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Lo stato di natura in Hobbes, Locke e Rousseau

 

 

I tre grandi teorici dello stato di natura, una congetturata condizione in cui gli uomini non sarebbero stati ancora associati tra loro da un sistema governativo e dalle leggi ad esso connesse, sono stati Thomas Hobbes (1588-1679), John Locke (1632-1704) e Jean Jacques Rousseau (1712-1778).
Thomas Hobbes (immagine a sinistra) espose nel Leviatano (1651) la sua teoria sullo stato di natura. Secondo il filosofo inglese, il diritto ha origine naturale per ogni essere vivente. Nello stato di natura gli uomini posseggono i medesimi diritti su qualsiasi cosa, combattendo, così, una guerra che li vede gli uni contro gli altri. Homo homini lupus. L’uomo è un lupo divoratore di altri uomini. Ma esso ha, comunque, interesse a che questa guerra cessi, altrimenti sarebbe costretto a trascorrere l’intera vita a combattere, non potendo godere di quei beni per i quali, invece, è costretto a lottare. Ecco che, allora, gli uomini formarono le società, stipulando un contratto sociale, che Hobbes chiamò “Patto”, con cui limitavano la propria libertà, accettando regole che sarebbero state fatte rispettare dal Leviatano, il capo dello Stato. Queste le parole di Hobbes: “Io autorizzo e cedo il mio diritto di governare me stesso a quest’uomo o a questa assemblea di uomini, a questa condizione, che tu gli ceda il tuo diritto, e autorizzi tutte le sue azioni in maniera simile. Fatto ciò, la moltitudine così unita in una persona viene chiamata uno stato, in latino civitas. Questa è la generazione di quel grande Leviatano o piuttosto – per parlare con più riverenza – di quel Dio mortale, al quale noi dobbiamo, sotto il Dio immortale, la nostra pace e la nostra difesa.” (Leviatano, Parte II, cap. 17). Per affrancarsi, quindi, dalla condizione primitiva, in cui ciascuno è in competizione con gli altri, bellum omnium contra omnes, sarebbe stato necessario costruire una società efficiente, che garantisse la sicurezza degli individui, condizione primaria per il perseguimento dei desideri. Per questo, ognuno rinunciò ai propri diritti naturali, stringendo con gli altri un patto mediante il quale li trasferì ad un singolo soggetto, un monarca o un’assemblea di uomini, che si assumesse il compito di garantire la pace all’interno di quella società.
John Locke (immagine a destra), invece, nell’opera Due trattati sul governo (1690) riteneva che lo stato di natura fosse quello in cui gli uomini godessero della libertà di regolare le proprie azioni e di disporre dei propri possessi come meglio credessero, entro i limiti della legge di natura, senza dipendere dalla volontà di nessun altro. Ciò detto, precisò il filosofo, la libertà e l’uguaglianza degli uomini non implicavano che lo stato di natura fosse uno stato di licenza: nessuno aveva il diritto di distruggersi e di distruggere gli altri per la propria conservazione. Lo stato di natura, infatti, era limitato da una legge di natura, che coincideva con la ragione, sulla cui base era possibile costituire una società ordinata, con rispetto e uguaglianza reciproca. Secondo la medesima legge di natura, che sottintendeva la pace e la conservazione di tutti gli uomini, era necessario sia conservare e difendere gli altri, anche sopprimendo l’offensore, sia punire i trasgressori di questa legge. Per il principio di uguaglianza, tutti potevano far osservare questa legge: nessuno aveva superiorità e giurisdizione assoluta o arbitraria sopra un altro. La naturale condizione umana non era, quindi, per Locke, come era stata per Hobbes, il bellum omnium contra omnes. Ogni uomo aveva in sé una naturale predisposizione alla giustizia e alla pace. Diversamente, né la pace né giustizia sarebbero state realizzabili. Tuttavia, la parzialità degli uomini nel giudicare se stessi e i propri amici comportava confusione e disordine. Per questo, il filosofo pose il governo civile quale rimedio adatto agli inconvenienti dello stato di natura. Nello stato di diritto, o stato sociale, l’uomo deve rispettare regole stabili, da sempre impresse nel suo cuore e non imposte da nessuno. Prima dello stato deve esistere una società autosufficiente, come la famiglia, che si costituisce a partire da una naturale tendenza dell’uomo verso gli altri. Gli uomini sono stati creati per vivere in società e non in solitudine.
Jean Jacques Rousseau (immagine a sinistra), al contrario, presupponeva una effettiva difformità tra la società e la natura umana. Affermava, infatti, che l’uomo fosse, in natura, buono, un “buon selvaggio” (questo assunto suscitò la caustica ironia di Voltaire, il quale dichiarò: “Leggendo Rousseau viene voglia di mettersi a camminare a quattro zampe!”), e venisse corrotto, in seguito, dalla società, che riteneva un prodotto artificiale, nocivo per il benessere degli individui. Nel Discorso sull’origine e i fondamenti dell’ineguaglianza tra gli uomini (1755), illustrò il progresso e la degenerazione dell’umanità da un primitivo stato di natura sino alla società moderna. Per il filosofo ginevrino gli uomini primordiali erano individui isolati – diversi dagli animali solamente a causa del possesso del libero arbitrio e della capacità di perfezionarsi – dominati dall’impulso all’autoconservazione e da una disposizione naturale alla compassione e alla pietà verso i simili. Quando, però, l’umanità fu costretta a vivere in comunità, a causa della crescita della popolazione, subì una trasformazione psicologica, in seguito alla quale cominciò a considerare la buona opinione degli altri come un valore indispensabile per il proprio benessere. Lo sviluppo dell’agricoltura e della metallurgia, con la conseguente creazione della proprietà privata e della divisione del lavoro, portarono a una crescente dipendenza reciproca degli individui e alla disuguaglianza tra gli uomini. La conseguente condizione di conflitto, tra chi aveva molto e chi poco o nulla, fece sì che il primo Stato fosse concepito come una forma di contratto sociale, suggerito dai più ricchi e potenti. Questi, infatti, tramite proprio il contratto sociale, sanzionarono la proprietà privata, istituzionalizzando la diseguaglianza come se fosse inerente alla società umana. Il desiderio di essere considerati dallo sguardo altrui aveva corrotto l’integrità e l’autenticità degli individui all’interno di una società, quella moderna, segnata dalla dipendenza reciproca, dalle gerarchie e dalle diseguaglianze sociali.

 

 

 

La Guerra fredda

 

 

AREE DI APERTO CONFLITTO DURANTE LA GUERRA FREDDA: IL PONTE AEREO DI BERLINO E LA DIVISIONE DELLA COREA

Alla fine della Seconda guerra mondiale, Berlino rappresentava il punto caldo della questione tedesca. La stessa Germania era divisa nei due blocchi, rappresentativi delle due opposte ideologie: la Germania occidentale, la cui ripresa si basava sull’economia di mercato, e la Germania orientale, sede di alcuni dei più importanti centri industriali tedeschi prebellici e paese più avanzato dell’area economica socialista, fonte di tecnologie e capacità professionali, utili per tutto il sistema. Berlino, localizzata nella Repubblica Democratica Tedesca (Germania Est), risultava divisa in quattro zone, occupate una dall’URSS (Berlino Est) e le altre, site nella ponte-aereo-berlino-ovestBerlino Ovest, dalla Francia, dalla Gran Bretagna e dagli USA. Berlino Est diventò la capitale della Repubblica Democratica Tedesca, mentre Berlino Ovest, derivante dall’unione tra le zone occupate dalle forze occidentali, rappresentava un’appendice della Repubblica Federale Tedesca. Per raggiungere Berlino, dalla Germania occidentale, era necessario percorrere una strada che attraversava il territorio della Germania orientale. Il maggio del 1948 segnò l’inizio del blocco di Berlino, che durò circa un anno. Tale blocco fu esercitato dalla potenza sovietica, che controllava il movimento stradale e ferroviario di persone e di beni. Il ritiro occidentale da Berlino, tuttavia, sarebbe stato interpretato dal mondo come un segno di estrema debolezza. Per questo, gli Stati Uniti, sfoggiando la loro superiorità aerea e dimostrando l’inutilità della strategia sovietica, rifornivano Berlino Ovest con aiuti e merci aviotrasportati (ponte aereo). Il ponte aereo non fu ostacolato dall’URSS: se ciò fosse accaduto, ne sarebbe potuto nascere un incidente che avrebbe potuto aprire la strada alla Terza guerra mondiale. Fortunatamente, i contatti tra le due parti e i tentativi per risolvere la crisi non si interruppero e il ponte aereo risultò un completo successo, tecnico e psicologico, per l’Occidente, concludendosi, dopo oltre un anno, con una evidente sconfitta dei sovietici. L’impegno americano, per di più, avvantaggiò i partiti democratici, che ottennero importanti vittorie elettorali nella Germania occidentale.muro-di-berlino-caduta-picconate Negli anni a seguire, la città rimase il punto di massimo attrito tra i due blocchi e rappresentò, per gli abitanti della Germania orientale e degli altri Paesi del blocco sovietico, la porta d’ingresso verso l’Europa occidentale. L’afflusso di milioni di lavoratori, spesso altamente qualificati, dall’Est, divenne, durante gli anni ’50, motivo di sviluppo economico per la Germania occidentale e di preoccupazione per l’URSS e per tutti i Paesi satelliti. Nel 1961, la Repubblica Democratica Tedesca, per chiudere le proprie frontiere verso l’Ovest, eresse un muro che attraversava Berlino, ponendo fine, in tale maniera, al deflusso di profughi. Il 9 novembre 1989, dopo diverse settimane di disordini pubblici, il governo della Germania Est annunciò che le visite a Berlino Ovest sarebbero state permesse; dopo questo annuncio una moltitudine di cittadini dell’Est si arrampicò sul muro, superandolo, per raggiungere gli abitanti della Germania Ovest. La caduta del muro di Berlino aprì la strada alla riunificazione tedesca che, formalmente, si concluse il 3 ottobre 1990.

Nel secondo dopoguerra, la penisola coreana fu suddivisa tra i due blocchi, lungo il confine artificioso del 38° parallelo, in Corea del Nord, socialista, e in Corea del Sud, filoamericana. Le due parti risultarono contrapposte, in quanto, la Corea del Nord auspicava a riunificare il Paese, mentre, la Corea del Sud mirava ad una divisione, a tempo indeterminato. Il 25 giugno 1950, l43-101123124801_mediumun contingente militare della Corea del Nord passò la frontiera e occupò tutto il territorio meridionale. Alle Nazioni Unite tale azione fu fatta passare, da parte degli USA, come un tentativo di aggressione, comportando l’intervento delle truppe ONU. Una volta respinte le truppe del Nord, oltre il 38° parallelo, le forze americane e dell’ONU oltrepassarono esse stesse la frontiera, raggiungendo quella cinese. L’intervento diretto in guerra delle truppe cinesi generò una divisione nel campo occidentale: uno schieramento favorevole al proseguimento del conflitto, l’altro al ripristino della situazione originaria. La guerra si protrasse per diversi anni, fino all’armistizio che, nel 1953, ristabilì i confini tra la Corea del Nord e la Corea del Sud, fissati nel 1945. La guerra di Corea è stato il primo conflitto dell’era atomica, ma anche la prima guerra in cui gli statunitensi non risultarono vincitori. Da quel momento, nel continente asiatico e in quello europeo, si fissarono confini stabili tra i due blocchi. Negli Stati Uniti la lezione della Corea fu interpretata come la prova dell’aggressività dei comunisti e come dimostrazione delle difficoltà di una soluzione di forza. In tutto l’Occidente si aprì il dibattito tra i sostenitori di una linea di contenimento e quelli di una più decisa offensiva politica e militare contro l’URSS.

 

 

Jean Jacques Rousseau e il comunismo

 

 

Jean Jacques Rousseau, che io ho sempre definito un “protocomunista”, poiché nella sua esperienza di vita e nella sua dottrina sono certamente contemplate (nonostante larga parte della critica filosofica, ancora oggi, faccia finta di non vedere!) alcune delle premesse fatte proprie, poi, dal comunismo, che anche su queste basi avrebbe costruito parte del suo impianto dogmatico, ha comunque scritto cose degne di nota, che consiglio di leggere. Ciò non vuol dire che il comunismo, per una sorta di perversa proprietà transitiva dell’uguaglianza, abbia in sé qualcosa di utile e positivo, se non la bella favoletta dell’uguaglianza tra gli uomini. La quale rimane, appunto, una favoletta! A questo proposito, lo stesso Rousseau, nel 1755, aveva pubblicato un interessante “Discorso sull’origine e i fondamenti dell’ineguaglianza tra gli uomini” che, evidentemente, il prosatore di Treviri, con la penna intinta nella violenza, e i suoi immediati epigoni, ebbero a leggere.

 

 

Jean Jacques Rousseau (1712-1778)

 

Karl Marx (1818-1883)

 

 

 

 

Le donne nel Risorgimento (Seconda parte)

 

 

Continua, con questa seconda parte (leggi la prima parte), la brevissima trattazione sul ruolo delle donne nel Risorgimento. A questo punto, dunque, è bene volgere un rapido sguardo sulle esistenze di alcune di esse, anche per riparare, in piccolissima parte, al torto commesso sia dai loro contemporanei, sia dagli storici, che le hanno confinate nel limbo della storia.

Cristina Trivulzio di Belgiojoso: milanese, ebbe una travagliata vita familiare e comportamenti, per il tempo, ritenuti scandalosi (sposata, lasciò il marito ed ebbe una figlia da un nuovodownload compagno). Fuggita in Francia dopo il 1831, divenne giornalista. Tornata in Italia nel 1840 si stabilì a Trivulzio. Colpita dalle condizioni di miseria dei contadini, si dedicò ai problemi sociali. Seguendo le teorie utopistiche di Henri de Saint Simon e Charles Fourier, aprì asili e scuole per figli e figlie del popolo. Nel 1848-’49 fu ancora in prima linea: raggiunse Milano guidando la Divisione Belgioioso, 200 volontari da lei reclutati e trasportati in piroscafo da Roma a Genova e, da lì, a Milano. A Roma, nei mesi della Repubblica Romana, guidata da Giuseppe Mazzini, lavorò giorno e notte negli ospedali durante l’assedio della città, creando le infermiere laiche e chiamando a questo compito nobili, borghesi e prostitute. Alla caduta della Repubblica (luglio 1849), dopo essersi battuta per salvare feriti e prigionieri, fuggì prima a Malta, poi, ad Atene e, infine, a Costantinopoli. Alla sua morte, nessuno dei politici d’Italia partecipò ai suoi funerali.
Anna Grassetti Zanardi: bolognese, fu moglie di uno degli organizzatori del tentativo download (1)insurrezionale mazziniano di Savigno. Anch’essa ardente mazziniana, fu infermiera nel corso della campagna del 1848 e a Roma, nel 1849. Durante la successiva restaurazione pontificia, per incarico di Mazzini, si occupò di creare comitati in città e anche in altri centri vicini. Sorvegliata e più volte perquisita, fu arrestata nel 1851 e trasferita nel carcere di Ferrara. Le cronache cittadine di fine Ottocento la segnalavano, ormai vedova, sempre in testa al gruppo dei reduci garibaldini, durante i cortei patriottici, con in dosso la camicia rossa garibaldina e il petto coperto da numerose medaglie.
Giuditta Tavani Arquati: romana, incinta del quarto figlio, si trovava in Trastevere, nel lanificio Aiani, insieme con il marito, il figlio dodicenne e molti altri cospiratori, che preparavano la rivolta, in attesa dell’arrivo di Garibaldi da Monterotondo. L’entrata degli zuavi pontifici scatenò un aspro combattimento e, nonostante una strenua resistenza, i congiurati vennero sopraffatti e Giuditta, che aveva spronato, aiutato e soccorso i rivoltosi, venne massacrata dopo aver visto uccidere il marito e il figlio.
Sara Levi Nathan: pesarese, si profuse nell’impegno politico e per nelle iniziative sociali: fu una download (2)fervente patriota, grande amica di Mazzini, che morì a Pisa, nel 1872, proprio a casa di sua figlia Janet. Fu sorvegliata dalla polizia e accusata di cospirazione. Riuscì a fuggire, prima di essere arrestata, e riparò a Lugano. Tornata a Roma, dette vita a numerose iniziative educative, filantropiche e sociali. Fondò, nel quartiere di Trastevere, una scuola intitolata a Mazzini, destinata alle ragazze, e aprì una casa per prostitute, l’Unione benefica, con l’intento di prevenire la prostituzione, offrendo a ragazze indigenti o in difficoltà, alloggio, mezzi e possibilità di lavoro.
Giorgina Craufurd Saffi: di famiglia inglese, si innamorò dell’Italia, anche grazie al favore che la sua famiglia esprimeva per la causa italiana. Sposò Aurelio Saffi, esule italiano a Londra, già triumviro della Repubblica Romana nel 1849. Dalle idee mazziniane trasse il profondo interesse per l’educazione delle donne e dei giovani, cui andava inculcato il rispetto dei diritti e dei doveri dell’uomo, e l’idea che solo attraverso l’emancipazione e la partecipazione alla vita civile e civica si sarebbe potuto essere cittadini e non sudditi, partecipando, così, all’emancipazione della Patria e del Popolo. Giorgina scelse di occuparsi, in primo luogo, dell’educazione di tutte le donne, prime e fondamentali educatrici dei propri figli, cosa che la porterà ad appoggiare i movimenti emancipazionisti che, in quella seconda metà dell‘800, faticosamente stavano facendosi strada.
Adelaide Cairoli: milanese, a 18 anni sposò Carlo Cairoli, professore di chirurgia di Pavia, di sentimenti patriottici. Donna di vasta cultura, curò lei stessa l’educazione dei figli, indirizzandoli all’amore per la società e per la patria. Finanziò giornali patriottici, ospitò un salotto politico-letterario, mantenne una corrispondenza con gli intellettuali del periodo. Così scrisse, lei stessa, una volta: “Prima ancora dunque che alla causa femminile, io mi ero votata a quella della mia patria e il mio amore per la prima nacque dal mio amore per la seconda”.
Anita Ribeiro Garibaldi: fu la moglie di Giuseppe Garibaldi, nonché compagna di tutte le sue battaglie. Nel 1840, fu catturata nella battaglia di Curitibanos, ma riuscì a sfuggire alla prigionia. Nel 1849 era a Roma, per la proclamazione della Repubblica Romana, dove combatté a fianco dei garibaldini, i quali, però, dopo una lunga resistenza contro gli eserciti francese e austriaco, che invasero la città, dovettero ritirarsi dopo la battaglia del Gianicolo. Durante quella fuga le condizioni di Anita, al quinto mese di gravidanza, peggiorarono, e fu proprio in quell’occasione che, a 28 anni, la donna-guerriero spirò.

 

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Le donne nel Risorgimento (Prima parte)

 

 

Il ruolo delle donne nella costruzione dello Stato italiano è sempre stato considerato subordinato a quello maschile. Queste, infatti, nonostante la poca o nulla visibilità pubblica, non solo ebbero un ruolo rilevante in quel processo, ma furono numerose, di diverse estrazioni sociali e si dimostrarono volitive, determinate, con idee e progetti da costruire, carlo-stragliati-milano-cinque-giornateimpegnate direttamente nelle cospirazioni così come nelle lotte vere e proprie, anche se, in genere, con funzioni di organizzatrici – una delle poche che imbracciò il fucile fu Anita Garibaldi – passate poi, dopo l’unificazione, a ruoli di impegno sociale, a beneficio delle donne e dell’infanzia, per il riscatto sociale delle classi disagiate, per l’organizzazione e la promozione dell’educazione. Queste donne, senza esagerare, furono centinaia. Anche se, in gran parte, dimenticate, non mancarono di essere coraggiose protagoniste nelle vicende che portarono all’unificazione d’Italia. Sebbene, quindi, fossero state figure di primo piano in quel processo storico, sono finite troppo presto nel dimenticatoio, tanto che, i loro nomi risultano oggi quasi scomparsi dai manuali di storia e, dunque, sconosciuti ai più. Nella stragrande maggioranza dei casi, il loro apporto non si limitò alla partecipazione più o meno attiva alla fase di unificazione dello Stato italiano, ma proseguì nel tempo, concretizzandosi in iniziative di alto valore civile e sociale, in grado di far crescere la nuova nazione e di avviare la costruzione di una società più libera e giusta. Il percorso che trasformò un’idea nella realtà dell’Italia unita, dalla Lombardia alla Sicilia, fu contrappuntato dal progressivo coinvolgimento delle masse, dunque l’apporto femminile fu determinante in tutte le sue tappe. Questo eroinepercorso, però, si espresse in forme di partecipazione diverse, che lo resero meno “eroico” e, perciò, più oscuro e anche più facilmente oscurabile da parte degli stessi contemporanei. Il medesimo destino, del resto, che è sempre toccato nei secoli, e in parte ancora oggi, al ruolo della componente femminile, peraltro numericamente maggioritaria, in tutte, o quasi, le società umane. La storia delle donne e dell’Unità d’Italia è stata una storia scritta con un inchiostro invisibile. Una trama fitta e sottile di presenze operose, generose, importanti, anche se taciute, come spesso accade all’agire femminile. Le donne furono presenti attivamente nel processo risorgimentale e vi contribuirono con atteggiamenti diversi, coraggiosi e innovativi, con scelte di libertà. Una perpetrata omertà della storia e degli storici non ha reso loro giustizia. Giuseppe Mazzini nell’utopia universalistica della sua visione della realtà, manifestò posizioni aperte e rispettose circa l’importanza del ruolo della donna nella società, anche se ammise l’immaturità dei tempi affinché qualcosa potesse cambiare e la donna partecipare alla vita politica del Paese: “L’emancipazione della donna – scrisse Mazzinisancirebbe una grande verità, di base a tutte le Garbaldi_e_Anitaaltre, l’unità del genere umano, e assocerebbe nella ricerca del vero e del progresso comune una somma di facoltà e di forze, isterilite da quella inferiorità che dimezza l’anima. Ma sperare di ottenerla alla Camera come è costituita, e sotto l’istituzione che regge l’Italia (la monarchia) è, a un dipresso, come se i primi cristiani avessero sperato di ottenere dal paganesimo l’inaugurazione del monoteismo e l’abolizione della schiavitù”. L’emancipazione della donna passò, senza dubbio, attraverso l’esperienza dell’associazionismo, che diffuse la pratica del dibattito e della democrazia. In questo senso, il “salotto” fu il primo strumento di apertura alla sua partecipazione e all’impegno intellettuale e civile. Fu in ambiti aristocratici e alto-borghesi, il cui livello culturale e l’internazionalità della formazione consentivano di  produrre opinioni e confrontarle diffondendo così la passione per l’impegno sociale e civile, che ciò ebbe luogo. Nobildonne aprirono i loro salotti a letterati, patrioti e artisti, contribuendo, in modo sostanziale, alla creazione di un humus fertile alla diffusione dei fervori cinque_giornateunitari e risorgimentali. Spesso simpatizzanti delle idee mazziniane, o vicine alla carboneria, come, poi, lo saranno alla teosofia, alla massoneria, esse hanno meno combattuto tra le barricate a colpi di moschetto, e più lavorato per la costruzione del paese civile.  Nel salotto di via Bigli, ad esempio, la contessa Clara Maffei riunì patrioti e artisti, uniti dall’anelito di indipendenza e dall’ardore libertario, quegli stessi che, nel 1859, avrebbero imbracciato le armi contro l’aquila Asburgica. Filantrope più che patriote, quindi, fondarono ospedali, organizzazioni per l’assistenza alle minorenni, aprirono asili e scuole per affrancare le donne da quella indigenza di cultura che si traduceva in mancanza di libertà. Le sottili trame del femminile legarono fatti e persone e spesso, i destini di queste donne, si incrociarono o si sfiorarono. Alcune di esse sono entrate nei libri di scuola, come Anita Garibaldi, compagne di eroi, o astute strateghe dell’intrigo e della politica, come la Contessa di Castiglione. Altre contribuirono, con i loro sforzi e le loro idee, ad un’azione collettiva e diffusa in cui è difficile far emergere singole individualità. Sono prime forme di associazionismo intorno a veri e propri progetti politici, sono comitatiDonneBandiera di filantrope dedite ad un progetto sociale, sono gruppi di giornaliste e intellettuali riunite intorno ad un periodico, comitati clandestini di patriote e congreghe dal carattere religioso. Spesso queste storie si coloravano di episodi avventurosi  e  rocamboleschi, e queste non sempre famose eroine si destreggiavano vestendo, il più delle volte, panni  maschili, nascondendosi sotto travestimenti e false identità. Se gli uomini del Risorgimento, quindi, furono i protagonisti dell’Unità politica del Paese, le donne, nell’ombra, operarono alla creazione dell’unità sociale e culturale della nuova e giovane Italia. Nel fare questo, avviarono, contemporaneamente, la prima riflessione sulla condizione femminile, cominciando ad elaborare l’identità della donna dell’Italia unita. Esse tracciarono la strada sulla quale avrebbero camminato le donne del futuro, quella stessa strada sulla quale, oggi, più di 150 anni dopo, esse sono ancora in cammino.

 

 

Celebrare Giovanni Falcone o Giovanni Brusca?

 

 

In questa Italia, ormai narcotizzata dalla televisione e dai modelli che questa propina, mi chiedo se sia il caso, oggi, nel venticinquesimo anniversario della strage di Capaci, celebrare i carnefici invece delle vittime. Sì, perché, con molta tristezza, devo constatare come la maggior parte degli italiani si appassioni alle vicende di criminali, spesso identificandovisi, specialmente quando si vive in contesti di degrado morale e materiale, piuttosto che riflettere sul sacrificio di galantuomini, spesso abbandonati dalle istituzioni in balia di un potere che, si è scoperto, essere troppe volte in combutta con chi avrebbe dovuto garantire quei valori per i quali alcuni hanno dato la vita. Si fa sempre un gran parlare di coloro i quali settant’anni fa morirono, sulle montagne, per dare la libertà all’Italia. E perché? Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Boris Giuliano, Ninni Cassarà, Beppe Montana, Pietro Scaglione, Gaetano Costa, Carlo Alberto Dalla Chiesa, agenti della Polizia di Stato, dell’Arma dei Carabinieri, della Guardia di Finanza, non sono forse stati ammazzati per continuare a garantire a noi quella libertà? Ad ogni modo, in queste settimane la TV sta mandando in onda serie e fiction su mafia e malavita. Preparatevi ad altre lezioni di storia e di morale di questa Italia becera, ingrata e rincoglionita!!!

 

Giovanni-Brusca

 

Palingenesi

 
 

Lo squallore politico attuale potrà essere combattuto soltanto da rappresentanti del popolo (gli eletti), convinti assertori e realizzatori non dell’idea della nazione che diventa Stato per evoluzione del Volksgeist hegeliano, quanto piuttosto della costruzione della nazione attraverso lo Stato. Ri-fondare. Certo, ri-fondare, ma non con i materiali disponibili oggi, seppure investiti dalla democratica volontà popolare, garantita dal sistema costituzionale vigente. Ri-fondare, innanzi tutto, l’idea di Stato come luogo d’azione dell’individuo cosmico-storico. Ri-fondare e Ri-formare lo spirito della nazione. Come? Serve un’ecpirosi e la conseguente palingenesi. I tempi, ormai, sono maturi!

 

 
 
 

Cristianesimo pagano o paganesimo cristiano?

 
 

Eppure, mi chiedo quale differenza sostanziale possa esservi tra le Ecatombeone, le Gamelione, le Falloforie, le Panatenee, le Dionisie e le processioni della settimana santa, o anche le processioni dei santi patroni. Beh, credo, nessuna, in quanto tutte hanno origine in quella sfera pagana (nel senso di “pagus”, non in contrapposizione alle religioni rivelate) e superstiziosa, figlie, come la religione, della paura e dell’ignoranza, anche se meno sofisticate e più immediate.

 
 

 

 
 
 

Lo storico Polibio, le Costituzioni romane e un angoletto napoletano, “morto della storia”

 
 

Polibio di Megalopoli (206-124 a.C.), insigne storico greco antico, dedicò gran parte dei suoi scritti alla storia di Roma, alla nascita della Repubblica romana e alla sua potenza. Secondo lo studioso, il sistema politico romano repubblicano si basava su una costituzione mista, risultato della sintesi delle tre forme di governo fondamentali, dell’armonia e dell’equilibrio tra i tre organi depositari del potere: la monarchia (rappresentata, a Roma, dai consoli), l’aristocrazia (rappresentata dal senato) e la democrazia (rappresentata dai comizi). Già altri storici greci avevano teorizzato che questi tre ordinamenti degenerassero, inevitabilmente, rispettivamente, in tirannide, oligarchia e oclocrazia. Giunta l’oclocrazia il ciclo si sarebbe poi ripetuto, con il ritorno alla monarchia. Secondo Polibio, nel caso della costituzione mista, anche Roma non sarebbe potuta sfuggire al regresso. Nel VI libro delle “Storie”, il greco descrive proprio l’anaciclosi (in greco, anakyklosis), il processo di ritorno ciclico secondo il quale, le principali forme di governo e le relative degenerazioni si sarebbero succedute l’una all’altra, in un fatale trapasso involutivo: dalla monarchia alla tirannide, dall’aristocrazia all’oligarchia, dalla democrazia all’oclocrazia. Roma, tuttavia, avrebbe potuto ritardare questo processo storico di decadenza grazie alla sua costituzione e alla straordinaria preparazione militare, ma non vi si sarebbe potuta sottrarre. Una fortissima eco di questa teoria è presente nelle dottrine di uno dei pensatori napoletani più eminenti di tutta la storia del pensiero occidentale: Giambattista Vico (1668-1744). Questi, infatti, tra le tante dottrine, formulò quella dei corsi e ricorsi storici, ovvero il continuo e incessante ripetersi di tre cicli temporali distinti: l’età primitiva e divina, l’età poetica ed eroica, l’età civile e veramente umana. Il tutto, secondo un preciso disegno, stilato dalla divina provvidenza. L’intero sistema filosofico di Vico, impossibile da esaurire in queste poche righe, potente e meraviglioso, secondo le parole di Antonio Gramsci, fu elaborato da un “angoletto morto della storia”. Compitino per le vacanze di Natale: approfondite la filosofia di Giambattista Vico, cominciando con la lettura della “Scienza Nuova” (1725).

 

Pubblicato l’1 gennaio 2017 su La Lumaca
 
 
 
 


Italy = Mafia. Una comoda equazione richiamata, ancora oggi, da un buon numero di italiani idioti

 

 

È noto, pressoché unanimemente, che, nell’ambito delle azioni umane, così come, per dirla con George Hegel, negli atti degli spiriti dei popoli, si tenda a ricordare e a rimarcare quanto fatto di negativo rispetto alla strabordante quantità di positività, pure da riscontrare. E, allora, giù ad accusare, ad esempio, il filosofo Gottfried Leinbiz, di aver copiato da Isaac Newton le basi per il calcolo infinitesimale, quasi ciò fosse più importante del sistema filosofico che il primo consegnò all’umanità, o, ancora, i francesi di codardia e connivenza col nazismo, all’epoca del Regime di Vichy, quasi dimentichi di quanto fatto per la storia del pensiero universale, dalla lirica dei trovatori alle dottrine dei philosophes illuministi. Ecco, quindi, che giungo al punto, suggerito dall’argomento di questo numero della rivista: gli emigranti italiani. Bene, in qualunque paese del mondo essi abbiano messo piede, dagli Stati Uniti d’America all’Argentina, dal Canada all’Australia, hanno sempre lavorato sodo, veramente sodo, in condizioni, perlopiù, ai limiti dell’umana sopportazione, dovendo subire, sin all’arrivo, discriminazioni di varia natura, che avrebbero fatto impallidire quanti oggi giungono, in Italia, da immigrati. I nostri connazionali dei tempi passati, col proprio sudore e con le proprie rimesse economiche, contribuirono, non soltanto al miglioramento delle loro condizioni e di quelle delle loro famiglie, ma anche di quelle della nazione stessa. E, allora? Cos’è, ancora oggi, universalmente noto e tramandato dell’emigrazione italiana? La mafia. Ecco, tutto si riduce a una minima parte di italiani, che vollero disonestamente caratterizzare la loro permanenza in paesi esteri, specialmente gli Stati Uniti. Nel nostro tempo presente, in Italia, vi sono molti cittadini, i quali, per dare adito al proprio filantropismo da salotto o da PC e convincere gli altri delle loro idee, cioè flatus vocis, chiamano in causa quella subdola equazione secondo la quale noi tutti abbiamo l’obbligo morale di subire che immigrati stranieri, presenti nel nostro paese, delinquano, soltanto perché, 100 anni fa, alcuni nostri connazionali, da emigranti, fecero lo stesso nelle che li ospitavano. Questo è un atteggiamento da idioti, esiziale per il futuro della nostra nazione!

 

Pubblicato il 15 novembre 2016 su La Lumaca