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I Papi, la guerra e la pace

 

di

Riccardo Piroddi

 

 

Cominciano, con questo articolo introduttivo, una serie di mie riflessioni storiche, politiche e culturali, sugli atteggiamenti di alcuni papi della Chiesa Cattolica Romana, nei confronti della guerra e della pace, attraverso la meditazione di encicliche, di lettere pastorali, di allocuzioni e di messaggi radiofonici, in quell’arco di tempo che va dal pontificato di Leone XIII (1878-1903) a quello di Giovanni XXIII (1958-1963).

 

Tra gli “inventori” della pace, come è stato definito dallo storico militare Michael Howard, bisogna certamente annoverare Leone XIII, il cui insegnamento, per la universale notorietà dell’enciclica Rerum Novarum, è spesso riduttivamente limitato alle questioni sociali. Un documento di grande rilevanza, nell’ambito che interessa alla mia riflessione, è la lettera apostolica Principibus populisque universis, del 1894, nella quale furono rappresentate forti perplessità sul semplice possesso delle armi, prima ancora del loro uso. Il pontefice scrisse come, da molti anni, si vivesse una pace più apparente che reale e le nazioni, colte da mutui sospetti, potenziassero febbrilmente i propri armamenti. La gioventù era spinta alla vita militare,leonepa il dispendio di risorse economiche, immenso, e stremava le ricchezze nazionali. Lo stato di pace armata era divenuto intollerabile. Leone XIII (immagine a sinistra) definì un concetto di grande attualità: la pace non può essere armata, implica una discussione del sistema di guerra e, per essere positiva, ma anche possibile, deve rinviare ad un ordinamento sociale e politico che sia giusto e venga percepito come tale. L’idea di fondo era che la pace non potesse essere soltanto un periodo in cui la guerra non fosse effettivamente combattuta o imminente. Non pace negativa, ma positiva, interiorizzata. Non semplice aspirazione di idealisti, ma programma di governo desiderabile e praticabile, che implicasse la costruzione di un ordinamento sociale e politico percepito dai più come giusto. A partire da Leone XIII, sul terreno politico-sociale, il messaggio cristiano non poté sottrarsi al confronto con le ideologie, pur correndo il rischio di degenerare anch’esso in ideologia. Benedetto XV, nell’enciclica Ad Beatissimi Apostolorum Principis, del 1914, rilevò come l’Europa in guerra offrisse lo spettacolo più tetro e luttuoso nella storia dei tempi. Le grandi carneficine in atto erano conseguenza del fatto che grandi e fiorenti nazioni fossero ben fornite di quegli orribili mezzi che il BENEDETTO-XVprogresso dell’arte militare aveva inventato. Nel 1917, nella Nota ai capi dei popoli belligeranti, il pontefice ricordò che si fosse rigorosamente attenuto ad una linea di perfetta imparzialità verso tutti i belligeranti, sforzandosi di fare a tutti il maggior bene. Già in una allocuzione del gennaio del 1915, Benedetto XV (immagine a destra) aveva espresso il fondamento della neutralità della Chiesa, la quale era vista come presupposto e condizione indispensabile per portare avanti vaste iniziative umanitarie, per intraprendere passi diplomatici, al fine di circoscrivere il conflitto, e ripristinare la pace. Non mancavano motivazioni interne: nella guerra erano coinvolti due terzi dei cattolici del tempo. 124 milioni dalla parte dell’Intesa e 64 milioni dalla parte degli Imperi Centrali. La neutralità era la prima condizione per non pregiudicare non solo la pace, ma anche l’unità della Chiesa. Con l’entrata in guerra dell’Italia, la Santa Sede evitò di impegnare il clero e le organizzazioni del laicato cattolico in iniziative di propaganda o mobilitazione pacifista ma non evitò di portare avanti un intenso e riservato lavorio diplomatico, per cercare soluzioni di compromesso. Il pontificato di Pio XI si dipanò tutto nel periodo comunemente detto di “crisi tra le due guerre mondiali”. Il ventennio compreso tra la fine della Prima guerra mondiale e l’inizio della Seconda, fu condizionato dalle tensioni internazionali, che la pace imposta dal Trattato di Versailles (giugno 1919) non riuscì a sanare, dalla rivoluzione bolscevica in Russia e dall’affermarsi di regimi totalitari in Italia, Germania, Spagna e Giappone. Nell’enciclica Ubi Arcano Dei, del 1922, Pio XI dichiarò che la pace, sottoscritta tra i belligeranti dell’ultima guerra, fosse stata scritta soltanto nei trattati, ma non ricevuta nei cuori degli uomini, che ancora continuavano a desiderare di combattersi l’un l’altro. La vera pace, la pax Christi in regno Christi, voluta dalla Chiesa, si sarebbe potuta stabilire solo all’interno della Papst_Pius_XI._1JSvera comunità delle nazioni, offerta dalla Chiesa Cattolica. Nel Novecento, nell’age of extremis, comparve un altro terribile modello di società e di Stato, il totalitarismo fascista e nazista. L’esaltazione, la pratica e la codificazione della violenza, il ricorso alla guerra d’aggressione costituirono parte essenziale della loro identità. Pio XI (immagine a sinistra), che pure cercò, con essi, tramite la politica concordataria, spazi di presenza e di manovra per la Chiesa, sottolineò, nell’enciclica Mit Brennender Sorge, del 937, come il principio secondo cui diritto fosse ciò che è utile alla nazione, staccato dalla legge etica, avrebbe significato, per quanto riguarda la vita internazionale, un eterno stato di guerra. Nell’enciclica Divini Redemptoris, del 1937, il tema della guerra era presente in un paragrafo sul falso pacifismo, allorquando il pontefice sostenne che i capi del comunismo fingessero di essere i più zelanti fautori del movimento per la pace mondiale, ma, allo stesso tempo, eccitassero ad una lotta di classe, che fece correre fiumi di sangue e, sentendo di non avere garanzia di pace, ricorressero agli armamenti illimitati. Pio XII, quando la Seconda guerra mondiale era già iniziata, nell’enciclica Summi Pontificatus, del 1939, mostrò come la radice dei mali della società moderna fosse la negazione e il rifiuto di una norma di moralità universale, fondamento sia della vita individuale che di quella sociale e delle relazioni internazionali. L’azione del pontefice si sviluppò lungo quattro direttrici: attraverso la diplomazia vaticana, guidata dai monsignori Domenico Tardini e Giovanni Battista Montini, futuro papa Paolo VI, e tramite gli episcopati nazionali, per convincere i singoli paesi a non passare tra quelli belligeranti, al fine di limitare il conflitto; enunciando le condizioni e i principi ispiratori di un possibile ritorno alla pace, che non assumesse le connotazioni vendicative del Trattato di Versailles; formulazione di una dottrina ben articolata e capace di offrire punti di arroccamento ai popoli e agli individui per il futuro ordinamento del mondo postbellico.download I tratti fondamentali di questa dottrina sono esposti in messaggi radiofonici natalizi. In quello del 1941, sull’ordine internazionale il papa (immagine a destra) affermò che il nuovo ordinamento internazionale dovesse essere innalzato sulla cima della legge morale, manifestata da Dio stesso, per mezzo dell’ordine naturale e scolpita nei cuori degli uomini con caratteri incancellabili. Legge che doveva essere promossa da tutte le Nazioni, in modo che nessuno potesse porla in dubbio o non rispettarla. In quello del 1942, sull’ordinamento interno, furono presentati cinque punti fondamentali per l’ordine e la pacificazione della società umana: dignità e diritti della persona umana; difesa dell’unità sociale e della famiglia; dignità e prerogativa del lavoro; reintegrazione dell’ordine giuridico; concezione dello Stato secondo lo spirito cristiano. Nel discorso del 1944 sulla democrazia, il pontefice sostenne che l’esperienza della guerra avrebbe fatto in modo che gli uomini si opponessero ai poteri dittatoriali e che richiedessero sistemi di governo più compatibili con la dignità e la liberà dei cittadini. La tendenza democratica avrebbe investito i popoli e ottenuto largamente il suffragio e il consenso di coloro che aspirassero a collaborare più efficacemente ai destini degli individui e della società. Terminata la Seconda guerra mondiale, con le bombe atomiche sul Giappone, cominciarono la Guerra fredda e la corsa agli armamenti. Nel radiomessaggio natalizio del 1955, Pio XII auspicò che si giungesse, per via negoziale, alla sospensione degli esperimenti delle bombe nucleari, alla rinuncia al loro uso e Papa-Giovanni-XXIIIall’avvio di un generalizzato controllo degli armamenti. Giovanni XXIII (immagine a sinistra), nel contesto del pur contraddittorio nuovo clima di dialogo e di apertura di John Fitzgerald Kennedy e Nikita Krusciov, rilanciò il tema della pace come motivo centrale del magistero della Chiesa. L’enciclica Pacem in Terris, del 1963, costituì il punto più alto del suo magistero, in materia non strettamente ecclesiastica o teologica. Scomparve, nel pensiero papale, la nozione di guerra giusta, desunta in parte da Sant’Ambrogio e da Sant’Agostino, come diritto di difendere il prossimo debole e che avrebbe dovuto prevedere: una causa giusta; un’autorità competente che la dichiarasse; una retta intenzione che la giustificasse; essere un rimedio estremo; la probabilità di successo. Nella Pacem in Terris, l’abbandono della teoria della guerra giusta non comportò la semplice rassegnazione nei confronti della violenza e dell’ingiustizia. La pace non rappresentava più l’assenza di guerra, implicava il superamento dei rapporti di dominio tra gli uomini e tra gli Stati, individuava tre interlocutori privilegiati nei lavoratori, nelle donne e nei diseredati del Terzo Mondo, e, infine, si affidava all’ottimismo della Provvidenza.

 

I fondamenti religiosi della finanza islamica

 

di

Riccardo Piroddi

 

Parte VII

Conclusioni

 

In conclusione di questa serie di indagini sulla finanza islamica può essere interessante accennare, in sintesi, alle sue future prospettive a livello internazionale, in Europa e in Italia, dopo aver enunciato i principali ostacoli, che ancora sussistono, per una forte espansione della finanza islamica: la mancanza di expertise (ridotto numero di professionisti applicabili a questa attività); la mancanza di consenso uniforme (manca un corpus codificato di leggi e l’interpretazione è soggetta alle diverse scuole coraniche); la mancanza di veri standard operativi (troppo lungo l’iter di verifica islamica di ogni operazione di rilievo); la limitatezza del mercato secondario (troppo ristretto); il bisogno di asset reali (vantaggio rispetto alla finanza creativa, ma anche freno all’espansione); le restrizioni alla creazione di strumenti derivati (la finanza islamica, comunque, si sta ponendo il problema e sta sviluppando alternative); l’illiceità del contratto di assicurazione (l’alternativa è il takaful, una specie di mutua assicurazione); gli svantaggi fiscali (non tutti i paesi europei sono disponibili, come la Gran Bretagna e la Francia, a creare un ambiente fiscalmente appetibile per la finanza islamica). La finanza islamica può avere una ulteriore espansione internazionale, in alcuni paesi “core” (Malesia, Indonesia, Turchia, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Qatar), che vedono la compresenza di banche islamiche e banche convenzionali (islamic windows), dove le istituzioni hanno sviluppato: una regolamentazione ad hoc; la formazione di figure professionali, specializzate in Shari’ha compliant, e l’educazione finanziaria della clientela. I paesi nord-africani “non core” (Egitto, Tunisia, Marocco e Libia), al contrario, non hanno supportato lo sviluppo della finanza islamica, perché la regolamentazione risulta insufficiente e i regimi fiscali non sono favorevoli. In Europa, il centro nevralgico dell’espansione della finanza islamica rimane, per ora, il Regno Unito. Per il futuro, risultano condivisibili le conclusioni di Rodney Wilson della Durham University (UK), nel saggio “Islamic Finance in Europe” (European University Institute for MUSMINE, pagg. 34-35, 2007), che individua nella Turchia il più grande potenziale di sviluppo e futuro ponte tra l’UE e tutto il mondo islamico: “The greatest potential for Islamic finance, in Europe, is undoubtedly, in Turkey, where Islamic banking has been established since 1980s although it remains on the fringes of the financial system, accounting for less than five percent of deposits, and opinions in its merits are politicised as already indicated… Turkey has the greatest potential for expansion of banking in Europe, including Islamic banking… Turkey can serve as a bridge between European Union and the wider Muslim World and, in the longer term, it is likely to be Istanbul, not London, which becomes Europe’s leading centre for Islamic banking and finance.” In Italia, nonostante i musulmani siano circa 1,6 milioni (un terzo degli stranieri residenti in Italia e il 3% degli italiani), la finanza islamica non si è sviluppata, pregiudicando, finora, la competitività del sistema paese, quale opportunità di business e capacità di attirare capitali dai mercati del Golfo. Si sta puntando sul Mediterranean Partnership Fund, relativo ai paesi dell’Europa mediterranea e meridionale, per aprire ai fondi islamici, come pure agli investitori privati islamici, sostenuti dalle Islamic Financial Institutions.

I fondamenti religiosi della finanza islamica

 

di

Riccardo Piroddi

 

Parte VI

La finanza islamica tra i principi religiosi e la realtà

 

Dall’esame dettagliato delle regole coraniche che governano la finanza islamica, ruotanti intorno ai fondamentali divieti di riba, di gharar e maysir, nonché alla logica associativa, risulta evidente come la finanza tradizionale, ai primi approcci con quella islamica, sia rimasta molto perplessa, ma la globalizzazione dell’economia ha imposto, progressivamente, una convivenza, una sorta di meticciato culturale, sempre più interessato alla conoscenza dell’esperienza della finanza islamica, meritevole di attenzione per le suggestioni etiche e per la propensione alla stabilità. L’Islam non è soltanto una religione, ma una civilizzazione, fondata sull’identità tra religione, mondo e Stato (Din, Duniya wa Dawla), che identifica la legge, la morale, lo stile di vita, la cultura e l’economia: una concezione integrale della vita, che regola le relazioni tra uomo e Dio, tra uomo e la Natura e tra uomo e uomo. Le fonti del diritto islamico, il Corano e la Sunnah, in particolare, contengono la cornice dei valori, che ispirano le istituzioni musulmane e la vita di ogni singolo credente in Allah, secondo i principi di solidarietà, di giustizia, di responsabilità, di cooperazione, di equità, di fiducia, di armonia e di equilibrio. L’obiettivo è una concezione umano-centrica dell’economia, non disgiungibile dalla giustizia economico-sociale e dal benessere, per tutte le creature di Dio, che richiede una risposta conforme da parte di ogni credente, come vicario di Allah, nella gestione dei beni materiali. Mancando la distinzione tra sacro e profano, come in Occidente, viene enfatizzata, al massimo, la natura sociale e collettiva dell’azione umana. L’Islam incoraggia, quindi, il profitto lecito, in quanto frutto di operosità e non di sfruttamento e speculazione, e raccomanda all’uomo d’affari, gestore di beni in nome di Allah, di tenere sempre presente, nel perseguire il profitto, il desiderio di servire l’umanità, attraverso la moderazione, la sobrietà, l’indulgenza, la fratellanza, l’amicizia, anche sul lavoro, nonché l’aiuto verso il prossimo bisognoso, senza aspettarsi nulla in cambio. L’Islam disapprova il tesoreggiamento, il facile arricchimento e l’accumulazione eccessiva, che si traduce nel divieto di monopolio e nell’apertura alla concorrenza, come scoraggia gli eccessi della finanziarizzazione dell’economia e la sconnessione della finanza dall’economia reale. La finanza islamica rivela, quindi, un senso della misura e si pone come parte organica di un più complesso disegno istituzionale, interamente conforme all’etica dell’Islam. Non mancano le criticità (lo scarto tra i principi e la realtà; la complicazione dei contratti partecipativi; l’aggiramento di alcune prescrizioni; la difficile gestione della liquidità), che imporranno, in futuro, un adeguato sviluppo della struttura, dell’organizzazione e dell’attività della finanza islamica, a partire dalle banche islamiche, per poter dare adeguate soluzioni ai problemi della trasparenza, della governance, della gestione dei rischi e della compatibilità contabile, premesse per una integrazione nella finanza internazionale e per diventare un’alternativa globale valida. Ci si chiede, comunque, come un sistema, tanto fortemente connotato dalla promozione di uno sviluppo economico-sociale, responsabile e antropocentrico, non riesca a eliminare, dalla propria realtà, intollerabili diseguaglianza, distorsioni, povertà, speculazioni, corruzione, dissipazione delle ricchezze e stili di vita inaccettabili da parte dei ceti dominanti: uno squilibrio tra principi e realtà! La finanza islamica non è riuscita, finora, a diventare una realtà originaria e innovativa, ispirata dal principio della condivisione del rischio, ma si potrebbe definire, ad oggi, un processo problematico in divenire, nella difficoltà di conciliare tradizione e modernità. Va ripensata in una visione globale, che riesca a mediare il carattere lecito dei mezzi, ad essa offerti, con la moralità dei fini e dei risultati, in un approccio collaborativo con il modello finanza tradizionale, che essa pretendeva (e pretende) di superare. La finanza islamica, quindi, oltre ad offrire alternative microeconomiche alla finanza internazionale, conformi ai dettami del Corano, potrebbe aspirare a diventare una nuova opportunità macroeconomica, per l’economia globale.

 

 

 

Laicità solida.
Sul rapporto fra religioni e istituzioni repubblicane
nell’era della politica “post-metafisica”

 

di

Hermann-Josef Große Kracht

 

 

Le democrazie occidentali affondano le loro radici nel contesto normativo della filosofia dell’Illuminismo europeo che si avviava, 250 anni fa, a dichiarare guerra al potere di quella religione orientata all’aldilà nel nome dell’individuo dotato di ragione. Da allora, l’idea di un «utilizzo pubblico della ragione» (Kant) conferisce al progetto democratico moderno una dignità
specificamente laica, sganciata dalla priorità di verità religioso-metafisiche…

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Giorgio De Chirico, “Gli archeologi”, 1927
Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna

 

 

 

I fondamenti religiosi della finanza islamica

 

di

Riccardo Piroddi

 

 

Parte V

 La gestione dei fondi azionari islamici

 

Di grande interesse, in relazione all’applicazione della legge coranica, diventa la gestione del risparmio nella finanza islamica, con particolare riferimento alla gestione dei fondi azionari islamici, cioè all’attività dell’asset management islamico. I primi fondi comuni islamici sono apparsi sulla scena negli anni ‘80, ma soltanto di recente hanno suscitato l’attenzione del mondo accademico, legato alla finanza, per quattro ordini di ragioni: il primo: da poco, hanno assunto una dimensione quantitativa, tale da poter rappresentare un’asset class; il secondo: l’asset management islamico è piuttosto giovane; il terzo: le pratiche di gestione risultano poco trasparenti e la scarsità di dati disponibili non consente un’agevole analisi comparativa tra i portafogli; il quarto: la maggior parte dei fondi islamici sono gestiti da società, con sede in mercati diversi da quelli europei, con differenti regole di gestione e, quindi, con difficoltà di comparazione (Malesia, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Kuwait). In mancanza di una solida letteratura sul tema, posso qui trattare semplicemente gli aspetti più rilevanti del mercato dell’asset management islamico, sul piano qualitativo (gestionale) e quantitativo. Va premesso, quindi, che anche la gestione dei fondi azionari islamici è soggetta alle prescrizioni coraniche (i cinque pilastri), senza eccezioni, imputabili a qualche interpretazione soggettiva, applicabile, da paese a paese, a causa dell’appartenenza a scuole coraniche diverse. Il fondi di investimento islamici sono nati e si sono sviluppati, principalmente: sotto la spinta delle élite finanziarie musulmane, arricchitesi con i capitali delle estrazioni petrolifere, le quali non volevano più rivolgersi al mercato finanziario di Londra; per intercettare e mantenere in patria questi capitali; per corrispondere alla domanda della clientela islamica di poter investire i propri risparmi, in modo conforme alla Shari’ha, senza doversi spostare su piazze finanziarie estere. Su 930 miliardi di dollari, gestiti dalla finanza islamica, secondo i principi della Shari’ha, al 2010, una quota del 5,5% competeva alla gestione dei fondi comuni islamici, per un valore di 52 miliardi di dollari. Gli Islamic Funds erano, nel 2010, circa 700, così distribuiti per domicilio: Malesia 27% (180), Arabia Saudita 22% (174), Kuwait 12%, Emirati Arabi Uniti 7%, Indonesia 4%, Regno Unito 4%, Pakistan 4%, Sud Africa 3%, Bahrain 3%, Singapore 2% e Altri 12%. Prevalevano e prevalgono, tutt’ora, gli asset managers del Medio Oriente e dell’Africa. Per quanto riguarda la diversificazione di questi fondi, per asset class, gli investimenti azionari erano e sono i più popolari, seguiti dall’investimento a reddito fisso e dalle commodities, specificamente: Equities 40%, Fixed income 22%, Commodities 18%, Other 12%, Cash 10%, Real Estate 6%e Balanced 3%. Va precisato anche che i due terzi dei veicoli di investimento lanciati sul mercato, negli ultimi anni, sono stati prevalentemente destinati a clientela istituzionale e, quindi, pur essendo strutturati, come fondi comuni, non sono rivolti, nella maggior parte dei casi, agli investitori retail. Per tale ragione faticano a gestire masse di capitali tali da garantire il punto di break-even (almeno 100 milioni di dollari per fondo). Ma avranno bisogno, comunque, di consolidamento e di concentrazione, e, quindi, risultano destinati a potenziali di crescita molto elevati. In questa crescita, anche gli Islamic Funds dovranno attenersi ai seguenti precetti religiosi: il divieto di riba non consente di promettere un rendimento garantito ai sottoscrittori del fondo. Il rendimento dipenderà esclusivamente dall’andamento del fondo; il divieto di riba non consente di investire in titolo obbligazionari tradizionali, a tasso fisso; il divieto di riba non consente di investire in azioni privilegiate, quando il privilegio si riferisce ad un diritto di prelazione per gli azionisti, in sede di liquidazione della società e di distribuzione dei dividendi; l’investimento azionario è consentito, purché rispetti, in tutte le fasi, la conformità alle regole coraniche e le società emittente azioni, da includere nel portafoglio del fondo, devono essere “coerenti” con i fondamenti etico-religiosi islamici, per il tipo business trattato e per i ratios finanziari; l’attività di gestione del fondo deve essere costantemente monitorata e controllata dallo “Shari’ha Board”, il comitato di giurisperiti islamici, la cui importanza, come si può intuire, per la credibilità e la reputazione islamica del fondo, risulta superiore alle performances di gestione; la determinazione sulla “accettabilità” islamica dei titoli avviene, attraverso uno screening, collegato alla business industry e al rispetto di alcuni financial ratios; l’attività di investimento dei gestori del fondo può anche riguardare società che, parzialmente e marginalmente, hanno un’attività non lecita (haram); l’attività di investimento deve poter far leva anche sui processi di innovazione finanziaria, anche derivati, purché rispettosi dei divieti di riba, di qimar (scommessa), e di gharar (incertezza e rischio). I principali punti critici dell’asset management islamico riguardano la scarsa diversificazione dell’offerta (mancanza di sufficienti asset classes e prodotti, ristretti, agli inizi, solo ai depositi infruttiferi e agli investimenti immobiliari), l’assenza di un effettivo servizio di wealth management (a fronte della necessità di innovazione finanziaria nella gestione dei rischi), l’eccessiva frammentazione dell’industria (mancanza di una effettiva partecipazione al mercato retail) e il problema della composizione degli Shari’ha Board (diversità di vedute tra le diverse scuole coraniche e potenziali conflitti di interesse). Affinché, quindi, l’asset management islamico possa arrivare al grande pubblico, diventa necessario superare, nel rispetto della legge coranica, almeno alcune delle enunciate criticità, a partire dalla costruzione condivisa di nuovi strumenti finanziari, senza che gli Shari’ha Board possano, per motivi estranei al rispetto dei precetti religiosi, influenzare la concorrenza tra gli operatori del risparmio, gestito dagli Islamic Funds.

 

 

 

Crisi della politica nel XX secolo: elementi interpretativi

 

di

Francesco Giacomantonio

 

 

 

Nel contesto del pensiero contemporaneo, il concetto di crisi è presente con una frequenza tale, da poter indurre a pensare che si abusi nella sua fruizione. E’ opportuno sottolineare che, sebbene sia indiscutibile sotto molti aspetti una condizione di “crisi” per quanto riguarda molti aspetti della cultura e della società del XX secolo, è probabile che la grande enfasi posta su tale idea di crisi, abbia anche una sorta di motivazione epistemologica…

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I fondamenti religiosi della finanza islamica

 

di 

Riccardo Piroddi

 

 

Parte IV

Le banche islamiche: tra tradizione e innovazione

 

Le banche islamiche non sono quelle che operano esclusivamente nei paesi islamici o le loro filiali all’estero, ma (solamente) quelle banche che scelgono di agire, nel modo della finanza e del credito, nel rispetto assoluto dei precetti religiosi della Shari’ha, cioè la “via della salvezza, segnata da Dio e rivelata agli uomini dal Profeta”. A causa degli ingenti flussi finanziari che vengono scambiati tra il mondo islamico e quello occidentale, la finanza islamica, da realtà di nicchia, sta assumendo, a partire dalla fine degli anni sessanta e gli inizi degli anni settanta, un ruolo significativo nella finanza mondiale, sia sul piano qualitativo, che sul piano quantitativo. Si è già analizzato come tutto l’edificio della finanza islamica si regga sul concetto del divieto di riba e della pratica dell’interesse bancario: “Dio ha proibito il riba (Corano, II, 275) e quel che voi prestate a riba, perché aumenti sui beni degli altri, non aumenterà presso Dio”. Il riba (etimologicamente: aumento, accrescimento), quindi, non rappresenta soltanto un semplice divieto, ma assume il significato di principio religioso, etico e sociale, fondante la solidarietà, che ispira tutta la società islamica. La scelta degli intermediari bancari, per la raccolta del risparmio e per la concessione del credito, è diventata un passaggio obbligato per operare nel rispetto della legge coranica. Le banche islamiche, quindi, consentono di coniugare i vantaggi collettivi con il rispetto delle prescrizioni religiose: ne è esempio il contratto di assicurazione, che viene trasformato in mutualità collettiva, anche se alcune scuole di diritto coranico continuano a sollevare perplessità sull’elevato grado di incertezza. Come è intuibile, nella finanza islamica non trovano alcuna cittadinanza gli strumenti finanziari derivati, a causa della loro eccessiva volatilità e del disancoraggio dagli asset concreti, visibili e tangibili, dell’economia reale. Ciò non ha impedito, anzi favorito, l’espansione della finanza islamica in alcune capitali occidentali, già citate in articoli precedenti, e anche in Svizzera, dove sono proliferati gli sportelli del maggior gruppo bancario islamico mondiale, il saudita Dar al-Mal al-Islami, che ha la sede operativa a Ginevra. Anche se il motivo del ricorso alla finanza islamica, da parte degli occidentali, non va riferito certo alle virtù salvifiche dell’agire religioso, ma ad una particolare modalità di investimento, collegate alle comunità islamiche presenti nelle realtà europee, le cui rimesse sono in costante crescita, tanto da costituire una quota rilevante dei flussi finanziari verso i paesi di origine (alle rimesse ufficiali, tramite i canali in chiaro, vi sono rimesse non registrate, per un importo totale doppio, che transitano attraverso canali informali, secondo le regole non scritte dalla hawala). La hawala è la transazione più informale della finanza islamica. Si realizza quando un migrante si rivolge ad un intermediario (in genere, il titolare di un esercizio commerciale della stessa comunità etnica e religiosa), il quale regola la transazione sulla base della compensazione periodica del saldo complessivamente trasferito. Non vi è passaggio di denaro, ma l’assicurazione, sulla parola, dell’intermediario sulla consegna del denaro a destinazione, che avviene attraverso una fitta rete di fiduciari, presenti sul territorio di origine. Su questo segmento operativo, al fine di evitare il finanziamento occulto di movimenti fondamentalisti, sta diventando alta la guardia delle autorità di sicurezza occidentali. Man mano che la finanza islamica si afferma anche in occidente, molti studiosi tendono a stabilire analogie tra le banche islamiche e le nostre banche di credito cooperativo e le popolari, che mantengono un legame privilegiato tra i soci, con il fine, quasi mutualistico, dell’efficienza operativa. Le banche islamiche, sul mercato italiano, in futuro, potrebbero beneficiare, sia dal punto di vista normativo che organizzativo, proprio della grande esperienza maturata dalle banche di credito cooperativo e dalle banche popolari. Molti guardano al bacino del Mediterraneo allargato, come luogo di liberalizzazione del commercio e di associazionismo commerciale tra paesi europeo-mediterranei e paesi arabo-mediterranei, che trovi la sua leva protagonistica nella finanza islamica e nella cooperazione con le banche di credito cooperativo e banche popolari.  L’Italia è in grave ritardo su questo fronte, ma una politica finalizzata potrebbe far recuperare, in breve, il tempo perduto.

 

 

 

Ridiscutere di Auctoritas oggi

 

di

Elena Cuomo

 

 

La crisi dell’ideale autofondativo della comunità interroga la problematica dell’autorità, ponendola al centro di una richiesta di senso, che la riguarda in ambito semantico-concettuale e politico, chiedendone un’attualizzazione che superi i confini della “semplice” ricostruzione filologica ed esponendola anche ai rischi di un eventuale tentativo ideologico di risacralizzazione…

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I fondamenti religiosi della finanza islamica

 

di

Riccardo Piroddi

 

 

Parte III

Le regole fondamentali della finanza islamica

 

Se, agli esordi, la finanza islamica era considerata una nicchia del mercato finanziario mondiale, in base al tasso costante di crescita annuo, superiore al 10%, si può prevedere che, nel giro di un ventennio, questo particolare settore della finanza verrà ad occupare un posto di grande rilievo, a livello internazionale, sulla base di diverse potenzialità: la ricchezza finanziaria accumulata da alcuni paesi di confessione islamica, pronta ad essere investita anche in paesi non-islamici, purché gli investimenti siano conformi ai principi delle legge coranica; la presenza in molti paesi occidentali (USA, Gran Bretagna, Germania e Francia) di numerose comunità islamiche, che vogliono investire, in modo lecito, secondo le regole del Corano; la limitata diffusione di servizi bancari e finanziari nei paesi islamici, che prelude ad una forte espansione degli stessi; la disponibilità di alcuni paesi occidentali a modificare le loro norme interne, di natura fiscale, immobiliare e sulla gestione del rischio (anche con i doppi regimi), per poter favorire, sul territorio, la presenza operativa di banche islamiche (l’esempio inglese – e francese – resta il più pertinente, con la prima banca islamica, 2004, in Europa, la Islamic Bank of Britain, sulla base del principio “no obstacles, no special favors); l’offerta crescente, da parte delle banche tradizionali occidentali, di prodotti finanziari “Shari’ha compliant”, per attirare clienti di fede islamica; le emissioni di obbligazioni islamiche (sukuk), negoziate alla Borsa di Londra, che interessano non solo emittenti, residenti in paesi islamici, ma anche emittenti occidentali (nel 2004, il Land della Sassonia-Anhalt ha emesso 100 milioni di euro di sukuk e il governo inglese ha annunziato di voler finanziare il suo deficit con emissioni di sukuk); il credit crunch della finanza occidentale ha accentuato l’interesse, anche in Occidente, per la finanza islamica, in relazione ai principi e alle regole, che la governano; la standardizzazione dei contratti islamici, che favorisce la loro diffusione; la discussione in corso, in Occidente, su come ancorare la finanza occidentale a principi etici, porta ad un obiettivo avvicinamento alla finanza islamica. Si è già chiarito, nei precedenti articoli, che la finanza islamica si basa sui principi dell’Islam e sulla legge coranica, la Shari’ha, ricavata dal Corano, e la Sunnah, che raccoglie gli atti e i detti del profeta Maometto. La Shari’ha viene interpretata dalle diverse scuole di pensiero del mondo islamico, anche se la confessione sunnita risulta prevalente e riguarda il 90% della popolazione islamica mondiale. Le scuole sunnite di diritto coranico dominanti sono quattro e adeguano la legge coranica all’evoluzione tecnologica, secondo il principio di analogia (in tal modo, il divieto dell’alcol è stato esteso alle droghe): la Shafi, diffusa in Malesia; l’Hanbali, diffusa in Arabia Saudita; l’Hanafi, diffusa in Pakistan; la Maliki, diffusa in Africa. Vale la pena, adesso, approfondire la struttura del contratto più diffuso della finanza islamica: il murabaha. Viene applicato ogni volta che il cliente di una banca islamica ha bisogno di una finanziamento per l’acquisto di un bene (sia esso una casa di abitazione o, ad esempio, il capitale della Aston Martin, acquistato dal fondo del Kuwait, Investment Dar, per una cifra di 1,3 miliardi di dollari). A differenza della finanza non islamica, che corrisponde a questa richiesta, mettendo a disposizione i capitali necessari, contro il pagamento di un interesse e la prestazione di adeguate garanzie, con il murabaha è la banca ad acquistare direttamente il bene e a rivenderlo immediatamente al cliente, con un margine che è funzione del valore del denaro, per il tempo concesso in dilazione di pagamento. I passaggi-chiave del murabaha sono tre: il cliente manifesta alla banca islamica la volontà di acquistare un bene, ad un determinato prezzo, e con consegna a data certa; la banca acquista il bene dal fornitore e lo vende al cliente; il cliente accetta l’offerta e acquista la proprietà del bene, contro il pagamento del prezzo, alla data convenuta. Naturalmente il murabaha può contenere altre clausole a carico del cliente, garanzie e obblighi di indennizzo in caso di default. Esiste anche un murabaha inverso, detto Tavarruq, che tende a soddisfare una pura esigenza di finanziamento del cliente, per cui non viene accettato da tutte le scuole di diritto coranico. Il musharaka, invece, è il contratto tipico per le operazione di venture capital e viene impiegato per finanziare i grandi progetti a lungo termine (autostrade, pozzi di perforazione petrolifera). Dall’analisi di tutti i tipi di contratto si evidenza un dato costante: l’ancoraggio ad un asset reale e la condivisione del rischio operativo del cliente. Questo dato sta facendo assumere alla finanza islamica un valore sempre più attrattivo, agli antipodi della finanza creativa occidentale e della filosofia dei derivati, per cui appare più sicura, per gli stessi investitori occidentali, di quanto non sia la finanza tradizionale, slegata dai beni sottostanti e, quindi, sempre più carica di rischi.

 

 

 

Relativism and Human Rights

 

by

Claudio Corradetti

 

 

We live in a rule-constrained world. Even our most insignificant practices are somehow dependent upon a socially agreed standard regulating their structures, procedures, and general goals. We can, for instance, appreciate our neighbour’s ability to keep her garden tidy and in good shape…

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