Archivi categoria: Politica

I fondamenti religiosi della finanza islamica

 

di

Riccardo Piroddi

 

 

Parte V

 La gestione dei fondi azionari islamici

 

Di grande interesse, in relazione all’applicazione della legge coranica, diventa la gestione del risparmio nella finanza islamica, con particolare riferimento alla gestione dei fondi azionari islamici, cioè all’attività dell’asset management islamico. I primi fondi comuni islamici sono apparsi sulla scena negli anni ‘80, ma soltanto di recente hanno suscitato l’attenzione del mondo accademico, legato alla finanza, per quattro ordini di ragioni: il primo: da poco, hanno assunto una dimensione quantitativa, tale da poter rappresentare un’asset class; il secondo: l’asset management islamico è piuttosto giovane; il terzo: le pratiche di gestione risultano poco trasparenti e la scarsità di dati disponibili non consente un’agevole analisi comparativa tra i portafogli; il quarto: la maggior parte dei fondi islamici sono gestiti da società, con sede in mercati diversi da quelli europei, con differenti regole di gestione e, quindi, con difficoltà di comparazione (Malesia, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Kuwait). In mancanza di una solida letteratura sul tema, posso qui trattare semplicemente gli aspetti più rilevanti del mercato dell’asset management islamico, sul piano qualitativo (gestionale) e quantitativo. Va premesso, quindi, che anche la gestione dei fondi azionari islamici è soggetta alle prescrizioni coraniche (i cinque pilastri), senza eccezioni, imputabili a qualche interpretazione soggettiva, applicabile, da paese a paese, a causa dell’appartenenza a scuole coraniche diverse. Il fondi di investimento islamici sono nati e si sono sviluppati, principalmente: sotto la spinta delle élite finanziarie musulmane, arricchitesi con i capitali delle estrazioni petrolifere, le quali non volevano più rivolgersi al mercato finanziario di Londra; per intercettare e mantenere in patria questi capitali; per corrispondere alla domanda della clientela islamica di poter investire i propri risparmi, in modo conforme alla Shari’ha, senza doversi spostare su piazze finanziarie estere. Su 930 miliardi di dollari, gestiti dalla finanza islamica, secondo i principi della Shari’ha, al 2010, una quota del 5,5% competeva alla gestione dei fondi comuni islamici, per un valore di 52 miliardi di dollari. Gli Islamic Funds erano, nel 2010, circa 700, così distribuiti per domicilio: Malesia 27% (180), Arabia Saudita 22% (174), Kuwait 12%, Emirati Arabi Uniti 7%, Indonesia 4%, Regno Unito 4%, Pakistan 4%, Sud Africa 3%, Bahrain 3%, Singapore 2% e Altri 12%. Prevalevano e prevalgono, tutt’ora, gli asset managers del Medio Oriente e dell’Africa. Per quanto riguarda la diversificazione di questi fondi, per asset class, gli investimenti azionari erano e sono i più popolari, seguiti dall’investimento a reddito fisso e dalle commodities, specificamente: Equities 40%, Fixed income 22%, Commodities 18%, Other 12%, Cash 10%, Real Estate 6%e Balanced 3%. Va precisato anche che i due terzi dei veicoli di investimento lanciati sul mercato, negli ultimi anni, sono stati prevalentemente destinati a clientela istituzionale e, quindi, pur essendo strutturati, come fondi comuni, non sono rivolti, nella maggior parte dei casi, agli investitori retail. Per tale ragione faticano a gestire masse di capitali tali da garantire il punto di break-even (almeno 100 milioni di dollari per fondo). Ma avranno bisogno, comunque, di consolidamento e di concentrazione, e, quindi, risultano destinati a potenziali di crescita molto elevati. In questa crescita, anche gli Islamic Funds dovranno attenersi ai seguenti precetti religiosi: il divieto di riba non consente di promettere un rendimento garantito ai sottoscrittori del fondo. Il rendimento dipenderà esclusivamente dall’andamento del fondo; il divieto di riba non consente di investire in titolo obbligazionari tradizionali, a tasso fisso; il divieto di riba non consente di investire in azioni privilegiate, quando il privilegio si riferisce ad un diritto di prelazione per gli azionisti, in sede di liquidazione della società e di distribuzione dei dividendi; l’investimento azionario è consentito, purché rispetti, in tutte le fasi, la conformità alle regole coraniche e le società emittente azioni, da includere nel portafoglio del fondo, devono essere “coerenti” con i fondamenti etico-religiosi islamici, per il tipo business trattato e per i ratios finanziari; l’attività di gestione del fondo deve essere costantemente monitorata e controllata dallo “Shari’ha Board”, il comitato di giurisperiti islamici, la cui importanza, come si può intuire, per la credibilità e la reputazione islamica del fondo, risulta superiore alle performances di gestione; la determinazione sulla “accettabilità” islamica dei titoli avviene, attraverso uno screening, collegato alla business industry e al rispetto di alcuni financial ratios; l’attività di investimento dei gestori del fondo può anche riguardare società che, parzialmente e marginalmente, hanno un’attività non lecita (haram); l’attività di investimento deve poter far leva anche sui processi di innovazione finanziaria, anche derivati, purché rispettosi dei divieti di riba, di qimar (scommessa), e di gharar (incertezza e rischio). I principali punti critici dell’asset management islamico riguardano la scarsa diversificazione dell’offerta (mancanza di sufficienti asset classes e prodotti, ristretti, agli inizi, solo ai depositi infruttiferi e agli investimenti immobiliari), l’assenza di un effettivo servizio di wealth management (a fronte della necessità di innovazione finanziaria nella gestione dei rischi), l’eccessiva frammentazione dell’industria (mancanza di una effettiva partecipazione al mercato retail) e il problema della composizione degli Shari’ha Board (diversità di vedute tra le diverse scuole coraniche e potenziali conflitti di interesse). Affinché, quindi, l’asset management islamico possa arrivare al grande pubblico, diventa necessario superare, nel rispetto della legge coranica, almeno alcune delle enunciate criticità, a partire dalla costruzione condivisa di nuovi strumenti finanziari, senza che gli Shari’ha Board possano, per motivi estranei al rispetto dei precetti religiosi, influenzare la concorrenza tra gli operatori del risparmio, gestito dagli Islamic Funds.

 

 

 

Crisi della politica nel XX secolo: elementi interpretativi

 

di

Francesco Giacomantonio

 

 

 

Nel contesto del pensiero contemporaneo, il concetto di crisi è presente con una frequenza tale, da poter indurre a pensare che si abusi nella sua fruizione. E’ opportuno sottolineare che, sebbene sia indiscutibile sotto molti aspetti una condizione di “crisi” per quanto riguarda molti aspetti della cultura e della società del XX secolo, è probabile che la grande enfasi posta su tale idea di crisi, abbia anche una sorta di motivazione epistemologica…

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I fondamenti religiosi della finanza islamica

 

di 

Riccardo Piroddi

 

 

Parte IV

Le banche islamiche: tra tradizione e innovazione

 

Le banche islamiche non sono quelle che operano esclusivamente nei paesi islamici o le loro filiali all’estero, ma (solamente) quelle banche che scelgono di agire, nel modo della finanza e del credito, nel rispetto assoluto dei precetti religiosi della Shari’ha, cioè la “via della salvezza, segnata da Dio e rivelata agli uomini dal Profeta”. A causa degli ingenti flussi finanziari che vengono scambiati tra il mondo islamico e quello occidentale, la finanza islamica, da realtà di nicchia, sta assumendo, a partire dalla fine degli anni sessanta e gli inizi degli anni settanta, un ruolo significativo nella finanza mondiale, sia sul piano qualitativo, che sul piano quantitativo. Si è già analizzato come tutto l’edificio della finanza islamica si regga sul concetto del divieto di riba e della pratica dell’interesse bancario: “Dio ha proibito il riba (Corano, II, 275) e quel che voi prestate a riba, perché aumenti sui beni degli altri, non aumenterà presso Dio”. Il riba (etimologicamente: aumento, accrescimento), quindi, non rappresenta soltanto un semplice divieto, ma assume il significato di principio religioso, etico e sociale, fondante la solidarietà, che ispira tutta la società islamica. La scelta degli intermediari bancari, per la raccolta del risparmio e per la concessione del credito, è diventata un passaggio obbligato per operare nel rispetto della legge coranica. Le banche islamiche, quindi, consentono di coniugare i vantaggi collettivi con il rispetto delle prescrizioni religiose: ne è esempio il contratto di assicurazione, che viene trasformato in mutualità collettiva, anche se alcune scuole di diritto coranico continuano a sollevare perplessità sull’elevato grado di incertezza. Come è intuibile, nella finanza islamica non trovano alcuna cittadinanza gli strumenti finanziari derivati, a causa della loro eccessiva volatilità e del disancoraggio dagli asset concreti, visibili e tangibili, dell’economia reale. Ciò non ha impedito, anzi favorito, l’espansione della finanza islamica in alcune capitali occidentali, già citate in articoli precedenti, e anche in Svizzera, dove sono proliferati gli sportelli del maggior gruppo bancario islamico mondiale, il saudita Dar al-Mal al-Islami, che ha la sede operativa a Ginevra. Anche se il motivo del ricorso alla finanza islamica, da parte degli occidentali, non va riferito certo alle virtù salvifiche dell’agire religioso, ma ad una particolare modalità di investimento, collegate alle comunità islamiche presenti nelle realtà europee, le cui rimesse sono in costante crescita, tanto da costituire una quota rilevante dei flussi finanziari verso i paesi di origine (alle rimesse ufficiali, tramite i canali in chiaro, vi sono rimesse non registrate, per un importo totale doppio, che transitano attraverso canali informali, secondo le regole non scritte dalla hawala). La hawala è la transazione più informale della finanza islamica. Si realizza quando un migrante si rivolge ad un intermediario (in genere, il titolare di un esercizio commerciale della stessa comunità etnica e religiosa), il quale regola la transazione sulla base della compensazione periodica del saldo complessivamente trasferito. Non vi è passaggio di denaro, ma l’assicurazione, sulla parola, dell’intermediario sulla consegna del denaro a destinazione, che avviene attraverso una fitta rete di fiduciari, presenti sul territorio di origine. Su questo segmento operativo, al fine di evitare il finanziamento occulto di movimenti fondamentalisti, sta diventando alta la guardia delle autorità di sicurezza occidentali. Man mano che la finanza islamica si afferma anche in occidente, molti studiosi tendono a stabilire analogie tra le banche islamiche e le nostre banche di credito cooperativo e le popolari, che mantengono un legame privilegiato tra i soci, con il fine, quasi mutualistico, dell’efficienza operativa. Le banche islamiche, sul mercato italiano, in futuro, potrebbero beneficiare, sia dal punto di vista normativo che organizzativo, proprio della grande esperienza maturata dalle banche di credito cooperativo e dalle banche popolari. Molti guardano al bacino del Mediterraneo allargato, come luogo di liberalizzazione del commercio e di associazionismo commerciale tra paesi europeo-mediterranei e paesi arabo-mediterranei, che trovi la sua leva protagonistica nella finanza islamica e nella cooperazione con le banche di credito cooperativo e banche popolari.  L’Italia è in grave ritardo su questo fronte, ma una politica finalizzata potrebbe far recuperare, in breve, il tempo perduto.

 

 

 

Ridiscutere di Auctoritas oggi

 

di

Elena Cuomo

 

 

La crisi dell’ideale autofondativo della comunità interroga la problematica dell’autorità, ponendola al centro di una richiesta di senso, che la riguarda in ambito semantico-concettuale e politico, chiedendone un’attualizzazione che superi i confini della “semplice” ricostruzione filologica ed esponendola anche ai rischi di un eventuale tentativo ideologico di risacralizzazione…

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I fondamenti religiosi della finanza islamica

 

di

Riccardo Piroddi

 

 

Parte III

Le regole fondamentali della finanza islamica

 

Se, agli esordi, la finanza islamica era considerata una nicchia del mercato finanziario mondiale, in base al tasso costante di crescita annuo, superiore al 10%, si può prevedere che, nel giro di un ventennio, questo particolare settore della finanza verrà ad occupare un posto di grande rilievo, a livello internazionale, sulla base di diverse potenzialità: la ricchezza finanziaria accumulata da alcuni paesi di confessione islamica, pronta ad essere investita anche in paesi non-islamici, purché gli investimenti siano conformi ai principi delle legge coranica; la presenza in molti paesi occidentali (USA, Gran Bretagna, Germania e Francia) di numerose comunità islamiche, che vogliono investire, in modo lecito, secondo le regole del Corano; la limitata diffusione di servizi bancari e finanziari nei paesi islamici, che prelude ad una forte espansione degli stessi; la disponibilità di alcuni paesi occidentali a modificare le loro norme interne, di natura fiscale, immobiliare e sulla gestione del rischio (anche con i doppi regimi), per poter favorire, sul territorio, la presenza operativa di banche islamiche (l’esempio inglese – e francese – resta il più pertinente, con la prima banca islamica, 2004, in Europa, la Islamic Bank of Britain, sulla base del principio “no obstacles, no special favors); l’offerta crescente, da parte delle banche tradizionali occidentali, di prodotti finanziari “Shari’ha compliant”, per attirare clienti di fede islamica; le emissioni di obbligazioni islamiche (sukuk), negoziate alla Borsa di Londra, che interessano non solo emittenti, residenti in paesi islamici, ma anche emittenti occidentali (nel 2004, il Land della Sassonia-Anhalt ha emesso 100 milioni di euro di sukuk e il governo inglese ha annunziato di voler finanziare il suo deficit con emissioni di sukuk); il credit crunch della finanza occidentale ha accentuato l’interesse, anche in Occidente, per la finanza islamica, in relazione ai principi e alle regole, che la governano; la standardizzazione dei contratti islamici, che favorisce la loro diffusione; la discussione in corso, in Occidente, su come ancorare la finanza occidentale a principi etici, porta ad un obiettivo avvicinamento alla finanza islamica. Si è già chiarito, nei precedenti articoli, che la finanza islamica si basa sui principi dell’Islam e sulla legge coranica, la Shari’ha, ricavata dal Corano, e la Sunnah, che raccoglie gli atti e i detti del profeta Maometto. La Shari’ha viene interpretata dalle diverse scuole di pensiero del mondo islamico, anche se la confessione sunnita risulta prevalente e riguarda il 90% della popolazione islamica mondiale. Le scuole sunnite di diritto coranico dominanti sono quattro e adeguano la legge coranica all’evoluzione tecnologica, secondo il principio di analogia (in tal modo, il divieto dell’alcol è stato esteso alle droghe): la Shafi, diffusa in Malesia; l’Hanbali, diffusa in Arabia Saudita; l’Hanafi, diffusa in Pakistan; la Maliki, diffusa in Africa. Vale la pena, adesso, approfondire la struttura del contratto più diffuso della finanza islamica: il murabaha. Viene applicato ogni volta che il cliente di una banca islamica ha bisogno di una finanziamento per l’acquisto di un bene (sia esso una casa di abitazione o, ad esempio, il capitale della Aston Martin, acquistato dal fondo del Kuwait, Investment Dar, per una cifra di 1,3 miliardi di dollari). A differenza della finanza non islamica, che corrisponde a questa richiesta, mettendo a disposizione i capitali necessari, contro il pagamento di un interesse e la prestazione di adeguate garanzie, con il murabaha è la banca ad acquistare direttamente il bene e a rivenderlo immediatamente al cliente, con un margine che è funzione del valore del denaro, per il tempo concesso in dilazione di pagamento. I passaggi-chiave del murabaha sono tre: il cliente manifesta alla banca islamica la volontà di acquistare un bene, ad un determinato prezzo, e con consegna a data certa; la banca acquista il bene dal fornitore e lo vende al cliente; il cliente accetta l’offerta e acquista la proprietà del bene, contro il pagamento del prezzo, alla data convenuta. Naturalmente il murabaha può contenere altre clausole a carico del cliente, garanzie e obblighi di indennizzo in caso di default. Esiste anche un murabaha inverso, detto Tavarruq, che tende a soddisfare una pura esigenza di finanziamento del cliente, per cui non viene accettato da tutte le scuole di diritto coranico. Il musharaka, invece, è il contratto tipico per le operazione di venture capital e viene impiegato per finanziare i grandi progetti a lungo termine (autostrade, pozzi di perforazione petrolifera). Dall’analisi di tutti i tipi di contratto si evidenza un dato costante: l’ancoraggio ad un asset reale e la condivisione del rischio operativo del cliente. Questo dato sta facendo assumere alla finanza islamica un valore sempre più attrattivo, agli antipodi della finanza creativa occidentale e della filosofia dei derivati, per cui appare più sicura, per gli stessi investitori occidentali, di quanto non sia la finanza tradizionale, slegata dai beni sottostanti e, quindi, sempre più carica di rischi.

 

 

 

Relativism and Human Rights

 

by

Claudio Corradetti

 

 

We live in a rule-constrained world. Even our most insignificant practices are somehow dependent upon a socially agreed standard regulating their structures, procedures, and general goals. We can, for instance, appreciate our neighbour’s ability to keep her garden tidy and in good shape…

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Cultural diversity, cosmopolitan principles
and the limits of sovereignty

 

by

David Held

 

 

Thinking about the future of humankind on the basis of the early years of the 21st Century does not give grounds for optimism. From 9/11 to the 2006 war in the Middle East, terrorism, conflict, territorial struggle and the clash of identities appear to define the moment. The wars in Afghanistan, Iraq, Israel/Lebanon and elsewhere suggest that political violence is an irreducible feature of our age…

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I fondamenti religiosi della finanza islamica

 

di

Riccardo Piroddi

 

 

Parte I

 La definizione di finanza islamica

 

 

Si può definire finanza islamica l’insieme delle banche commerciali e dei fondi di investimento, che operano nel rispetto della Shari’ha, cioè della legge islamica e dei principi religiosi, presenti nel Corano. Il libro sacro dell’Islam giudica gli interessi finanziari sui capitali (riba) e la speculazione finanziaria stessa, come una forma di usura e di strozzinaggio (gharar). Fa divieto, cioè, che il denaro “fermo” possa generare, di per sé, altro danaro. Ne discende che la finanza islamica, a differenza di quella occidentale, non possa guadagnare interessi. Una banca islamica, pertanto, non concede mutui ad interesse per l’acquisto di una casa, ma acquista direttamente la casa, cedendola in affitto al richiedente, il quale si impegna ad onorare un piano di rate mensili e, a conclusione del piano, diventa il legittimo proprietario dell’immobile. Nella finanza islamica prevale l’aspetto “sociale” dell’investimento, con conseguente divieto assoluto di investire in tutti settori proibiti dalla legge coranica, a partire da armi, droga, pornografia, bevande alcoliche e carne di maiale. La finanza islamica si propone, quindi, di tutelare e di promuovere i valori, i principi e le regole dell’Islam. Essa non opera soltanto nei paesi islamici, come generalmente si può ritenere, ma anche nel mondo occidentale (USA, Inghilterra, Germania e Francia), dove sono numerose le comunità islamiche che non vogliono utilizzare, per finanziarsi, strumenti finanziari illeciti (haram), ma strumenti religiosamente leciti (halal). Il che non vale al contrario, perché sempre più numerose imprese occidentali o cittadini europei fanno ricorso, per investire, alla finanza islamica. A tutt’oggi (agosto 2012), i capitali, amministrati dalla finanza islamica, nel mondo, sono stimati nell’ordine di 2.000 miliardi di dollari. Della finanza islamica, costituisce, ormai, il simbolo visibile e vitale, nonché la crescente potenza, sulla skyline di Londra, la “Scheggia di Vetro” (Shard of Glass), che sfida, come la vetta più alta, il cielo della capitale del Regno Unito, realizzata, da Renzo Piano, principalmente con i capitali (l’80%) del Qatar. Il valore degli assets della “shri’ha compliant” è passato dai 5 miliardi di dollari del 1980 ai 1800 del 2017. Nonostante la crisi del debito di Dubai, anche il mercato delle obbligazioni islamiche (sukuk) sta conoscendo un’enorme fase di espansione, con un tetto di 22,6 miliardi di dollari, a fine 2011, e tassi di insolvenza quasi nulli. Le banche islamiche e i fondi di investimento, in particolare, sono presenti massicciamente anche sul mercato finanziario internazionale. Tra i paesi europei, il Regno Unito è stato, in ordine di tempo, il primo ad aver accolto in Inghilterra ben cinque banche islamiche, modificando anche la propria legislazione, in quanto la finanza islamica opera secondo principi etici e religiosi, in ossequio alla legge coranica, e secondo regole, che sono alternative alla tradizionale finanza cartolare dell’Occidente (divieto degli interessi; condivisione di rischi e profitti tra creditore e debitore; divieto di speculazione; divieto di investimento in settori, ritenuti illeciti; indissolubile legame tra strumento finanziario ed economia reale). Non sono da meno Parigi (dal 2011, i parigini possono aprire il loro conto corrente presso la Chaabi Bank, filiale della Banca Popolare del Marocco) e Berlino (la Deutsche Bank guida la fila di joint venture con banche islamiche), che si collocano dopo Londra, nel favorire, con l’adattamento delle norme interne, l’ingresso sul loro territorio di prodotti di finanza islamica, al fine di competere, con la capitale britannica, come centri finanziari internazionali. Non sono mancate polemiche, da parte di chi vede, in questa penetrazione, i rischi di islamizzazione dell’Occidente, per via finanziaria, anche perché le banche islamiche sono tenute a versare il 2,5% dei loro profitti (zakat) ad enti ed associazioni di beneficenza islamica, anche per la “causa di Allah” (fi sabil Allah). Al di fuori dell’Europa, la finanza islamica opera principalmente sulle direttrici africane (Senegal, Nigeria e Kenia) e mediorientali, con un incremento complessivo, nel 2010, di 416 miliari di dollari. Non è stata esente la Cina, dove il governo di Pechino ha autorizzato, nel 2012, sul territorio cinese, l’apertura del primo istituto finanziario islamico. Appare evidente, di fronte alla crisi dei mercati finanziari occidentali, delle bolle e della speculazione, cioè del distacco crescente della finanza tradizionale dall’economia reale, quanto sia attraente una finanza, come quella islamica, che si ispira a principi etici e religiosi, nonché sull’adesione della stessa all’economia reale. Il dubbio ricorrente riguarda il fattore tempo: se la finanza islamica riuscirà, a contatto con quella occidentale, a mantenersi fedele ai suoi principi ispiratori, presenti nel Corano. Nel dettaglio, i contratti finanziari islamici devono rispettare le regole della Muamalat, quella parte della Shari’ha, che disciplina i comportamenti da tenere nell’economia e nella finanza. Secondo il Corano, Dio ha creato ogni cosa, nella giusta quantità, per soddisfare i bisogni umani (gli esseri umani sono i “custodi di Dio nel mondo”; la proprietà privata è un “prestito” da parte di Dio; la gestione dei beni deve avvenire, quindi, nel rispetto dei principi religiosi), per cui la scarsità delle risorse deriva solo dall’egoismo e dall’ingordigia umana, cioè dal processo di accumulazione capitalistica: l’homo islamicus non coincide con l’homo oeconomicus. Da questa premessa discendono i cinque pilastri, già sopra accennati: 1) il divieto di percepire interessi (riba); 2) il divieto di speculare (gharar); 3) il divieto di finanziare settori, banditi dalla Shari’ha; 4) il divieto di scindere la transazione finanziaria dall’asset di riferimento, che deve essere tangibile ed identificabile; 5) l’obbligo della purificazione del patrimonio, con la corresponsione di un’offerta, che può essere obbligatoria (zakat) o volontaria (sadaqat). La finanza islamica ha due obiettivi: economico (conservazione del capitale, massimizzazione dei guadagni, equilibrio tra liquidità e profittabilità); religioso (rispetto assoluto dei precetti coranici, nel possesso di beni legittimi, halal, e nel respingimento dei beni illegittimi, haram). Nella finanza islamica non esiste la concorrenza, ma la cooperazione, per cui le partnership e i contratti finanziari islamici possono essere di quattro tipologie: prestiti sintetici (debt-based: salam, istisna, murabaha), realizzati con accordi di vendita-riacquisto di asset oppure di vendita di asset, detenuti da terzi per conto del debitore (back-to-back); contratti di lease (assetbased: ijarah), realizzati con un accordo di vendita-riacquisto in leasing o mediante lease di asset acquisiti da terze parti con obbligazione al riacquisto (lease finanziario); contratti profit-loss sharing (PLS; equity-based: mudaraba e musharakah), nei quali solamente una banca fornisce il finanziamento e l’imprenditore tempo e lavoro;  obbligazioni islamiche (sukuk), di recente formulazione, che, a causa della proibizione dei tassi di interesse, consentono il rifinanziamento delle banche. Sui rischi, le banche islamiche devono affrontare non solo gli stessi rischi convenzionali (insolvenze; fluttuazioni delle materie prime; gestione della liquidità; rischi di mercato; rischi legali; rischi regolamentari), ma anche un  rischio tipico della finanza islamica, lo “Shari’ha risk”, quello di non adempiere correttamente la condivisione o non rispettare i precetti religiosi della legge coranica. Sul fronte assicurativo, si evidenzia tutta la differenza tra la finanza islamica e quella occidentale, in quanto gli islamici non possono sottoscrivere contratti di assicurazione tradizionali (assicurare una casa significherebbe trasferire il rischio ad una compagnia di assicurazione, la quale trasformerebbe i premi ricevuti in un reddito, in assenza del verificarsi dell’evento assicurato), per due divieti religiosi: il divieto di incertezza (gharar); il divieto di scommessa (maysir). Da qui, discende che l’assicurazione islamica (takaful) si realizza con il versamento di una contribuzione volontaria, da parte degli assicurati, ad un fondo comune, la cui gestione è affidata ad un terzo, al quale viene pagata una commissione: né l’assicurato, né il gestore si assumono singolarmente il rischio, ma in modo condiviso, nel pieno rispetto della legge islamica (contratto di mudaraba).

 

 

 

Empires and Nations: convergence or divergence?

 

by

Krishan Kumar

 

 

It has long been the conventional wisdom that nations and empires are rivals, sworn enemies. The principle of nationalism is homogeneity, often seen in ethnic terms. Nations strive to embody, or to produce, a common culture. They express a radical egalitarianism: all members of the nation are in principle equal, all partake of the common national “soul”. Nations moreover are intensely particularistic…

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Forza, contratto e convenzione:
osservazioni sull’interpretazione evoluzionistica
della politica di Spinoza

 

di

Gabriella Lamonica

 

 

La critica recente sulla politica di Spinoza ha raggiunto, nella sua varietà, due sostanziali punti di accordo: si sottolinea il fondamento metafisico della politica spinoziana, e se ne minimizza il significato contrattualistico. Il primo punto non riguarda soltanto Spinoza…

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Baruch Spinoza (1632-1677)