La riflessione gentiliana sulle origini della modernità politica italiana fu imperniata sulla dicotomia fra individuo e popolo, che egli attraversava mediante lo studio di due pensatori eponimi del Rinascimento: Machiavelli e Campanella. In questa età, che insieme a quella risorgimentale fu al centro della meditazione storiografica di Gentile sul carattere italiano…
Storia e politica sono così annodate da noi da essere famosi per la revisione ininterrotta del passato: basta pensare al volume di Albert Russell Ascoli e Krystyna von Hennenberg intitolato Making and Remaking Italy: The Cultivation of National Identity. All’estero si discute con una certa bonaria ironia dei dibattiti italiani sui miti del Risorgimento e della Resistenza…
Non è semplice districarsi nella realtà dei fatti soprattutto quando l’argomento riguarda proprio i fatti. E se ciò è già difficile, la situazione si aggrava quando, al posto della ragione, si mette in moto la fantasia e il desiderio: e così spesso vanno le cose quando si ha a che fare con la politica.
Parlare dei rapporti fra filosofia e politica, della loro genesi e della loro storia, vuol dire percorrere un arco temporale che parte dall’età classica e arriva fino ai nostri giorni incrociando una molteplicità di rapporti negli ambiti più disparati: storia, filosofia, sociologia, teologia, diritto, etica….
Una lunga tradizione di pensiero si è concentrata in un libello dalle origini leggendarie e dalla storia redazionale molto vivace, intitolato Trattato dei tre impostori, dove Mosè, Cristo e Maometto sono stati definiti con l’epiteto del titolo: impostori, appunto. Ne ripercorro, brevemente, le fasi redazionali. L’esistenza di un trattato latino, De tribus impostoribus, sebbene sia stata molte volte affermata e data per certa fin dal XIII secolo, non è mai stata dimostrata, non essendo giunta fino a noi alcuna copia. I probabili autori sono stati identificati, nel tempo, con Averroè, Federico II, Pier delle Vigne, Poggio Bracciolini, Erasmo da Rotterdam, Pietro Aretino, Guillaume Postel, Michele Serveto, Jean Bodin, Bernardino Ochino, Girolamo Cardano, Pietro Pomponazzi, Giordano Bruno, Tommaso Campanella, Giulio Cesare Vanini, Baruch Spinoza e altri. Un secondo trattato latino, sempre intitolato De tribus impostoribus, anonimo, è stato composto nel 1688 e stampato, a Vienna, nel 1753. Un terzo trattato, intitolato La Vie et l’Esprit de Mr Benoît de Spinosa, è stato pubblicato, per la prima volta, anonimo e in francese, a L’Aia, nel 1719. Solo le successive edizioni avrebbero assunto il titolo di Traité des trois imposteurs. Eccone alcuni passaggi (tratti da Trattato dei tre impostori. La vita e lo spirito del signor Benedetto De Spinosa, Einaudi, 1994): “La stessa nozione di Dio è incerta per coloro che pure ne sostengono l’esistenza, i quali danno «la definizione di Dio ammettendo la loro ignoranza», senza comprendere «chi lo ha creato» o affermando «che è lui stesso il principio di sé», sostenendo così «una cosa che non capiscono. Dicono: non comprendiamo il suo inizio; dunque l’inizio non esiste». Avviene che la sua nozione sia «il limite di un’astrazione intellettuale», e venga definito a volte Natura, a volte Dio, avendone idee disparate. Chi chiama Dio «la connessione delle cose», chi «un essere trascendente, perché non può essere visto né compreso». Si sostiene, poi, che Dio sia amore, benché egli, in quanto creatore, abbia dotato l’uomo di una natura opposta alla sua e lo abbia sottoposto «alla tentazione dell’albero, sapendo che avrebbe commesso una trasgressione fatale a se stesso e ai suoi discendenti». Per riscattare poi la colpa dell’uomo, Dio farà subire a suo figlio i peggiori tormenti: «nemmeno i barbari credono a storie così menzognere». Ci si deve chiedere, allora, perché mai bisognerebbe tributare un culto a Dio, regolato da un’istituzione religiosa, oltre tutto in considerazione del fatto che un essere perfetto non dovrebbe averne bisogno: «il bisogno di essere onorato è segno d’imperfezione e d’impotenza». In realtà, «ognuno comprende che è interesse dei governanti e dei potenti stabilire una religione per mitigare gli istinti violenti del popolo». Si dice che la presenza di una coscienza morale sarebbe la prova che Dio ha dato all’uomo la nozione del bene e del male e conseguente timore della punizione, ma in realtà le cattive azioni alterano l’armonia sociale e chi le commette teme le sanzioni della società umana. È la ragione naturale a illuminare il comportamento morale dell’uomo. Il resto è «un’invenzione dei nostri oziosi sacerdoti, che così accrescono considerevolmente il loro tenore di vita». Nessuna religione è in grado di dimostrare né l’esistenza né la natura di un’essenza divina, anche se sempre vi è chi ha preteso di conoscerla: i pagani dell’antichità, il re Numa, Mosé, Maometto, i bramini indiani, i cinesi, ciascuno contraddicendo gli altri. «Si credette che il giudaismo correggesse il paganesimo, il cristianesimo il giudaismo, Maometto entrambi, e si attende il correttore di Maometto e dell’islamismo». È, dunque, naturale sospettare che i fondatori delle religioni siano tutti degli impostori. Del resto, ogni religione accusa tutte le altre di impostura e, in particolare nel cristianesimo, ogni setta cristiana «accusa l’altra di aver corrotto il testo del Nuovo Testamento». Occorrerebbe, poiché non è evidentemente possibile credere a ogni religione, non credere a nessuna, «finché non si sia trovata la vera religione». Pertanto, per stabilire la verità di ogni singola religione, bisognerebbe esaminare con cura le affermazioni dei loro singoli fondatori: «non bisogna prendere affrettatamente per dogma o per testimonianza sicura quel che il primo che passa abbia asserito». Operazione molto difficile, che si può dubitare possa mai giungere a una conclusione effettiva”.
Io credo che Mosè, Cristo e Maometto siano stati sì, impostori, ma filosofici, considerata la sostanziale fallacia dei loro insegnamenti metafisico-teologici, e, allo stesso tempo, li ritengo i più grandi politici della storia, visti gli “iscritti” ai loro “partiti” e quanto questi hanno fatto e continuano a fare in nome loro. Niente di divino o rivelato, quindi. Solo ignoranza, superstizione e credulità da parte di chi, ancora oggi, segue questi tre “segretari di partito” e i loro diktat, da un lato, antivitali, per dirla alla Nietzsche, e, dall’altro, espansionistici. Tutto ciò non fa altro che dimostrare, dunque, la natura esclusivamente politica dell’azione dei tre fondatori di religioni (Ebraismo, Cristianesimo e Islam), come enunciato nel pamphlet, “veri e propri impostoridediti alla gloria personale e all’asservimento dei popoli”.
Detronizzato Aprieo, governò Amasi, originario del nomo di Sais e più precisamente della città di Siuf. In un primo momento gli Egiziani disprezzavano Amasi e non lo stimavano affatto, in quanto era del popolo e non di una casata illustre; ma poi Amasi, con accortezza e prudenza, riuscì a guadagnarsi il loro favore. Possedeva una enorme quantità di oggetti preziosi: fra gli altri un bacile d’oro nel quale lui e tutti i suoi invitati erano soliti lavarsi i piedi in ogni circostanza; egli lo ridusse a pezzi per ricavarne la statua di un dio, collocata poi nel punto più adatto della città; e gli Egiziani vi si affollavano attorno con grande venerazione; Amasi, informato del comportamento dei suoi sudditi, li convocò e rivelò loro che l’immagine era stata fabbricata con un bacile e che ora gli Egiziani veneravano con profonda devozione un oggetto in cui si erano lavati i piedi e avevano vomitato e orinato. Seguitò dicendo che lui si era trovato in una situazione paragonabile a quella del catino: se prima era uno del popolo ora invece era il loro sovrano e perciò li esortava a rispettarlo e a onorarlo. In questo modo si guadagnò la stima degli Egiziani, che accettarono di essere suoi sudditi.
(Erodoto, Storie, II, 172)
Questo passo erodoteo è ancora attuale e spiega bene l’atteggiamento di molti nei confronti del potere!
La democrazia in tale triplice schema (v. articolo precedente) o modello ideale in senso scientifico appare, dunque, secondo questa sequenza: come teoria del (fondamento del) potere ad indicare la sovranità popolare; come teoria del governo fondata sul soggetto popolare, e cioè come il governo di tutti, dei molti, dei poveri, dei produttori-lavoratori, dei cittadini; infine, come teoria del governo fondata sulla legalità e sulla legge ed a essa sottoposto, caratterizzato dalla partecipazione, non solo legittima ma legale, cioè sotto la legge, dei cittadini della repubblica, cittadini che sono liberi ed uguali (nel senso di tutti liberi e uguali; altrimenti siamo nella repubblica aristocratica dove tali sono solo i pochi.
Sicché si potrebbe dalla prospettiva della duplice (anzi triplice) classificazione, definire la democrazia, secondo una prima generalizzazione, come quella forma di governo repubblicana, fondata sul principio della sovranità popolare (primo significato) e consiste nella partecipazione (in qualche modo o forma) di tutti i cittadini, uguali e liberi – dunque nella partecipazione libera ed eguale dei cittadini – all’esercizio attraverso il voto (appunto libero, uguale) periodico (esercizio da intendere anche nella semplice forma del controllo) del potere sotto la legge, cioè limitato dalla legge. A sua volta, la legge può assumere due significati: come legge di Dio o naturale e come legge fatta degli uomini. In questo secondo caso, sono gli stessi uomini che governano ad autolimitare con la legge (di cui sono autori) l’esercizio del potere da loro stessi gestito: la democrazia diventa qui (sempre secondo questo modello ideale) governo delle leggi per eccellenza (ma è un’eccellenza – e quindi coincidenza – appunto “ideale”, tenendo sempre presente e valida l’affermazione di Livio che “imperia legum potenti ora quam hominum”). Per concludere: mentre il presupposto della democrazia sta nel principio (e valore) della libertà e dell’uguaglianza, cioè nel principio (ideale) dell’uguale libertà dei “tutti” – princìpi e valori che subito illustreremo -, il suo carattere istituzionale saliente si può (formalmente) individuare nel principio consensuale di legittimità e legalità (ma si tratta di due elementi strettamente connessi: il principio consensuale deriva, implicitamente, dal titolare del consenso. È da questo (come principio sia generale che specifico di legittimità e di legalità) che derivano, poi, gli altri riguardanti: il libero e previo dibattito proposto alle deliberazioni (siano esse prese direttamente o dai rappresentanti; dibattito, in ogni caso, non solo istituzionale in senso stretto, perché comunque giocato nella pubblica opinione), la elettività delle cariche, la loro periodicità, la responsabilità e la responsività, per cui cioè si deve sia render conto dell’operato sia tener conto del consenso (cioè di quanto esso via via richiede), ancora, il ricambio o alternanza al governo, ecc.. Vogliamo, a questo punto precisare un concetto. Se l’essenza della democrazia consiste nella elettività popolare (quando non, secondo una interpretazione letterale dell’uguaglianza, nella estrazione a sorte) delle cariche politiche e, contestualmente, nel controllo (popolare) del loro esercizio – cioè, in concreto, dell’operato dei rispettivi titolari che le esercitano – nelle forme e secondo le procedure accennate, non è chi non veda la legittimità viene dal consenso – più precisamente, attraverso la verifica periodica del consenso – (popolare): è questo il principio di legittimazione specifico della democrazia. Ma poiché il presupposto di questa forma di governo risiede in quel principio generale di legittimazione della sovranità popolare (a sua volta, una specie delle teorie ascendenti del potere), a cui, cioè, spetta la scelta delle forme di governo, si può a buon diritto sostenere che nella (e con la) democrazia il più generale principio di legittimazione dell’obbligazione politica (primo o più ampio significato) tende, idealmente, se non proprio a coincidere, in ogni caso a convergere con quello specifico (significato stretto e tecnico). Insomma, pure astrattamente potendosi ipotizzare una democrazia “ottriata”, ossia concessa dall’alto, ciò storicamente per lo più non si verifica perché, nella realtà la democrazia di fatto non viene mai o quasi mai concessa e, dunque, la richiesta dal basso, o popolare, della democrazia è già espressione di una sovranità popolare quand’anche implicita o latente (il popolo cioè che, come affermano i manifesti delle prime rivoluzioni democratiche moderne, si riappropria dall’autorità o sovranità ): ma precisamente in quanto si è così manifestata, in effetti e alla fine, è pur sempre esplicitabile. Il titolare del potere tradizionale che pare concederla, in realtà è costretto a concederla e, se è costretto (dalla pubblica opinione o dalla forza tout court dei “molti” o “tutti”), dunque è più effettivamente e sostanzialmente titolare o, nel migliore dei casi, è titolare puramente nominale ma contestato: e contestato dal dissenso popolare; dunque è il consenso popolare – sotto forma di dissenso verso il potere stabilito tradizionalmente – l’effettivo albero motore o la vera sorgente della forma democratica di potere. Tutto ciò va tenuto presente perché, nonostante la grande diversità di contesto storico che caratterizza la democrazia degli antichi – protesi costantemente (ma ciò vale per ogni forma di governo ) alla ricerca della stabilità politica – rispetto a quella dei moderni -cui è familiare invece il mutamento -, la democrazia è sempre preceduta e/o accompagnata – si è visto – da una presa non pacifica del potere, si tratti pure di quella rivoluzione istituzionale che tuttavia, è pur preparata da quella civile, sociale ed economica. Non mancano gli esempi a conferma di queste distinzioni – in particolare di quella fra i due principali significati del termine – che non sono di scarsa portata, ma rimandano ai principi e valori, da una parte, e a istituzioni e regole del gioco, dall’altro, che insieme (quelli e queste) ci offrono un concetto integrato di democrazia.
La democrazia è un termine e un concetto che, nella storia del pensiero politico (e delle istituzioni politiche), assume almeno due – ma, per l’esattezza, vedremo subito, tre – distinti significati. Dal punto di vista delle teorie che vogliono spiegare il fondamento dell’obbligazione politica (cioè l’obbedienza al comando politico), si possono definire “democratiche” quelle che individuano tale fondamento nel consenso popolare, cioè dei “politai”, dei “cives”, dei membri del “commune populi”, dei cittadini in genere di uno Stato contemporaneo in veste costituzionale: in quanto titolari del potere politico legittimo o “autorità”, sono costoro a scegliere come intendono essere governati e, dunque, le forme di governo.
Perciò si parla di teorie ascendenti del potere perché la giustificazione procede dal basso verso l’alto, in contrapposizione a quelle discendenti, per le quali il fondamento del potere politico procede in senso inverso, dall’alto (dalla divinità, dalla tradizione, dal carisma del capo o leader) verso il basso. Da entrambe le prospettive – ascendente o discendente – si possono in linea puramente teorica e astratta ricavare le stesse forme di governo, per esempio, nel caso che ci interessa, la democrazia, che, cosi, può essere giustificata sia dal basso (i titolari della sovranità decidono di esercitare loro stessi, in qualche modo – diretto o delegato – il potere) che dall’alto (per esempio, da Dio, fonte prima dell’autorità, o dalla tradizione, discende quella legge naturale e/o consuetudinaria in base alla quale i membri della società politica hanno deciso in quanto titolari della sovranità di autogovernarsi secondo certe modalità; oppure – per tipizzare un altro possibile modello – Javhè, mettendosi in qualche modo sul piede di parità col popolo eletto, stipula con questo un patto di alleanza, cui per altro nel caso concreto non pare di per se congeniale – si ripete – un monarca che si frapponga tra le due parti contraenti, avendo Javhè stesso rivendicato la guida del popolo eletto; ecc.). Con la teoria delle forme di governo siamo, quindi, entrati in un altro ordine di riflessione, che potremmo definire tecnico-istituzionale e che riguarda, appunto, sia soggetti chiamati a governare, secondo la più tradizionale classificazione (l’uno – monarchia – i pochi – aristocrazia – i molti – democrazia), classificazione fondata però su un criterio “quantitativo”, sia i modi con cui e in base a cui governare (principato o repubblica, secondo Machiavelli; dispotismo – cioè governo arbitrario dell’uno – monarchia – governo dell’uno secondo e sotto la legge – repubblica – governo dei più, pochi o molti che siano, sotto la legge – secondo Montesquieu), tipo di classificazione, questo, fondato su un criterio invece “qualitativo”. Ma anche nella prima più antica classificazione, molti pensatori distinguono fra governo buono – cioè secondo la legge e/o mirato al bene comune – e/o cattivo – cioè arbitrario e/o proteso al bene particolare o di parte e non secondo la legge (che è imparziale e di fronte a cui tutti sono uguali) – dell’uno, dei pochi, dei molti. Ed è questo il terzo significato (questa volta, valutativo, cui si accennava (per amor di completezza, in riferimento al pensiero politico si possono aggiungere altri due significati di democrazia: quale forma di stato e quale forma di società). Infatti, per quel che ci interessa, in queste classificazioni incontriamo tre volte la democrazia: come titolarità del potere politico sovrano dei molti o tutti (sovranità popolare); come governo – cioè esercizio del potere – sotto la legge o “buono” da parte di questi stessi; infine, (secondo la tradizione classica riprodotta nell’età moderna) come governo autoritario o tirannico o dispotico o anarchico di molti o tutti (in questa forma “cattiva” rientra anche la tirannide – o dispotismo – della maggioranza popolare o democratica). Nel secondo caso, poi, cioè nella forma di governo secondo e sotto la legge, in cui, nell’esempio che ci interessa, tutti obbediscono alle leggi, ordinarie e fondamentali, che loro stessi si (im)pongono e/o a quelle che ricevono dalla tradizione (nel caso di costruzione non scritta), ci imbattiamo in una quarta forma di governo, quella appunto “temperata” o “moderata” (nella prospettiva qualitativa o del “come” si governa) perché tutta regolata dal “moderamen” della legge, da cui cioè il potere – e, dunque, con esso l’insieme dei governanti – è limitato (la legge, infatti, trattando tutti come uguali ed essendo quindi uguale per tutti ordina – come accennato – secondo l’interesse generale e in generale, perciò secondo giustizia a differenza dell’arbitrio o anche dell’interesse particolare e particolaristico, dell’uno dei pochi e dei molti che siano). Tale forma, in quanto si presenta ( rispetto alla prospettiva quantitativa, cioè di cui governa) quale autentico governo di tutti, cioè dell’uno, dei pochi, dei molti o “tutti”, insieme presi, incoerenza con le varie politiche e sociali (o almeno di due fra le tre), convenzionalmente con le altre tre (o due, almeno) “parti” della società politica (e, dunque, del “popolo” in senso pregnante e universale, cioè come “universitas”), viene per lo più presentata come combinazione delle tre (o, almeno, due) forme di governo (o degli elementi buoni di ciascuna) e perciò si definisce forma mista. In essa i molti o tutti insieme presi non sono più considerati come “parte” (per esempio, i poveri rispetto ai ricchi, la plebe rispetto ai patrizi, il popolo minuto rispetto al popolo grasso, il cittadino censitario rispetto a quello che non paga i tributi, e così via) che delibera in base al proprio interesse particolare (anche se questo sia dei “molti” o “tutti” ma pur sempre come “parte”), bensì – si ribadisce – come “totalità” o “universalità” (articolata in poteri e organi “rappresentativi” delle tre – o, almeno, due – parti o ordini – uno, pochi, molti), come quella “res pubblica” che è la “res populi”, secondo la definizione ciceroniana: e, non a casa, Roma col suo sistema “patrizio-plebeo” (rappresentato emblematicamente nel “Senatus Polusque Romanus” e, dunque, misto – costituisce la culla di quella tradizione “repubblicana” che, oggi (dalla rivoluzione nordamericana in qua), si è saldata su quella della “democrazia” ellenica nel modello moderno-contemporaneo di “democrazia”. E comunque, dal punto di vista della genesi e del concetto – e, naturalmente, dell’originaria esperienza – “demokratia” (a differenza di “isonomia”) secondo una interpretazione autorevole, nella storia greca (e nel pensiero greco), la presa del potere del popolo come parte che si afferma con la forza nella lotta politica: solo successivamente (dopo gli eventi ateniesi del 462-1 a.C.: l’assassinio di Efialte e l’ostracismo di Cimone) passa a designare l’ordinamento costituzionale.
Si racconta nell’apologo biblico pronunciato dall’alto del monte Garizim da Jotham, l’unico scampato alla strage dei settanta fratelli ad opera di Abimelech, che il popolo degli alberi si mosse “per crearsi un re”. Dopo aver invano offerto la corona all’ulivo, al fico e alla vite, che non vollero rinunciare alla loro funzione naturale – cioè a produrre i frutti – esso si rivolse infine al rovo, pianta infruttifera (per l’uomo), invasiva e pestifera (per le altre): “Se in verità ungete me come vostro re – rispose questi – venite, rifugiatevi nella mia ombra: se no, esca un fuoco dal rovo e divori i cedri del Libano”.
Il rovo rappresenta Abimelech figlio della concubina di Gedeone, che ha usurpato il trono e al quale Javhè riservò infine il castigo, per non morire disonorato adopera di una donna che l’aveva pesantemente ferito al capo, di farsi passare a fil di spada dal proprio scudiero. Si può a buon diritto definire democratica questa procedura per la scelta del re da parte del popolo delle piante?… Ma la corona non designa il governo di uno, in contrapposizione a quello dei molti, c’era la democrazia? Non è difficle intravedere, dietro la vicenda dell’offerta popolare della corona (che potrebbe anche essere da noi interpretata nella prospettiva di un tipo di democrazia plebiscitaria rovesciata), quel patto fra re e cittadini che potrebbe rinviare all’alleanza fra Javhè e il popolo eletto, ma che, in forme diverse, si ritrova in genere alle origini della società politica nelle fonti più antiche, se non arcaiche; patto che sta alla base (giustificazioni sta) dell’autorità politica stessa. Potremmo, più in genere, parlare di teoria ascendente o consensuale del potere che si contrappone a quella discendente, sia essa trascendente (tutto il potere da Dio) o immanente (la tradizione avita alla base del potere legittimo e della sua trasmissione o le personali qualità carismatiche del leader, ecc.). Non pare scorretto, allora, definire la prima teoria come democratica perché, sulla base dell’uguaglianza e della libertà di tutti i titolari dell’autorità politica – e, dunque, di quella che verrà poi definita “sovranità popolare”, attribuita, ai “tutti” del popolo -, si procede ad una elezione-selezione di colui, o di coloro, a cui si chiede di esercitare il potere, cioè di governare (monarchia o, rispettivamente, aristocrazia o infine democrazia, secondo la più nota classificazione ellenica). Più spesso, come vedremo, si presenta ulteriormente come democratica la procedura stessa, perché prevede un voto (popolare) a maggioranza per questa prima e primaria decisione sulla forma di governo. Ma se come democratica viene assunta la teoria generale che sta alla base del potere – autorità (cioè del titolo della sovranità), perché lo legittima con il consenso, ben prima, logicamente, che vengano decisi i titolari investiti della funzione di esercitare il potere-autorità e le modalità di questo esercizio della sovranità, è chiaro, allora, che altro – pur analogo o affine – è il significato specifico e tecnico di quella forma di governo – cioè di esercizio del potere – che passa sotto il nome di “democrazia” (intesa, quindi, in senso stretto). Democrazia, dunque, sia come titolarità del potere supremo (quella che nel corso dei secoli verrà definita, appunto, sovranità popolare) sia come esercizio effettivo dello stesso. In breve: usiamo lo stesso termine – democrazia – sia per indicare quella teoria o dottrina del potere volta a giustificare il fondamento e l’origine (consensuali) da un lato, il fine generale implicito, dall’altro, del potere-autorità sia per designare la teoria o dottrina della forma di governo in senso stretto e specifico, con cui si intende l’esercizio del potere (e dunque, si designano coloro cui tale esercizio è affidato e i modi – le istituzioni, le procedure, le regole corrispondenti – in una parola, il sistema politico). Si tratta di due livelli di riflessione che, pur non antitetici, rivelano diverse fasi di sviluppo intellettuale: il primo rimanda ad una prospettiva filosofica ed ansi, più precisamente, metafisica, che, ponendosi il problema politico come problema di fondamento, di fondazione, di origine e di fine del potere dell’autorità, da questo fa derivare più o meno coerentemente i soggetti titolari del potere supremo stesso (Dio, la tradizione dinastica, la leadership carismatica, la comunità, ecc.): questa prospettiva indica contestualmente giudizi di valore (che per la democrazia si identificano con la libertà e l’uguaglianza dei soggetti componenti il popolo); il secondo, invece, opta per una prospettiva scientifica che, da Machiavelli in poi, portando l’attenzione sul fenomeno più vistoso della politica, il potere, di questo studia come – secondo quali leggi e regole – si conquista, si conserva e si perde e ad opera di chi e su chi: questa prospettiva, a differenza della precedente (prescrittiva), è descrittiva, proprio perché prescinde (almeno intenzionalmente e tendenzialmente) da qualunque criterio di valore (che non sia quello politico o della politica – in buona sostanza, del potere – inteso tuttavia in senso autoreferenziale). L’epilogo di tale seconda prospettiva si può storicamente trovare, oggi, nelle teorie elitistiche per le quali chi governa – cioè chi esercita effettivamente il potere – è (ritenuta) sempre una minoranza organizzata rispetto alla maggioranza che subisce in vari modi il comando politico, quale che sia non solo la corrispondente giustificazione o “formula politica”, ma anche la forma di governo – uno, pochi, molti (forma di governo che, così, perde la sua importanza tradizionale). Anche la democrazia – per l’elitismo – è contrassegnata da una minoranza governante, fondata sulla base – e attraverso il controllo – del consenso popolare. Quest’ultimo, in quanto strumento specifico di legittimazione, viene definito (come accennato) dagli elitisti (più precisamente da G. Mosca) “formula politica”, che, in tal modo, prende scientificamente il posto della giustificazione filosofico-metafisica propria della prima prospettiva ( riguardante, cioè, la fonte e il fondamento dell’autorità politica) e che noi abbiamo definito “teoria del potere”. Ritorniamo ora all’episodio biblico. Abbiamo, anzitutto, un “popolo” (quello degli alberi) che “si muove” “per crearsi un re”: non vi è accennato, ma si può presumere un dibattito in una assemblea che precede l’offerta della corona. Siamo, comunque, in presenza di una implicita (deliberazione) scelta popolare in favore della forma di governo monarchica; c’è, quindi, una seconda fase, quella più empirica della ricerca – e della investitura – del soggetto cui affidare l’esercizio del governo.
Dimenticate i Rockefeller e i Rothschild, dimenticate le speculazioni complottiste sul “Nuovo Ordine Mondiale”: la prima famiglia a tenere in pugno i potenti della terra furono i Fugger, di Augsburg (Augusta), in Germania. Ricchi come nessuno mai nella loro epoca e fino al XX secolo: il loro patrimonio arrivò ad ammontare a 350 miliardi di euro (al valore attuale) e si contendono il titolo di…