto, ma un’anima che trova la pace nel riconoscimento della propria fragilità e nella fiducia nella misericordia divina.
Le sue ultime parole a Dante sono un invito a guardare oltre le apparenze, oltre i giudizi umani, e a confidare nella giustizia divina:

Vedi oggimai se tu mi puoi far lieto,
revelando a la mia buona Costanza
come m’ hai visto, e anco esto divieto;
ché qui per quei di là molto s’avanza.

Con queste parole, Manfredi riafferma la sua identità non come re, ma come figlio di Dio, riconquistando quella dignità che gli era stata negata in vita.

 

 

 

 

 

History of Medieval Church


Part IX


The Apex of the Papacy: Innocent III and Boniface VIII

 

 

 

 

The ultimate aspiration of Gregory VII (1073–1085), as outlined in his Dictatus Papae (1075), was fully realized with Innocent III, the most powerful pope of the entire Middle Ages.
Under Innocent III, the papacy solidified its primacy throughout the Western Church and its authority—moral and beyond—over all European states. He embodied the Augustinian concept of the Civitas Dei, bolstered by the Donation of Constantine, which was then regarded as genuine.
At this time, the Church appeared as the true Imperium Romanum, with the papacy claiming absolute power over the world. The pope became the Caput Christianitatis, presiding over many peoples united in a single faith.
Innocent III was a deeply religious man, rich in inner spirituality, dedicated to asceticism, and steadfast in his role as pastor and priest. Born Lotario, from the noble Segni family, in 1160, he studied theology and canon law in Paris and Bologna before being inducted into the College of Cardinals by his uncle, Pope Clement III.
Despite his small stature and fragile health, he was a man of extensive learning, remarkable moral strength, and keen intellect. He possessed a broad perspective and addressed all matters with prudence. His involvement in temporal affairs was solely to safeguard the Church’s autonomy and prevent it from becoming an imperial fiefdom.
Innocent III did not claim the right to elect the emperor but reserved the authority to evaluate the moral qualities of the candidate.
To Innocent III, the affairs of this world were subordinate to God’s divine order. Thus, sovereigns and princes were obliged to bow to God’s will. He envisioned the world as a great hierarchy with Christendom at its apex, where the pope served as an intermediary between God and humanity, judging all but answerable only to God.
He recognized the importance of mendicant orders within the Church, particularly approving the Order of St. Francis, understanding that these orders would drive the Church’s renewal, which had become overly entangled in worldly affairs. Innocent shared their detachment from wealth and grandeur, abstaining from such distractions himself.
Innocent III’s legacy can be understood through four key areas. First, in political leadership, Innocent III brought stability to Rome and the Papal States, effectively defending them against expansionist threats and imperial claims. His governance reinforced papal authority and ensured the Church’s influence in temporal matters. Second, in the realm of crusades and unity, he played a pivotal role in organizing the Fourth Crusade, aiming to reclaim the Holy Land. Additionally, he sought to reconcile the Western and Eastern Churches, emphasizing the need for unity in Christendom. Third, Innocent III focused on combatting heresies, actively opposing movements like the Cathars and Waldensians. His efforts to preserve orthodox faith and practice defined much of his papacy’s confrontational stance against perceived threats to Church doctrine. Finally, his commitment to church reform culminated in the Fourth Lateran Council, a historic assembly of 500 bishops and 800 abbots. This council synthesized his reform efforts, addressing themes such as Church administration, the moralization of the clergy, the promotion of the Fourth Crusade, and the suppression of heresies, solidifying Innocent III’s influence and marking the zenith of his papal reign.

Innocent III and the Struggle with the Hohenstaufens

Innocent III’s pontificate and the 13th century as a whole were marked by the papacy’s struggle against the Hohenstaufen dynasty, which resisted its claims, threatening the libertas ecclesiae. The empire sought to restore the dominance it had enjoyed under the Ottonians.
After complex events, Innocent III deposed Emperor Otto IV, who had reneged on his pro-papal promises, and supported Frederick II’s ascension as King of Germany in 1212. However, Frederick II soon sought to subordinate the Church to his authority, envisioning a unified religious and political power vested in the emperor.
Pope Gregory IX (1227–1241) sought to resolve the conflict through a council, which Frederick II forcibly prevented. Innocent IV (1243–1254) convened a council in Lyon that excommunicated and deposed Frederick II. With the assistance of Charles of Anjou, the Hohenstaufen dynasty was ultimately defeated, culminating in the execution of Conradin of Swabia in Naples. However, Charles of Anjou himself proved problematic for the papacy.

The Crisis of the System

The protracted struggle with the Hohenstaufens divided Italy into Guelfs (papal supporters) and Ghibellines (imperial supporters), fracturing political forces and creating internal divisions.
Within the College of Cardinals, a growing French dominance began with Urban V (1362–1370), laying the groundwork for the Avignon Papacy. Personal ambitions among noble families, such as the Colonna and Orsini, further compounded these divisions, complicating papal elections and leading to long periods of vacancy.
This dynamic gave rise to an unseemly strategy: electing either a decrepit candidate for a short pontificate or one lacking influence, thereby preserving the status quo. In this context, the hermit monk Pietro da Morrone was elected as Celestine V (1241), amidst enthusiasm from Franciscans and spiritualists hoping for a return to the primitive Church. However, he abdicated within months under the pressure of Benedetto Caetani, who succeeded him as Boniface VIII (1294–1303).
Boniface VIII, a figure of great cultural, moral, and political stature, reorganized the Church and sought to mediate conflicts, including those between France and England. However, his clash with Philip IV of France ultimately led to his humiliation at Anagni and marked the end of the high medieval papacy’s glory.

The Papacy’s Claim to Hierarchical Leadership

Following Gregory VII, the Concordat of Worms, and Innocent III, the Church achieved internal autonomy, free from imperial domination. This autonomy extended to temporal matters, including the Papal States, feudal territories, the imperial crown, and the ability to command any authority.
The medieval papal imperium was justified by a shift from imperial theocracy—where the Church was seen as an extension of imperial power—to papal hierocracy. This shift reflected not domination but a new worldview where creation served the redemption accomplished by Christ, represented in the Church, whose pinnacle was the pope.

The Theory of the Two Swords

The relationship between spiritual and temporal power was illustrated using metaphors such as body-soul, sun-moon, and spiritual-temporal swords. The “two swords” analogy, based on Luke 22:38, was particularly favored due to its scriptural basis.
The gladius spiritualis had two levels: spiritual sanctification and visible, coercive authority expressed through legal and punitive powers. When applying ecclesiastical law to the defiant, the gladius temporalis provided material coercion to enforce decisions.
This duality clarified the interaction of spiritual and temporal powers, highlighting the Church’s supervisory role over worldly authority and its mechanisms for maintaining order and addressing sin. Understanding this dynamic is key to grasping the functioning of the Inquisition.

 

 

 

 

Pippo Fava

La voce che non si spegne

1984 – 5 gennaio – 2025

 

 

 

C’era una luce particolare negli occhi di Pippo Fava, un luccichio che parlava di speranza, di coraggio e di amore per la verità. Pippo non era solo un giornalista, uno scrittore o un drammaturgo: era un uomo che aveva scelto di non voltarsi mai dall’altra parte. Nato a Palazzolo Acreide, una piccola perla nel cuore della Sicilia, portava dentro di sé la voce di un’isola tanto bella quanto lacerata, una terra intrisa di profumi e di contraddizioni, di natura rigogliosa e di ombre insidiose.
Fava amava raccontare storie. Non quelle levigate e convenzionali, ma le storie scomode, quelle che pochi avevano il coraggio di ascoltare e ancora meno di narrare. Con la sua penna graffiante e la sua voce appassionata, svelava i legami profondi e spesso invisibili tra la mafia e il potere, tra la corruzione e il silenzio complice di una società intimidita. Non scriveva per ottenere riconoscimenti o applausi, ma per smuovere le coscienze, per risvegliare quella voglia di giustizia che ognuno dovrebbe custodire nel proprio cuore.

Non era facile essere Pippo Fava. Ogni articolo pubblicato, ogni inchiesta portata a termine, era come una sfida lanciata al cielo carico di nuvole scure che gravava sulla sua amata terra. Sapeva che il prezzo della verità poteva essere alto, ma continuava a percorrere il suo cammino con determinazione quasi sacrale. Non si nascondeva dietro le parole, le usava come spade, affilate e precise, per colpire il marcio là dove si annidava.
Eppure, accanto alla fermezza del giornalista e all’ardore dell’attivista, c’era l’animo poetico di un uomo innamorato della vita. Pippo amava l’arte, il teatro, i volti dei contadini segnati dalla fatica e i colori intensi dei tramonti siciliani. Nei suoi scritti, nei suoi editoriali e persino nelle sue denunce, c’era sempre spazio per un tocco di umanità, per un sussurro di bellezza. Era un uomo capace di sognare un futuro luminoso, anche quando tutto intorno a lui sembrava volerlo soffocare.
La sera del 5 gennaio 1984, il rumore secco dei colpi di pistola strappò Pippo Fava alla sua famiglia, ai suoi amici, alla sua terra. Ma non riuscì a spegnere la sua voce. Perché Pippo non è morto quella notte davanti al Teatro Verga di Catania. Vive nei suoi scritti, nelle battaglie che continuano a ispirare, nella memoria di chi crede ancora che la verità non possa essere messa a tacere.
Pippo Fava è il simbolo di un’Italia che non si arrende, un’Italia che non chiude gli occhi davanti al male, un’Italia che crede nella forza della parola e nella dignità dell’uomo. La sua vita è stata breve, ma il suo coraggio e la sua integrità risuonano ancora oggi, come un’eco eterna, nelle strade della sua amata Sicilia e del mondo.

Intervista di Enzo Biagi a Pippo Fava (1983)

 

 

 

 

 

History of Medieval Church


Part VIII


The Investiture Controversy

 

 

 

 

The investiture controversy stemmed from two opposing ideologies: the imperial and the ecclesiastical. Under Constantine (313), the Church was elevated to the highest social and imperial dignity but was simultaneously integrated into the administrative and legal structure of the empire. From Charlemagne onward, the Church became an integral part of the empire, realizing Augustine’s dream of the “Regnum Dei” on earth. However, this integration rendered the Church subservient to the emperor, particularly under the Ottonian and German Henry rulers, who turned it into a vital instrument and foundation of imperial power. In serving the emperor, the Church betrayed its primary and intimate vocation and mission, which came from God. The Church’s moral stature was further degraded by struggles for the papacy, simony, and Nicolaism, all compounded by imperial theocracy, an untenable situation. Overturning this institutionalized reality, both de jure and de facto, was extremely challenging, as it required a transformation of the spiritual and moral climate that shaped the era’s culture and conscience. A decisive impetus came with the foundation of the Abbey of Cluny (910), which established over two thousand monasteries directly under the abbot of Cluny and thus the pope, removing them from imperial control. The most evident manifestation of the Church’s subordination to the Empire was ecclesiastical investitures, which were taken from the Church and given to the emperor, serving his needs. The conflict over this critical issue reached its peak between Henry IV and Gregory VII (1073–1085). Gregory VII’s “Dictatus Papae” not only outlined the future and independent papacy but reversed the roles, shifting from imperial theocracy to pronounced ecclesiastical hierocracy. Canon XII stated, “To him (the pope) is granted the right to depose the emperor,” and Canon XXVII declared, “He (the pope) can release subjects from their oath of loyalty in cases of wrongdoing.” Having established the theological and legal foundations for the separation of Church and Empire, it was now necessary to implement them in practice. The opportunity arose when Henry IV appointed several bishops. Gregory VII refused to recognize these appointments. In response, Henry convened the Synod of Worms (1076) and deposed the pope, who retaliated by excommunicating the emperor. This forced Henry IV to do penance at Canossa. Through this act of apparent submission, Henry IV regained imperial legitimacy and presented himself as a “rex iustus,” turning apparent defeat into a political victory. However, after being excommunicated again, Henry succeeded in deposing Gregory VII, who died in exile in 1085. Despite this apparent victory, the Church’s reformist faction persisted. The pope elected by the emperor, Clement III (1084), was not recognized, and Urban II was chosen instead, following the brief pontificate of Victor III. Urban II resumed Gregorian reforms, and Henry IV was eventually deposed by his son, Henry V. The latter concluded an agreement with Paschal II, whereby the emperor renounced election rights, and bishops relinquished their estates. However, the agreement failed due to strong opposition from the bishops, who feared impoverishment. Success came with the Concordat of Worms (September 23, 1122) between Callistus II and Henry V: the pope retained the right to appointments, while the emperor was granted regalian rights. The Concordat was significant for formalizing the separation of powers and responsibilities, but it was also a compromise. Through imperial regalia, bishops remained tied to the emperor by an oath of loyalty. By then, other kingdoms, such as France and England, had reached agreements with the Church, renouncing ecclesiastical investitures in exchange for oaths of allegiance. However, the issue was more complex in Germany, where investitures involved sovereign rights that could not simply be transferred to the Church. Ultimately, as mentioned earlier, the matter was resolved with the Concordat of Worms. This act harmonized imperial law with the Church’s growing authority. The Concordat was further ratified by the Diet of Bamberg and the First Lateran Council (1123).

Effects of the Concordat of Worms on the “Ecclesia Universalis

The Concordat of Worms granted the Church direct authority over ecclesiastical appointments, concentrating the clergy and Christendom around the pope, who became the central figure of Western Christianity. While the Church achieved greater autonomy and internal cohesion, the West had yet to reach a clear ontological distinction between Church and State, persisting in the unity of Priesthood and Kingdom. In this complex framework, rulers, now stripped of ecclesiastical power, were relegated to the status of “laymen” and, as such, became subject to the Church’s sovereignty. The Church increasingly asserted its spiritual authority throughout Christendom, transforming into a universal Church with the priesthood as the guiding force of the Christian West. This marked a shift from imperial theocracy to ecclesiastical hierocracy. Consequently, the Church experienced a paradox: internal unity centered on the papacy and a growing division between ecclesiastical and secular domains. In the 12th and 13th centuries, the distinction between Priesthood and Kingdom became more pronounced, with Christendom coalescing around the pope, who gained increased authority in both ecclesiastical and temporal matters. The pope embodied the unity of the Christian West, grounded in a single faith and culture.

Competences of the Papacy After the Concordat of Worms

Following the Gregorian Reforms, the imperial theocratic axis shifted to an ecclesiastical hierocratic one. The papacy, now the leader of Christendom, extended its competences beyond ecclesiastical matters to temporal ones. In ecclesiastical affairs, the pope was the apex of the priesthood and the visible principle of Christian unity. In temporal matters, as the vicar of Christ, the pope wielded equal importance, reigning as sovereign over the Papal States and feudal vassal states. He conferred imperial crowns and exercised extensive authority over temporal powers. Thus, the temporal was subordinate to the spiritual, with the State serving as the Church’s secular arm while maintaining autonomy. This relationship was likened to “soul and body” or “sun and moon.” The Crusades and campaigns against heretics exemplified this new State-Church relationship.

The Papacy After the Concordat of Worms

The Concordat of Worms sought to resolve the issue of investitures by promoting a dual system: the king granted temporal investiture, symbolized by the scepter, while the Church retained the right to ecclesiastical election and appointment, symbolized by the ring and crozier. The Concordat addressed the investiture conflict but not the broader relationship between Church and State. The Church retained its feudal structure throughout the Middle Ages, while the Gregorian Reforms initially equated spiritual and temporal powers before asserting the superiority of the spiritual. This dynamic reached its peak under Innocent III (1198–1216), who epitomized the Church’s spiritual and temporal authority. The conflict between Frederick Barbarossa and Alexander III (1159–1181) underscored these tensions, culminating in the Peace of Venice (1177). The Third Lateran Council (1179) established a two-thirds majority rule for papal elections. At the heart of this power struggle lay two ideas: Christ as the sovereign of Christendom; the dual power symbolized by two swords, one temporal (the emperor’s) and one spiritual (the pope’s), with the Church retaining ultimate authority over both. This concept dominated Church-State relations, reaching its zenith under Innocent III.

Institutional Consolidation and Recognition

The Gregorian Reforms and the Concordat of Worms marked a turning point in the Church’s autonomy, freeing it from imperial control over internal governance. The Church consolidated internally, creating an efficient bureaucratic apparatus led by the College of Cardinals, which shared responsibilities with the pope. Innocent III exemplified the medieval papacy’s power and prestige, fulfilling Gregory VII’s vision of the Church as the pinnacle of Western Christendom’s spiritual and political authority. However, this dominance was short-lived due to the modest capabilities of his successors and resistance from figures like Frederick II, who rejected such a concept of the Church.

 

 

 

 

Hegel e le sue eredità

Il confronto tra destra e sinistra hegeliana

 

 

 

Georg Wilhelm Friedrich Hegel è certamente uno dei più influenti filosofi nella storia del pensiero occidentale. Le sue idee hanno ispirato generazioni di pensatori e dato vita a interpretazioni molto diverse tra loro, a partire dal contrasto tra destra e sinistra hegeliana, che si sviluppò subito dopo la sua morte. Questi due schieramenti estrapolarono interpretazioni opposte del sistema filosofico hegeliano, rivelando la complessità e la ricchezza del suo pensiero.
La chiave di questa divisione risiede in una famosa affermazione di Hegel: “Tutto ciò che è razionale è reale, tutto ciò che è reale è razionale”. La sinistra hegeliana si concentrò sul primo segmento dell’enunciato, “Tutto ciò che è razionale è reale”, interpretandolo come un invito a promuovere il cambiamento e la trasformazione storica. I giovani hegeliani, tra cui Ludwig Feuerbach, Karl Marx e Max Stirner, videro nella dialettica hegeliana una forza rivoluzionaria, in grado di sovvertire l’ordine esistente per promuovere il progresso e l’emancipazione dell’uomo. Essi considerarono la razionalità come una forza in evoluzione, in grado di produrre nuovi sviluppi sociali e politici, e rifiutarono di accettare lo stato delle cose come definitivo. Feuerbach trasformò l’idealismo di Hegel in un materialismo antropologico, mentre Marx lo sviluppò ulteriormente, creando il materialismo storico, che poneva le condizioni materiali ed economiche al centro del divenire storico.


Dall’altra parte, la destra hegeliana interpretò il secondo segmento della frase, “Tutto ciò che è reale è razionale”, in senso conservatore. Per questa corrente di pensiero, il reale, ossia ciò che esiste, è di per sé razionale e legittimo, poiché rappresenta il risultato finale della dialettica storica. Pertanto, lo Stato era considerato l’incarnazione della razionalità e dell’ordine necessario. La destra tendeva a giustificare lo status quo e a difendere le istituzioni esistenti, considerandole come espressione della razionalità compiuta. In questo modo, i conservatori concepivano la filosofia di Hegel quale potente strumento per legittimare l’autorità e preservare l’ordine politico-sociale.
In sintesi, mentre la sinistra hegeliana vedeva nella dialettica di Hegel una forza dinamica e rivoluzionaria, capace di portare a un cambiamento radicale della società, la destra usava la stessa dialettica per giustificare la stabilità e la continuità dell’ordine esistente. Questa divisione interna al pensiero hegeliano non rappresenta semplicemente un fraintendimento del sistema, ma riflette, piuttosto, la complessità della filosofia hegeliana. La dialettica, in quanto movimento di superamento delle contraddizioni, può essere quindi letta sia come forza di innovazione che di conservazione.
Al di là delle diverse interpretazioni e delle dispute successive tra destra e sinistra hegeliana, il più grande contributo di Hegel resta l’idea della totalità del reale concepita come un processo storico-dialettico. Il reale, secondo Hegel, non è statico, ma si sviluppa attraverso una continua trasformazione, un divenire costante, che si esprime nella famosa triade dialettica di tesi, antitesi e sintesi, in cui ogni stadio della realtà si supera per realizzarsi in una forma più completa. Hegel rivisitò l’antica concezione del filosofo greco Eraclito, secondo cui tutto scorre, aggiornandola in chiave metafisica e idealistica. La realtà è, pertanto, sempre in movimento, razionale e storicamente determinata.
Questa dialettica tra idealismo e materialismo, tra conservazione e rivoluzione, rappresenta la tensione costante che anima l’eredità di Hegel e continua a stimolare il dibattito filosofico contemporaneo.

 

 

 

Le Lezioni sulla filosofia della storia
di Georg Wilhelm Friedrich Hegel


Dialettica, spirito, libertà

 

 

 

 

Le Lezioni sulla filosofia della storia, tenute da Georg Wilhelm Friedrich Hegel nel 1821, 1824, 1827 e 1831 alla Humboldt-Universität zu Berlin, raccolte e pubblicate postume, nel 1837, da Eduard Gans e dal figlio Karl, esaminano la relazione tra l’evoluzione storica e il progresso del pensiero umano, secondo i principi della dialettica hegeliana. Hegel sostiene che la storia sia un processo razionale, guidato da una logica interna, che si sviluppa attraverso contraddizioni e sintesi successive, riflettendo il progresso dello spirito (Geist) verso la realizzazione di sé.
Hegel, quindi, interpreta la storia come una manifestazione visibile del Geist, forza guidante che muove l’umanità verso una maggiore libertà e autocoscienza. La sua visione è profondamente eurocentrica: considera il processo storico europeo come il culmine dello sviluppo umano, con particolare attenzione agli Stati nazionali quali entità che incarnano il raggiungimento della libertà individuale.
L’analisi hegeliana della storia universale è suddivisa in tre diverse ere: quella dell’Oriente, dove solo uno (il despota) è libero; quella del mondo greco-romano, dove solo alcuni sono liberi; quella del mondo germanico-cristiano, dove tutti sono idealmente liberi. Questa suddivisione riflette la sua teoria secondo cui la storia è il palcoscenico di realizzazione della libertà, con il mondo moderno che rappresenta il vertice di questo sviluppo.
Dal punto di vista filosofico, le Lezioni di Hegel sono intrise del suo metodo dialettico, che vede la storia evolversi attraverso la tesi, l’antitesi e la sintesi. Ogni epoca storica rappresenta una tesi che viene contrapposta da una antitesi, risultando in una sintesi che supera e incorpora gli elementi di entrambe. Questo processo dialettico non è solo un meccanismo storico, ma anche un processo logico che riflette il modo in cui la realtà stessa è strutturata.
Uno degli aspetti più innovativi e critici del pensiero del filosofo tedesco è rappresentato dall’idea che la storia sia guidata dalla ragione. Questo implica che ogni evento storico, non importa quanto caotico o irrazionale possa sembrare, contribuisca al progresso della libertà umana e della ragione.
Le Lezioni offrono anche una visione complessa e articolata dell’uomo, posto al centro del processo storico e filosofico. Per Hegel, l’uomo non è soltanto un ente passivo attraverso il quale si manifesta la storia; piuttosto, è l’agente attivo che porta in sé il Geist, il principio razionale che guida il progresso storico. L’uomo, in quanto entità razionale e libera, è visto come il culmine dello sviluppo dello spirito. Questa concezione implica che ogni individuo partecipi alla dialettica storica non solo come testimone o vittima, ma come co-creatore attivo del tessuto storico.
Anche la libertà costituisce uno dei temi centrali delle Lezioni. Essa non è semplicemente assenza di costrizioni, ma capacità di agire secondo leggi che sono razionalmente riconosciute come proprie. In questo senso, la storia rappresenta, attraverso il progressivo riconoscimento dell’individuo come soggetto autonomo e moralmente responsabile, il luogo in cui l’uomo apprende e realizza la propria libertà.
Alla filosofia della storia è intrinsecamente legata anche l’etica. Hegel sostiene che le norme etiche e i principi morali non siano astrazioni immutabili, quanto piuttosto il risultato di processi storici che riflettono la maturazione dello spirito umano. La moralità è intesa come sintesi dialettica di diritti individuali e doveri collettivi, nel cui ambito la legge e la società devono evolvere per riflettere sempre più la libertà individuale.
L’interazione tra l’individuo e la società è un altro aspetto fondamentale della speculazione storica hegeliana. La società è delineata quale arena in cui si concretizza lo spirito, per mezzo di istituzioni come la famiglia, la società civile e lo Stato. Ogni fase del suo sistema filosofico rivela come l’uomo e la società si influenzino reciprocamente, promuovendo un avanzamento verso forme sempre più complesse e integrate di organizzazione sociale, che riflettono una maggiore realizzazione della libertà.
Hegel, quindi, ritiene l’uomo essenziale all’attuazione dello spirito nella storia. La sua filosofia enfatizza una visione progressista della storia umana come marcia verso una sempre maggiore realizzazione della libertà, interpretando l’etica e la morale come entità dinamiche, intrinsecamente legate al tessuto sociale e storico in cui vivono gli individui. Questa visione continua a generare riflessioni sulla libertà, l’etica e il ruolo dell’individuo nella società moderna.
Le Lezioni sulla filosofia della storia rimangono un’opera cruciale, che offre profonde intuizioni sulla natura della storia e della filosofia. Tuttavia, è essenziale approcciare il testo con atteggiamento critico, riconoscendo tanto i suoi contributi significativi quanto i suoi limiti contestuali e ideologici (nonostante l’ingegnosità della sua sintesi filosofica e storica, l’approccio hegeliano presenta problemi notevoli: la sua eurocentricità e la visione progressista della storia sono state oggetto di numerose critiche, soprattutto per la loro apparente giustificazione dello status quo e del colonialismo. Inoltre, l’idea che la storia sia una marcia inarrestabile verso la libertà è stata messa in discussione da vari pensatori successivi, che hanno evidenziato come eventi storici quali guerre e genocidi sfidino questa interpretazione ottimistica).

 

 

 

L’ipotesi come fondamento del pensiero

Tra filosofia, etica e politica

 

 

 

 

L’idea di ipotesi: significato e funzione

Il termine “ipotetico” si riferisce a ciò che è supposto o presunto, spesso senza prove immediate. Nella filosofia e nella scienza, le ipotesi svolgono un ruolo cruciale, fungendo da punto di partenza per il ragionamento o la ricerca. Tuttavia, un’ipotesi non ha validità intrinseca e necessita di essere dimostrata o verificata.
Le ipotesi costituiscono uno strumento esplorativo, permettendo di investigare fenomeni complessi attraverso la formulazione di congetture che possono essere sottoposte a verifica. Offrono un fondamento teorico, costituendo la base per la costruzione di teorie o modelli più complessi, come la città ideale di Platone o lo stato di natura di Locke. Nelle scienze empiriche, fungono da guida per la pratica, orientando esperimenti e osservazioni e rendendo possibile il progresso della conoscenza.
Esistono diverse tipologie di ipotesi. Le ipotesi euristiche sono utilizzate per guidare il pensiero verso nuove scoperte. Le ipotesi condizionali, formulate come “Se… allora…”, trovano applicazione nei sillogismi ipotetici. Le ipotesi dimostrative servono come premessa per deduzioni logiche o matematiche.
In tutte le discipline, l’ipotesi costituisce il punto di partenza di processi vòlti a trasformare ciò che è supposto in certezza, avvalendosi di prove empiriche o dimostrazioni razionali.

Platone e l’uso delle ipotesi nella dialettica

La dialettica di Platone costituisce il metodo più elevato di ricerca filosofica, che consente di ascendere dalla molteplicità delle opinioni alla conoscenza delle Idee, le realtà immutabili e perfette che costituiscono l’essenza del mondo. Le ipotesi, per Platone, sono strumenti provvisori: si parte da supposizioni non dimostrate per progredire verso una verità superiore.
Nel dialogo Repubblica, Platone utilizza l’ipotesi della città ideale come modello teorico per esaminare la giustizia. Anche se questa città perfetta potrebbe non esistere nella realtà, la sua costruzione serve a illuminare il concetto di giustizia nel singolo individuo e nella collettività. Platone distingue, inoltre, tra chi si ferma alle ipotesi e chi, attraverso la dialettica, riesce a superarle. Il filosofo autentico è colui che non si accontenta delle ipotesi iniziali, ma le utilizza come trampolini per raggiungere la conoscenza del Bene, il principio supremo che illumina tutte le altre verità.

Hobbes e il sillogismo ipotetico: l’uomo come corpo

Thomas Hobbes adotta un approccio radicalmente materialista e meccanicistico alla filosofia. Per lui, ogni fenomeno dell’universo, inclusa l’attività umana, può essere spiegato in termini di causa ed effetto, come in una macchina. Il sillogismo ipotetico diventa un mezzo per analizzare le cause di un evento: si parte da una premessa condizionale per dedurre una conclusione. Ad esempio: “Se l’uomo è corpo, allora le sue azioni sono il risultato di movimenti fisici”. Hobbes rifiuta l’esistenza di entità incorporee, definendole prive di significato. Questa posizione si riflette anche nella sua teoria politica. Nella sua opera più famosa, il Leviatano, il filosofo descrive lo Stato come un corpo artificiale, formato da individui che, attraverso il contratto sociale, trasferiscono il loro potere a un sovrano per garantirsi la pace e la sicurezza. L’analisi ipotetica diventa, quindi, uno strumento non solo scientifico, ma anche politico, per spiegare e giustificare l’autorità statale.

Locke e lo stato di natura: un modello di eguaglianza e diritti

John Locke, uno dei principali esponenti del liberalismo classico, utilizza l’idea dello stato di natura come una costruzione teorica per indagare i fondamenti della società e del diritto. In questa condizione ipotetica, tutti gli uomini vivono in una situazione di piena eguaglianza: ciascuno possiede gli stessi diritti naturali alla vita, alla libertà e alla proprietà. Tuttavia, l’assenza di un’autorità comune rende vulnerabile la convivenza: senza un potere condiviso, il rischio di conflitti e abusi è elevato. Lo stato di natura di Locke si differenzia da quello di Hobbes. Mentre per Hobbes è una condizione di guerra di tutti contro tutti, per Locke è una situazione fondamentalmente pacifica, ma instabile. La soluzione è il contratto sociale, con cui gli uomini acconsentono a formare una società civile governata da leggi e da un’autorità che tuteli i diritti naturali. Questo modello ha influenzato profondamente il pensiero politico moderno, gettando le basi per le teorie della democrazia e dei diritti umani.

Kant e gli imperativi ipotetici: la moralità condizionata

Immanuel Kant, nel suo sistema etico, introduce una distinzione fondamentale tra imperativi ipotetici e imperativi categorici. Gli imperativi ipotetici sono comandi della ragione che dipendono da un desiderio o da un obiettivo specifico. La loro validità è subordinata a una condizione: “Se vuoi ottenere X, allora devi fare Y”. Per esempio: “Se vuoi avere successo, studia”; “Se desideri essere felice, cerca di vivere in armonia con gli altri”. Questi imperativi sono validi solo per chi persegue il fine indicato. Al contrario, gli imperativi categorici, cuore della morale kantiana, sono incondizionati e universali: prescrivono ciò che è moralmente giusto, indipendentemente da ogni scopo personale. Il più famoso di questi è il principio secondo cui bisogna agire sempre in modo da trattare l’umanità, in se stessi e negli altri, come un fine e mai come un semplice mezzo. Kant utilizza questa distinzione per dimostrare che la vera moralità non può dipendere da inclinazioni o interessi individuali, ma deve fondarsi su una legge razionale valida per tutti gli esseri razionali.

 

 

 

 

Nuova Atlantide di Francis Bacon

Un’utopia di scienza, etica e progresso

 

 

 

Francis Bacon, figura centrale nella storia del pensiero occidentale, concepì Nuova Atlantide come un’opera che incarnasse il suo ideale filosofico di progresso attraverso la scienza. Pubblicato postumo nel 1627, questo testo rappresenta una combinazione tra utopia rinascimentale e visione illuministica, prefigurando un mondo in cui la conoscenza è il pilastro di una società armoniosa e prospera.
Attraverso la narrazione, Bacon indaga il ruolo della scienza e della tecnologia ma anche il rapporto tra sapere, etica e religione, ponendo le basi per riflessioni che rimangono attuali ancora oggi.
Per comprendere Nuova Atlantide è necessario collocare l’opera nel contesto del pensiero di Bacon. Filosofo dell’empirismo e sostenitore del metodo scientifico, era convinto che il sapere derivasse dall’osservazione diretta della natura e dall’esperimento sistematico, piuttosto che dalla semplice speculazione teorica, tipica della filosofia Scolastica del Medioevo.
Nel XVII secolo, l’Europa era nel pieno del fermento intellettuale della rivoluzione scientifica. Il mondo stava progressivamente allontanandosi dalla concezione aristotelica e medievale, abbracciando un paradigma incentrato sulla scoperta empirica e sulla capacità dell’uomo di trasformare l’ambiente attraverso la scienza. In questa temperie, Bacon immaginò un mondo ideale in cui tali princìpi fossero pienamente applicati.
Il racconto si apre con l’arrivo di un gruppo di marinai europei sull’isola di Bensalem, situata in un punto imprecisato dell’Oceano Pacifico. Questa terra sconosciuta è abitata da una civiltà altamente avanzata, sia tecnologicamente che moralmente. Attraverso il dialogo con i residenti di Bensalem, i marinai scoprono che l’isola è governata da princìpi di ordine, giustizia e razionalità.
Al centro della vita intellettuale e sociale di Bensalem si trova la “Casa di Salomone”, un’istituzione dedicata alla ricerca scientifica e alla scoperta della verità. Gli abitanti di Bensalem attribuiscono la loro prosperità e armonia all’applicazione rigorosa della conoscenza scientifica, unita a un forte senso etico e religioso.

La Casa di Salomone è la vera protagonista dell’opera, nonché l’elemento più innovativo e visionario. Descritta come una sorta di accademia scientifica, essa anticipa molte delle caratteristiche delle moderne istituzioni di ricerca. Si tratta di un’organizzazione altamente strutturata, composta da studiosi che si dedicano a diversi aspetti della scienza e della tecnologia. Gli studiosi inviano emissari in tutto il mondo per raccogliere conoscenze, osservare fenomeni naturali e scoprire invenzioni utili, sistema che ricorda l’odierna globalizzazione della ricerca scientifica. All’interno della Casa di Salomone si conducono esperimenti sistematici per migliorare la comprensione della natura e sviluppare nuove tecnologie. Gli studiosi creano macchine, studiano fenomeni atmosferici, sviluppano nuovi materiali e persino esplorano la manipolazione genetica, anticipando temi oggi al centro del dibattito scientifico. Tutta la conoscenza prodotta è finalizzata al miglioramento delle condizioni di vita della popolazione. La Casa di Salomone non è un’istituzione teorica, ma un laboratorio al servizio della società.
Uno degli aspetti più sorprendenti di Nuova Atlantide è l’integrazione tra scienza e religione. Contrariamente alla percezione moderna, che vede spesso la scienza in conflitto con la fede, Bacon immagina una società in cui le due dimensioni coesistono armoniosamente. Gli abitanti di Bensalem praticano una forma di cristianesimo illuminato, che funge da fondamento morale per l’uso della conoscenza scientifica. L’etica religiosa garantisce che il sapere non venga utilizzato per scopi distruttivi o egoistici. Per Bacon, la scienza è un modo per avvicinarsi a Dio, poiché studiare la natura significa scoprire le leggi che Egli ha stabilito. Questa prospettiva teologica dà alla ricerca scientifica un carattere quasi sacro.
Nuova Atlantide è spesso considerata una profezia delle moderne accademie scientifiche e dei centri di ricerca. La visione di Bacon della Casa di Salomone prefigura istituzioni come la Royal Society (fondata nel 1660) e altre organizzazioni internazionali dedicate alla ricerca e all’innovazione.
L’opera tocca anche temi straordinariamente attuali: interdisciplinarità (gli studiosi di Bensalem lavorano insieme, condividendo conoscenze e metodi provenienti da diverse discipline); innovazione tecnologica responsabile (gli abitanti usano la tecnologia per migliorare la salute, l’agricoltura e le infrastrutture, dimostrando un approccio orientato al bene comune); globalizzazione del sapere (la raccolta di conoscenze da tutto il mondo anticipa l’odierna collaborazione scientifica globale).
Nuova Atlantide, pertanto, non è semplicemente un’utopia, ma un manifesto del pensiero baconiano. Essa invita a riflettere su come la scienza e la tecnologia possano trasformare il mondo, ma anche sui pericoli di un uso irresponsabile del sapere. Per Bacon, la conoscenza deve essere subordinata alla moralità e al servizio dell’umanità. In un’epoca come la nostra, caratterizzata da rapidi progressi tecnologici ma anche da crescenti disuguaglianze e crisi globali, l’opera di Bacon assume una rilevanza particolare. Il suo sogno di una società governata dalla conoscenza etica e dalla cooperazione potrebbe fungere da ispirazione per affrontare le sfide del presente e costruire un futuro più equo e sostenibile.

 

 

 

 

History of Medieval Church


Part V


Relationship between the Church and Charlemagne

 

 

 

 

The strong missionary drive led by the Anglo-Saxons and St. Boniface (Winfrid), coupled with the establishment of the Papal State, had concentrated significant power in the hands of the Pope, extending across almost the entire Western world.
Following the death of Pope Adrian I (772-795), Leo III (795-816), a presbyter of humble origins, ascended to the papacy. However, he soon became embroiled in courtly intrigues, facing accusations of perjury and adultery, which led to his arrest.
Leo III managed to escape and sought refuge with Charlemagne, who travelled to Rome in November 800 to resolve the papal controversy and restore order. A synod convened to examine the accusations against the Pope, but it declared itself unable to judge, invoking the principle of “Prima sedes a nemine iudicatur,” derived from a false document known as the Symmachian (from Pope Symmachus, 498-514). This forgery created an account of an invented Council of Sinuessa in 303 that asserted this principle.
Two days after the Roman synod concluded on December 23, 800, Charlemagne was acclaimed and crowned emperor in a ceremony modelled after the Byzantine imperial coronation. Although the event appeared sudden and unexpected, various signs indicate that the coronation was prearranged: the elaborate imperial welcome Charlemagne received upon his arrival in Rome, where an opulent crown was already prepared. Additionally, there had been previous imperial aspirations advocating for equal status between Charlemagne and the Byzantine Emperor.
It is likely that this plan was agreed upon between Pope Leo III (795-816) and Charlemagne during their meeting in Paderborn.
The coronation marked a definitive break between Rome and Constantinople and initiated a new era in Christendom, characterized by dual leadership: the Pope and the Emperor. It also represented a turning point in Church-Empire relations, establishing the anointing, coronation, and papal consecration as essential elements of imperial authority.

Charlemagne and the establishment of the Holy Roman Empire

The rise of Charlemagne (768-814) and his subsequent coronation solidified the idea of a restored Roman Empire. He strengthened his internal power and expanded his influence outward. The coronation on December 25, 800, as “Imperator Romanorum,” definitively asserted his dominance over the West. This title was later formally recognized by Byzantium through a series of agreements.
For Charlemagne, however, titles held less significance than the essence of imperial authority, free from Roman claims. He envisioned a new “Imperium Romanum” akin to the Byzantine model, centralized in the core of the Carolingian realm along the Meuse and Rhine.
Thus, two years after his coronation, Charlemagne required an oath of allegiance and sought formal acknowledgment of his title from Constantinople, which Byzantium granted through agreements concluded between 810 and 814. This recognition marked Byzantium’s permanent retreat from Western affairs.
Following these agreements, Charlemagne crowned his son Louis the Pious in Aachen in 813, using the Byzantine imperial rite. This coronation was reiterated in 816 at Reims by Pope Stephen V, reinforcing the Roman origin of the imperial title, which was in service to the Church’s protection.
Charlemagne diligently worked to create a cohesive empire: he mandated the use of a standardized script (Carolingian minuscule); aligned Latin with patristic standards; imposed a unified liturgy blending Gallican-Frankish and Roman traditions; and standardized monastic practices under the Rule of St. Benedict.
Despite these efforts, the Empire remained fragile due to Charlemagne’s death in 814, which prevented full consolidation. The Frankish inheritance system, which called for power-sharing among heirs, also contributed to its downfall.

After Charlemagne’s death, the Holy Roman Empire was divided into three separate kingdoms. Louis the Pious, Charlemagne’s successor, distributed the Empire among his sons according to Frankish succession customs, formalized by the Treaty of Verdun (843), which permanently divided the Empire and ended the unity of the Western Holy Roman Empire. This fragmentation led to significant internal and external pressures, culminating in the abdication of Charles the Fat, one of Charlemagne’s descendants, who proved unable to defend the Empire. The realm ultimately split into five distinct entities: Germany, France, Italy, and Upper and Lower Burgundy, with the imperial title ceasing upon the death of Berengar I, who was assassinated in Verona in 924.
The decline of the Empire coincided with the Church’s waning influence.
In Italy, the papacy, bolstered by the “Pactum Ludovicianum,” secured its autonomy, severing ties with the decaying Carolingian Empire. While this newfound autonomy could have been advantageous, it sparked fierce power struggles. The papacy became a highly contested institution among Roman nobility and southern Italian leaders, resulting in violent conflicts. This era, known as the “Saeculum Obscurum” of the Church, saw rapid turnovers in the papal office, often driven by the shifting dominance of competing factions, leading to instances where rival popes were simultaneously appointed.

A reflection on Theocracy in the Carolingian Empire

It is essential to differentiate between the terms “theocracy,” “hierocracy,” and “caesaropapism.”
“Theocracy” refers to the intervention of rulers in religious matters that fall within the Church’s jurisdiction. In contrast, “hierocracy” is the Church’s intrusion into State affairs. “Caesaropapism” denotes the State’s involvement in the internal administration and organization of the Church.
The Carolingian era was marked by theocratic tendencies, particularly evident in liturgical reform, which aligned with Roman practices yet incorporated local elements, resulting in the Franco-Roman liturgy. This reform was initiated by rulers, not the Church. This development would later give rise to the Latin liturgy.
In legal matters, the “Dionysio-Hadriana Collection” was upheld, augmented with new legislation to meet evolving needs.
Episcopal offices were integrated into the Kingdom through feudal rights.
Legislative mechanisms in the Carolingian period included:

  • Mixed councils, comprising both clerical and lay participants, tasked with legislating social and ecclesiastical matters.
  • The Capitularies, or laws supplementing ordinary chapters.
  • The Missi dominici, inspectors sent on missions throughout the Empire, composed of bishops and lay officials. This overview highlights how, in Carolingian governance, religious and secular responsibilities were interwoven. Charlemagne also engaged in theological debates, such as Adoptionism, which claimed Jesus was God’s Son by adoption; and Iconoclasm, initially resolved by the Second Council of Nicaea convened by Empress Irene but whose conclusions Charlemagne rejected due to the exclusion of the Frankish Church. This applied similarly to the Filioque dispute, stemming from the Council of Constantinople (381).

Charlemagne played a significant role in these matters, but unlike Byzantine emperors, he respected papal authority, maintaining a clear distinction between religious and state powers within the Empire’s unified administration, thus permitting ecclesiastical autonomy.
Two principal powers emerged, mutually independent yet interlinked: religious and secular. This concept, clearly expressed by Pope Gelasius (492-496) in a letter to Emperor Anastasius in 494 and influencing Western political thought for over a millennium, identified the Church with the broader world. The Church was perceived not as an intermediary between God and humanity but as a “Societas fidelium,” where every member, according to their role, was committed to defending the Kingdom of God and converting all people to God. This universalistic view led the Church to embody “Ecclesia universalis.” The ancient Church’s Christ Pantocrator, creator of all, took on an earthly aspect in the medieval period: Christ became the supreme Priest and King governing the “Ecclesia universalis,” encompassing all Christian humanity. Here, the Pope and the King represented sacramental counterparts of one reality: Christ, who lived and expressed Himself through them.
Yet, by the 8th century, a gradual separation between the laity and priesthood began to emerge, initially evident in the liturgy, which symbolized the Church’s life. The King, as a consecrated layman, retained a sacred status, thereby serving as Christ’s legitimate earthly representative.