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La Città di Dio di Agostino d’Ippona

Cittadini nell’anima

 

 

 

 

La città di Dio di Agostino, vescovo di Ippona, è un testo fondamentale nella storia del pensiero cristiano occidentale, una difesa del cristianesimo contro le accuse di aver causato il declino di Roma e una profonda riflessione sul destino dell’uomo e sulla storia universale.
Agostino iniziò a scrivere La città di Dio nel 413 d.C., tre anni dopo il sacco di Roma da parte dei Visigoti guidati da Alarico. Questo evento fu traumatico per l’Impero Romano e molti pagani attribuirono la catastrofe al rifiuto degli dèi tradizionali in favore del cristianesimo. In risposta, il filosofo elaborò l’idea secondo cui la storia umana fosse un campo di battaglia tra due “città”: la Città di Dio e la città terrena (o città del diavolo), che si contendono le anime degli uomini.
Agostino propone un modello della storia profondamente radicato nella teologia cristiana, che si discosta dalle interpretazioni classiche e pagane del suo tempo. Ritiene, infatti, che la storia non sia un ciclo di ascese e cadute senza significato o un semplice sfondo per le gesta umane, ma un palcoscenico su cui si svolge un dramma divino. Questa visione lineare e teleologica è guidata dalla volontà del Signore e orientata verso una conclusione definita: la realizzazione del regno di Dio. Secondo Agostino, ogni evento storico, comprese le calamità e le tragedie, dev’essere visto come parte del disegno provvidenziale divino. Tale approccio rassicura i credenti, suggerendo che, nonostante le apparenze, tutto contribuisce al bene ultimo dell’umanità sotto la sovranità di Dio. Ciò infonde un senso di speranza e scopo, in quanto la storia non è caotica o arbitraria, ma ha una direzione e un significato imposti da Dio.
L’opera di Agostino è celebre soprattutto per la sua distinzione tra due città metaforiche: la Città di Dio e la città terrena. Queste non sono località geografiche, ma rappresentazioni di due modi di esistenza, due ordini d’amore e due destini eterni.
La Città di Dio è caratterizzata dall’amore di Dio fino al disprezzo di sé. Gli abitanti di questa città amano Dio sopra ogni cosa e il loro amore è disinteressato e puro. Seguono le leggi divine e cercano la pace eterna, che viene solo da Dio. La Città di Dio non è limitata al cielo o alla vita dopo la morte; inizia nel cuore dei credenti qui sulla terra e si estende all’eternità. È una comunità fondata sulla fede, la speranza e la carità.
La città terrena, invece, è dominata dall’amore di sé fino al disprezzo di Dio. Gli abitanti di questa città pongono se stessi e i loro desideri al di sopra di tutto, cercando potere, ricchezza e successo mondani. Questa città simboleggia la corruzione, l’avidità e l’orgoglio umano e sarà inevitabilmente destinata alla distruzione. Agostino chiarisce che le due città si intrecciano nella storia umana; i loro abitanti vivono fianco a fianco, spesso indistinguibili l’uno dall’altro, ma i loro destini sono opposti.
La distinzione tra le due città permette ad Agostino di interpretare la storia umana come una lotta morale e spirituale, piuttosto che solo politica o militare. Ogni individuo, ogni comunità e ogni evento possono essere valutati in base a questa dualità, offrendo una chiave interpretativa che va oltre il visibile e il temporaneo.


L’opera è divisa in due parti, distinte ma interconnesse. Nei primi dieci libri, il teologo critica la religione pagana e la storia romana, demolendo l’idea che la grandezza di Roma fosse legata al favore degli dèi pagani. Qui Agostino utilizza la sua vasta erudizione e argomentazioni filosofiche per dimostrare la superiorità morale e teologica del cristianesimo. I libri 1-5 costituiscono una risposta alle accuse che i pagani rivolgevano ai cristiani, attribuendo loro la colpa delle sfortune di Roma, inclusi il sacco del 410 e altri disastri. Agostino ripercorre la storia di Roma, evidenziando come catastrofi simili si fossero verificate anche in epoche di devozione agli dèi pagani. Inoltre, riflette sulla natura della vera giustizia e sulla caducità dei beni terreni. Nei libri 6-10 continua la sua critica della religione romana, discutendo la natura degli dèi gentili e la loro inadeguatezza a fornire una guida morale o a garantire il benessere della comunità. Confronta poi le virtù praticate dai cristiani con quelle dei romani, sostenendo che le cristiane siano superiori perché radicate nell’amore per Dio piuttosto che nella ricerca della gloria terrena. Nei successivi dodici libri espone la sua visione teologica della storia quale dramma cosmico tra bene e male, introducendo concetti che saranno poi fondamentali per la teologia cristiana, come la predestinazione e la grazia divina. I libri 11-14 trattano delle origini delle due città, la città di Dio e la città terrena. Agostino esamina la storia biblica, da Adamo fino al diluvio e all’Alleanza di Dio con Abramo, interpretando questi eventi come manifestazioni del conflitto tra l’amore per Dio (che definisce la Città di Dio) e l’amore per sé (che definisce la città terrena). Nei libri 15-18 l’analisi si sposta sulla storia di Israele e sulle sue figure chiave, come Davide e i profeti, che Agostino intende quali prefigurazioni di Cristo e della Chiesa. Questa parte illustra come la Città di Dio si sia sviluppata e mantenuta attraverso la storia ebraica, nonostante la corruzione e le cadute periodiche. Nei libri 19-20 vaglia il fine ultimo delle due città. Il libro 19 è famoso per la sua trattazione della natura della pace, che definisce come “la pace dei cieli”, superiore e diversa da qualsiasi pace terrena. Il libro 20 tratta della resurrezione dei morti e del Giudizio Finale, momenti in cui le sorti delle due città saranno eternamente decise. Infine, gli ultimi due libri, 21 e 22, mostrano le pene eterne che attendono gli abitanti della città terrena e le beatitudini eternamente godute dagli abitanti della Città di Dio, descrizioni adottate per esortare i lettori a cercare la città celeste e a vivere una vita in conformità con i valori cristiani.
L’influenza di La città di Dio si estende ben oltre il contesto religioso, ispirando anche la filosofia politica e la teoria del diritto. L’opera ha contribuito alla formazione della concezione medievale del regno di Dio sulla terra e ha edificato una base per la teologia della storia, che vede gli eventi umani sotto la guida della provvidenza divina. La città di Dio non è solo un’apologia del cristianesimo in un’epoca di crisi ma anche un profondo esame del significato della storia e del destino umano. La dualità tra la città celeste e quella terrena costituisce una potente metafora della lotta eterna tra bene e male, riflettendo le ansie e le speranze di un’epoca in trasformazione. Attraverso questo testo, Agostino difende la sua fede ma traccia anche una mappa per la comprensione cristiana del mondo che resisterà per secoli.

 

 

 

 

Julius Evola cinquant’anni dopo la morte
(11 giugno 1974)

 

 

 

Julius Evola (1898-1974) è stato uno dei filosofi italiani più controversi del XX secolo, noto per le sue posizioni radicali e la sua visione del mondo che abbraccia il tradizionalismo e il misticismo. Pensatore poliedrico, le sue opere spaziano dalla filosofia alla metafisica, dalla critica culturale alla storia delle religioni. La sua eredità intellettuale continua a suscitare dibattiti sia in ambito accademico che politico.
Giulio Cesare Andrea Evola, conosciuto come Julius, nacque a Roma, il 19 maggio 1898. Dopo aver frequentato il liceo classico, si iscrisse alla facoltà di Ingegneria, che abbandonò per dedicarsi alla pittura e alla letteratura. Durante la sua giovinezza, fu influenzato dai movimenti avanguardistici e dal dadaismo, prima di rivolgersi definitivamente alla filosofia e alla spiritualità.
Il pensiero di Evola è caratterizzato da una forte critica della modernità e da un ritorno ai valori tradizionali e aristocratici. Si opponeva al materialismo, al razionalismo e al progressismo, che considerava responsabili della decadenza dell’Occidente. La sua filosofia si fonda su principi chiave, quali la tradizione, vista come antidoto alla disgregazione moderna e considerata un insieme di principi eterni e universali, trasmessi attraverso le civiltà antiche e le grandi religioni; il superamento dell’Io, influenzato dalle filosofie orientali e dall’esoterismo, sosteneva la necessità di superare l’ego individuale per raggiungere una dimensione spirituale superiore; gerarchia e ordine, una società ideale deve essere gerarchica e ordinata, guidata da un’élite spirituale e aristocratica, vedendo nell’epoca medievale un esempio di tale struttura contrapposta al livellamento democratico moderno; simbolismo e misticismo, cui attribuiva grande importanza come vie per comprendere la realtà trascendente.


Tra le sue opere principali, Rivolta contro il mondo moderno (1934), in cui delinea una critica radicale della civiltà moderna e propone un ritorno ai valori tradizionali; Metafisica del sesso (1958), dove esplora la dimensione spirituale della sessualità vista come un mezzo per raggiungere stati superiori di coscienza; Il cammino del cinabro (1963), un’autobiografia intellettuale in cui riflette sulla sua vita e sulle sue opere, offrendo una visione d’insieme del suo percorso filosofico; Cavalcare la tigre (1961), un manuale di sopravvivenza spirituale per l’individuo moderno, in cui consiglia come affrontare la crisi dei tempi a lui presenti senza compromessi con il decadimento.
L’influenza di Evola si estende ben oltre il suo tempo, avendo avuto un impatto significativo su vari movimenti tradizionalisti, spirituali e politici. Tuttavia, la sua vicinanza a ideologie estremiste e il suo coinvolgimento con il fascismo hanno sollevato numerose controversie e critiche. Rimane comunque una figura polarizzante, il cui pensiero continua a essere studiato e reinterpretato. La sua critica alla modernità e il richiamo a valori trascendenti trovano ancora risonanza in certi ambienti intellettuali e spirituali, dimostrando la perenne attualità delle sue riflessioni.

 

 

 

Geopolitics: a Philosophical Approach

 

 

These my brand-new reflections on geopolitics present it as a philosophical field, emphasizing the influence of geography on political strategies and the impact of geopolitical actions on collective identities and human conditions. It integrates classical philosophical thoughts on power and State acts, aiming to deepen the understanding of nations’ strategic behaviours and ethical considerations. This reflective approach seeks to enhance insights into global interactions and the shaping of geopolitical landscapes.

 

A Philosophy of Geopolitics

Part I

 

The increased prominence of geopolitics is readily observable, as evidenced by the substantial airtime devoted to this subject in recent television broadcasts. This resurgence is predominantly lexical, a development of significant import considering that our cognitive frameworks are shaped by the extent of our lexicon, as substantiated by Heidegger’s profound analyses. Notably, this lexical revival eschews Anglicisms, marking it as an exceptional trend. The question arises: is this surge in interest merely a temporal anomaly or does it signify a fundamental transformation in our cultural paradigm? To engage with this understated debate, it is indeed beneficial to contemplate the structural demands of our society that may be driving the rejuvenation of geopolitical discourse.
History was scarcely proclaimed to have ended when declarations of its resurgence began to surface, highlighted by events in 2001, 2003, 2008, 2011, 2014, 2020, and 2022, with terrorism, China, Putin, Israel, and intermittently Covid-19 being identified as central figures. These assertions aim to awaken Italy and Europe from the soporific embrace of postmodernity, yet they falter in pinpointing a definitive event that reawakens our historical consciousness. No event conveniently lends itself to a singular interpretation, and it is a fallacy of realism to assume a transparent epistemological clarity of historical occurrences. The real tragedy is our diminished capacity to ascribe historical and strategic significance to events, indicative of an atrophied historical sensibility. Cultural issues of posture cannot be resolved with expedient solutions, yet a gradual disintegration of the myth of post-history might be emerging. The concept of “longue durée,” largely overlooked by those preoccupied with the immediate, who confuse data for outcomes, could potentially disrupt our complacency.
We will not “return” to history; rather, we will come to recognize that we are still enveloped within it. This acknowledgment is fundamentally a cultural endeavour, wherein the future relevance and viability of geopolitics become pertinent. As a unique instance, and more crucially, as an indication of cultural reform rather than a revolution, this recognition will not be without discomfort. Moving beyond the simplistic reductions promoted by a certain brand of populist empiricism that champions fact-checking as a cure-all and views various disciplines as mere collections of data, we must accept that it is the modes of thought and the theoretical assumptions that orient our focus and interpretation of reality that constitute the spiritual core of a civilization. Thomas Kuhn might describe this as a shift in “paradigms.” The crucial question then becomes: where will necessary changes concentrate, and which cultural forms are currently impeding the development of geopolitics?
Understanding the methodology of prevailing thought, which we term “epochal thought,” involves outlining the self-concept it engenders. An epistemological reform, deemed essential for the advancement of geopolitics and as a precondition for it, must start with a comprehensive reassessment of the self-representation that underlies and influences our historical narrative. Every philosophy of history, and every historiographical philosophy, features a protagonist. In our case, this role is assumed by the “prehistoric individual” (distinct from “prehistorical”). This concept, vigorously discussed in various texts including the fifth chapter of the pamphlet “What is the Third Estate?” by abbé Emmanuel Joseph Sieyès, occupies a central position in much of modern political philosophy. The prehistoric individual is described as pre-collective, pre-ideological, and sometimes pre-linguistic, yet almost never pre-economic. “Prehistoric” might be the most apt description, as this idea stems from the philosophical tradition of conjectural history, predominantly Enlightenment in nature. This tradition, while indirectly critiquing gaps in historiography, primarily explores the potential to identify the “nature” of humans, purportedly external to history. On one hand, this surpasses historiography for situational reasons; on the other, it subtly undermines it by replacing it with a methodology believed to more accurately address the question of human nature. This approach, deeply rooted in ancient Greek philosophy, aimed to remove the mystifying contingencies from the contemplation of a truer reality. The contemporary use of this age-old practice in modern political philosophy has led to the “accidentalization” of history. Much of the current philosophical and political discourse is essentially a commentary on the notion of the “end of history,” which is often misconceived as an event rather than a concept. Indeed, the end of history is perpetually imminent, given our prehistoric or, more precisely, ahistorical anthropological philosophy, which is inherently monistic. We routinely dismiss the qualitative distinctions that define history, which are its essence and dynamic force, as mere contingencies. It could be provocatively argued that modernity has left us with an anti-philosophy of history. The legacy of a de-objectified humanity, never the creator of its own nature, remains ensnared in the ceaseless stasis of its own inertia—a shadow more tangible than reality itself, blind to the distinctions crafted by human agency.

 

 

 

 

 

Geopolitics: a Philosophical Approach

 

 

These my brand-new reflections on geopolitics present it as a philosophical field, emphasizing the influence of geography on political strategies and the impact of geopolitical actions on collective identities and human conditions. It integrates classical philosophical thoughts on power and State acts, aiming to deepen the understanding of nations’ strategic behaviours and ethical considerations. This reflective approach seeks to enhance insights into global interactions and the shaping of geopolitical landscapes.

 

Introduction to Geopolitics

A Philosophical Reflection

 

Geopolitics, a term that evokes the image of global chessboards on which nations move and interact, represents a field of study that transcends mere territorial or political analysis. At its deepest core, it is a philosophical reflection on the nature of power, identity, and collective existence within the global context. This introduction aims to explore the philosophical dimensions inherent in geopolitics, prompting a more nuanced and reflective understanding of the events and strategies that shape our world.
Geopolitics is a multifaceted discipline that intertwines the fixed reality of geography with the dynamic ambitions of global politics, painting a broad canvas that illuminates the strategic manoeuvres nations deploy as they navigate power, influence, and survival on the world stage. This discipline not only considers how physical spaces—mountains, rivers, seas, and natural resources—dictate political possibilities and limitations but also how these geographical factors are leveraged in the quest for geopolitical dominance.
At the heart of philosophical reflection on geopolitics lies the question of power: what is power, who holds it, and how is it exercised on a global scale? Power, in this context, is understood not only in terms of military or economic capability but also as cultural, ideological, and informational power. Thus, geopolitics is configured as the study of power dynamics in an interconnected world, where the actions of one nation can influence, directly or indirectly, the lives of individuals on the other side of the globe.
Another fundamental aspect is identity. Nations, like people, possess complex and multifaceted identities, shaped by history, culture, and relationships with others. These identities play a crucial role in international politics, as they influence perceptions, national interests, and actions on the world stage. Geopolitics thus invites us to consider how collective identities are formed, clash, and transform over time, offering a lens through which to examine the conflicts, alliances, and negotiations that characterize international relations.
Finally, geopolitics challenges us to reflect on human collective existence in an era of globalization. In an increasingly interconnected world, issues of sovereignty, autonomy, and interdependence become increasingly complex and nuanced. Philosophical geopolitics invites us to explore these tensions, asking fundamental questions about the nature of the global order, international justice and human rights, and how we can build a shared future that respects diversity and promotes peace.
The philosophical exploration of geopolitics invites us to ponder deeper existential and ethical questions concerning power, territory, and human intent, drawing from the rich intellectual traditions of several key philosophers.


In Leviathan, Thomas Hobbes posits that human life in the state of nature is “solitary, poor, nasty, brutish, and short,” a state of perpetual conflict that mirrors the relentless competition seen in international relations. His notion that the fear of violent death necessitates the establishment of a powerful sovereign can be analogized to the ways States seek security and power in an anarchic international system.
John Locke is known for his thoughts on government, property, and the social contract. His philosophies are essential for understanding the legitimacy of State power and its roots in the management and ownership of land. Locke’s theories directly relate to how nations justify their geopolitical strategies and claims, emphasizing the importance of consent and rightful authority in the stewardship of resources.
Immanuel Kant proposed that geographical boundaries and the size of a political body affect the governance structure and its representation of the people. His views in Perpetual Peace suggest a subtle acknowledgment of geopolitical constraints and opportunities, articulating a framework where peace can be systematically envisioned and pursued through international cooperation and shared norms.
Friedrich Nietzsche’s concept of the “will to power” underscores a fundamental drive in human behaviour that extends to the behaviour of States. Nietzsche’s ideas illuminate the underlying motivations for geopolitical actions, where nations are seen as entities in constant struggle for dominance or survival, driven by a deep-seated will to assert and expand their influence.
The integration of these philosophical perspectives offers a deeper understanding of the strategic behaviours exhibited on the global stage. Whether it’s in the distribution of critical resources, the strategic placement of military bases, or the formation of powerful alliances, the philosophical underpinnings of geopolitics highlight the inherent conflicts and negotiations that define international relations.
By considering these philosophical views, we gain insights into the enduring nature of power struggles, the ethical dimensions of territorial disputes, and the continuous impact of geographical realities on political decisions. These perspectives not only enrich our understanding of current geopolitical dynamics but also help us foresee how shifts in power and geography might shape the future global order.
This broader, more nuanced approach to geopolitics, enriched with philosophical inquiry, encourages a more comprehensive reflection on the reasons nations act as they do and the possible paths towards cooperation or conflict. It challenges us to critically assess the driving forces behind geopolitical strategies and to contemplate the long-term impacts of these actions on global peace and stability.
In conclusion, approaching geopolitics from a philosophical perspective allows us to go beyond superficial analysis of global events, prompting us to question the very bases of our coexistence on the planet. It challenges us to think critically about power structures, identity, and interdependence, thus providing the tools to better understand and, perhaps, positively influence the complex dynamics that shape our world.

 

 

 

 

State, sovereignty, law and economics
in the era of globalization

 

 

 

Taken from my lectures as a Teaching Fellow in International Law, these reflections highlight how State sovereignty and International Law are profoundly influenced by globalization, economic integration and digital technologies, raising fundamental questions about global governance, State autonomy and the adaptation of legal structures to new economic and technological realities.

 

Part VIII

To conclude

 

Globalization and technological advancement have stripped States of significant portions of sovereignty, undermining their ability to independently exercise legislative power, a fundamental aspect in tax regulation. Cyberspace eradicates physical barriers, making borders permeable and creating spaces unregulated by any State authority, floating between the territorial realities defined by countries. This gives rise to de-territorialised digital environments, characterized by a widespread lack of physical tax identity and the virtualization of tax bases, escaping traditional tax logic. In this context, profits generated beyond national borders become nearly unreachable for State taxes. Thus, the internet is configured as a lawless territory, where State sovereignty seems to lose its grip, leaving room for a new order to be built. While the State attempts to maintain control over the remnants of sovereignty eroded by the digital, projecting them onto static taxpayers, mobile incomes, and capitals benefit from the elimination of geographical distances thanks to technology, moving silently and without leaving tangible traces.
The advent of the internet has posed new challenges to State taxation, pushing towards an adaptation of sovereignty principles to the dynamics of e-commerce. Internationally, efforts have been made to create a uniform legal framework that balances the fiscal needs of States with the development of digital commerce, through international cooperation and the renegotiation of traditional tax principles.
The issue of regulating the web legally calls for a radical change in perspective, rising above the earthly and traditional conceptions of law and its violation. Globalization challenges the linearity of legal thought, inviting a vertical reflection that can accommodate the complexities of the digital world. In this scenario, the law takes on a new dimension, seeking to give shape and limits to transgression, distinguishing itself from a purely moral approach and trying to establish a balance between the fluidity of digital relations and the need for a legal order that can regulate them effectively.

 

 

 

 

La società aperta e i suoi nemici
di Karl Popper

Il manifesto razionale di libertà

 

 

 

 

La società aperta e i suoi nemici, pubblicata da Karl Popper in due volumi, tra il 1943 e il 1945, presenta una critica radicale al totalitarismo e difende con passione il valore delle società democratiche e liberali. La sua analisi si estende attraverso la filosofia, la storia e la politica, rendendola una pietra miliare nel pensiero del XX secolo.
Il testo fu redatto durante gli anni della Seconda guerra mondiale. Popper stesso, originario di Vienna e di famiglia ebraica, visse gli orrori del totalitarismo nazista prima di fuggire in Nuova Zelanda, dove poi scrisse l’opera. Il contesto storico è fondamentale per comprendere l’urgenza e l’impeto con cui l’Autore attacca quelle teorie filosofiche che, secondo lui, avevano pavimentato la via ai regimi totalitari.
Il filosofo descrive la società aperta come un sistema sociale caratterizzato dalla flessibilità, dalla capacità di auto-correzione e dal governo attraverso decisioni consensuali piuttosto che coercitive. La società aperta promuove l’innovazione e il cambiamento continuo, incoraggiando il dibattito, la critica e la diversità di opinioni. La sua essenza sta nell’abilità degli individui di vivere senza imposizioni da parte dell’autorità e di partecipare attivamente alla formazione delle politiche pubbliche. Per meglio comprendere la società aperta è utile considerare il suo opposto: la società chiusa. Questa è caratterizzata da strutture statiche e gerarchiche, dove il cambiamento è percepito come una minaccia all’ordine sociale stabilito. Le società chiuse spesso mitizzano il passato e aderiscono a ideologie rigidamente deterministiche, che giustificano il controllo autoritario e la limitazione delle libertà individuali. Popper vede tali caratteristiche proprio nei regimi totalitari del suo tempo, che sfruttano tali ideologie per sopprimere il dissenso e mantenere il potere.
Il filosofo critica aspramente le teorie storico-deterministiche di Platone, Hegel e Marx, accusandoli di essere “nemici” della società aperta, a causa delle loro visioni utopiche e totalitarie, che sostengono una inevitabile marcia verso determinati ideali politici, giustificando così il sacrificio degli individui per obiettivi collettivi supposti. Egli sostiene che questa visione della storia sia scientificamente infondata e pericolosamente vicina a giustificare i peggiori eccessi dei regimi autoritari. La storia, al contrario, è fatta di scelte imprevedibili e l’azione umana è caratterizzata da una responsabilità morale individuale, non da traiettorie prefissate. Per questo, propone ciò che chiama “razionalismo critico”, un approccio che valorizza la discussione aperta e il miglioramento incrementale della società attraverso la scienza e la critica piuttosto che con rivoluzioni violente.
Popper stigmatizza Platone per il suo idealismo e la sua teoria dello Stato governato da filosofi-re, che giudica come l’antitesi della democrazia. Il modello platonico promuove una società chiusa e statica, dove il cambiamento è inteso quale corruzione dell’ordine ideale. Attacca Hegel per il suo orientamento assolutista e la sua filosofia della storia, che presenta uno sviluppo dialettico verso uno stato finale di libertà assoluta, riscontrandovi addirittura l’antecedente ideologico del nazionalsocialismo tedesco e del fascismo italiano, valutazione che si estende anche a teorie che predicono inevitabili conclusioni storiche, compreso il marxismo. Anche riconosce in Marx un’intenzione morale di migliorare le condizioni delle classi lavoratrici, disapprova il suo determinismo economico, sostenendo che, nonostante le sue intenzioni, finisca per fornire una giustificazione filosofica all’autocrazia rivoluzionaria, che si presume agisca nel nome dell’inevitabile marcia della storia verso il comunismo.La parte conclusiva dell’opera è dedicata alla difesa della società aperta, che Popper identifica con la democrazia liberale, interpretata non solo come un sistema politico, ma come ethos culturale che valorizza la libertà individuale, il pluralismo e il cambiamento progressivo attraverso metodi pacifici e razionali. La democrazia liberale è innanzitutto un processo. Non è statica né definita da una particolare configurazione istituzionale, ma è un sistema dinamico che consente il cambiamento e l’adattamento. Il filosofo critica le visioni utopiche che vedono la politica come ricerca di un ordine ideale e immutabile. Al contrario, asserisce che la società aperta sia caratterizzata da “una disposizione a imparare dall’errore”, qualità che permette alle società democratiche liberali di correggersi e migliorarsi continuamente. Eleva il concetto di tolleranza a principio fondamentale della società aperta, pur avvertendo contro il “paradosso della tolleranza”: infatti, la tolleranza illimitata può portare alla distruzione della tolleranza stessa, se si permette ai tolleranti di sfruttare la libertà offerta per sopprimere i diritti altrui. In una società aperta, la tolleranza richiede un equilibrio attivo, a cui i limiti sono posti per prevenire l’ascesa di forze intolleranti e autoritarie. Un aspetto risolutivo della democrazia liberale è costituito dall’importanza del disaccordo e del dibattito aperto. Popper sostiene che il progresso scientifico e sociale si verifichi per mezzo di un costante processo di congettura e confutazione, dove le teorie sono proposte, testate e spesso confutate. Analogamente, la democrazia deve operare attraverso un dialogo aperto e critico, in cui le politiche sono proposte, discusse e modificate in risposta ai giudizi e ai cambiamenti delle circostanze. Infine, pone una forte enfasi sui diritti individuali quale fondamento della democrazia liberale. La loro protezione non è solo una questione di giustizia legale o morale ma è essenziale per la creazione di un ambiente in cui gli individui possono pensare, esprimersi e agire senza paura di repressione, considerando ciò essenziale per il mantenimento di una società aperta e per il progresso continuo verso una migliore condizione umana.
La società aperta e i suoi nemici, quindi, non è solo un testo di filosofia politica, ma anche un appello accorato alla vigilanza e alla responsabilità individuale nelle società democratiche. L’analisi di Popper rimane estremamente rilevante oggi, in un’epoca in cui le democrazie sono nuovamente messe alla prova da forze autoritarie e populiste. La sua visione della società aperta offre un quadro prezioso per comprendere e affrontare le sfide contemporanee nel mondo politico e sociale. In un’era di crescente polarizzazione, populismo e attacchi alle istituzioni democratiche, il modello di società aperta di Popper serve come promemoria dell’importanza di mantenere e difendere i principi di apertura, tolleranza e dialogo democratico. La sua teoria rimane un potente strumento analitico per i difensori della libertà e della democrazia in tutto il mondo, esortando a non dare mai per scontata quella libertà e a combattere continuamente per la trasparenza, la comprensione e il dialogo, pilastri di ogni società veramente aperta.

 

 

 

 

State, sovereignty, law and economics
in the era of globalization

 

 

 

Taken from my lectures as a Teaching Fellow in International Law, these reflections highlight how State sovereignty and International Law are profoundly influenced by globalization, economic integration and digital technologies, raising fundamental questions about global governance, State autonomy and the adaptation of legal structures to new economic and technological realities.

 

Part VII

International Law and Tax Law

 

 

The process of conflict mediation emerges as a daunting challenge at the nexus of law and politics, embarking on a journey through duality and transformation. This text is imbued with deep reflections on the genesis of legal systems: every stable structure springs from chaos, perpetually sailing on the turbulent waters of uncertainty and potential dissolution. The figure of Janus, the Roman god with two faces looking towards both past and future, symbolizes this endless transition between creation and destruction, order and chaos, the internal and the external. Law, akin to Janus, embraces this essential duality, delving into the dynamics of construction and deconstruction, and contrasting warfare with peace, justice with force, State with territory, and politics with economy. “Janus in the mirror” mirrors the complex self-examination of law, challenging static perception and inviting to a fourfold reflection. This duality extends to the sovereignty of States, transformed and expanded beyond national boundaries by technology, suggesting a new understanding of space and territoriality in the digital age. The relationship between “de-nomosized” spaces and those to be “re-nomosized” reveals an ongoing dialogue between past and future, highlighting the need for a balance between tradition and innovation in law.
The sovereignty of a State, characterized by its capacity to autonomously regulate other wills within a given territory, is confronted with the challenges of globalization and power sharing. Legislation, inherently linked to State sovereignty, becomes a battleground between traditional exercises of power and the pressures of globalization, which reshape the coordinates of political and legal space. The progressive erosion of State sovereignty, catalysed by global interconnectedness and supranational dynamics, questions the very foundations of State power. In this context, new forms of cooperation and governance emerge, requiring a rethinking of traditional norms and principles in favour of a more inclusive and multilateral approach, reflecting the complexity of international and transnational relationships in an interconnected world.
The concept of fiscal sovereignty, understood as the State’s capacity to levy taxes within its territorial borders and as an expression of independence in international relations, reflects the complexity of global economic dynamics. The distinction between the power of taxation tied to territory and the transnational nature of investments raises fundamental questions about the regulation and application of fiscal laws. With the expansion of international trade, there is a highlighted need to adapt fiscal regulations to the realities of a globalized economy, recognizing both the territorial limits of the State and its ability to influence economic situations beyond its borders. This debate on the extraterritorial character of tax discipline underscores the importance of finding a balance between national sovereignty and international cooperation in the era of globalization.
The context of international law is characterized by its intricate web of rules, distinguished by the diversity of their sources and a substantive consistency in their aims. This framework reflects the sovereignty of each nation, seen as an autonomous and sovereign entity, particularly in the context of tax legislation, where the principle of exclusive territorial jurisdiction prevails.
Despite this, there is no unified body of laws governing international tax matters between States. Instead, tax law and international law merge to facilitate the harmonious coexistence of States, considered equal in their right to exercise sovereignty and in maintaining their supreme authority. This integration is based on international cooperation to resolve disputes between different tax jurisdictions, driven by global interaction and economic relations.
Thus, the concept of international tax law relies on conventions against double taxation in the absence of direct tax imposition. This branch of law, unlike private international law, does not aim to resolve discrepancies between laws but rather to manage conflicts between different fiscal claims. International tax treaties seek to limit the legislative power of States to mitigate instances of double taxation, with each State agreeing to relinquish a portion of its taxation right in favour of the other, based on principles of reciprocity and mutually agreed arrangements.
On the other hand, supranational tax law is distinguished by being issued by entities that override States, such as international organizations with their own legal personality, significantly broadening the scope of application compared to convention-based tax law. While the latter focuses primarily on preventing double taxation, supranational law can directly regulate the substance of tax laws, deeply influencing national legislations.
A prime example is the tax law of the European Union, which highlights the EU’s supremacy over its member States and whose impact on national laws is widely recognized. However, this does not necessarily imply a divergence between international tax law and EU law. Community law integrates into national legal systems through a process of adoption based on the founding treaties of the EU, thus highlighting its uniqueness and its particular effect on national legal systems, while remaining part of the broader context of international tax law.

 

 

 

 

State, sovereignty, law and economics
in the era of globalization

 

 

 

Taken from my lectures as a Teaching Fellow in International Law, these reflections highlight how State sovereignty and International Law are profoundly influenced by globalization, economic integration and digital technologies, raising fundamental questions about global governance, State autonomy and the adaptation of legal structures to new economic and technological realities.

 

Part VI

On Hegel again

 

The market narrative transforms into a tale of synchronism, capturing the temporal reality of individuals and propelling them into an electronic and offshore dimension where spatial and State boundaries dissolve. This process occurs in a context where anchorage becomes purely formal on a legal level and deeply meaningful economically. At the heart of market dynamics lies its very essence, outlined by a sphere where competition and the repetition of competitive challenges find their place. However, the existence of the market presupposes a legal and institutional framework, manifested through a set of laws, regulations, principles, and practices, thus inviting the State to participate, in a relationship where the market law becomes a matter for the State, sometimes in competition with other State entities.
In the global context, the uninterrupted presence of financial technology dominates, opening doors to new possibilities. The modern lex mercatorum operates in a globally undifferentiated and spatially de-qualified market, but still characterized by the political division into different States, aiming to overcome legal discontinuities and regulate uniformly the spatial deformity of territories, reconciling the needs of the stateless mercantile society with those of national States.
This situation introduces a dilemma between universality and multiplicity, renewing the concept of nomos, which no longer identifies with the unification of law and territory, but reflects the interdependence and independence of actors from the State, highlighting a permanent friction between States and markets. Consequently, the law finds itself weakened between the limited territoriality of norms and the universality of economic relations, challenging the old narratives of State.
This new dynamic sets Earth and Sea as symbols of the different potentialities of existence and contrasting scenarios of human history, where the Earth is seen as the mother of law and the Sea as a domain free from juridical and spatial boundaries, symbolizing infinite freedom.
Finally, the ancient act of land occupation, nomos, clashes with the universalism of economic exchanges, leading to the necessity of a new legal category that can rationalize the chaotic space of globalization. This need leads to the conception of a law that transcends terrestrial constraints, offering new perspectives to regulate the vast and indeterminate space of major economic exchanges, with technology emerging as a regulating principle. In this scenario, the law adapts to regulate the digital and transnational economy, challenging the traditional opposition between territorial law and global economy.
The rhetorical figure of the owl associated with Minerva is often invoked to attribute to Hegel and his philosophical thought a belated, almost posthumous role: that of intervening in reality only to confirm and ratify events that have already occurred. In this interpretation, Hegel’s philosophy would be reduced to an ideology that retroactively legitimizes what has already happened, thus representing a historical narrative written by the victors, emerging at twilight similarly to the appearance of an owl.
However, Hegel’s assertion that “what is real is rational, and what is rational is real” invites us to view the present through a conceptual lens, allowing the intellect to become an active agent in shaping reality. Consequently, the symbolism of the owl should not be interpreted as mere legitimization of the existing state of affairs, but rather as a call for thought to embark on a gradual and profound process of understanding, in order to mould the future. The task of conceptual elaboration thus proves essential for mediating and resolving conflicts, organizing them into a dynamic unity that, despite its cohesion, does not erase the distinctive peculiarities of each position.
Hegel thus emerges as the architect of thoughtful mediation, strongly opposing any attempt at immediate or superficial solutions. He criticizes the pursuit of intuitive and spontaneous genius, as well as rejects any form of mystical ecstasy or charisma, abhorring the presumption of those who claim to be direct spokespersons of divinity or interpreters of the absolute through altered states of consciousness. Dialectics, for Hegel, is precisely that method of thought capable of organizing and synthesizing conflict through careful and gradual elaboration, merging universality with the vital needs of every single component.

 

 

 

 

 

Discorso sull’origine e i fondamenti della diseguaglianza
tra gli uomini

di Jean-Jacques Rousseau

Un terreno recintato e la società civile

 

 

 

 

Jean-Jacques Rousseau, nel suo Discorso sull’origine e i fondamenti della diseguaglianza tra gli uomini, pubblicato nel 1755, esamina le radici profonde e le conseguenze della diseguaglianza umana, presentando una critica serrata alle società moderne, basate sulle istituzioni e sulla proprietà privata. Quest’opera si distingue quale uno dei testi fondamentali nella storia della filosofia politica e sociale, proponendo una riflessione profonda che interpella ancora oggi il lettore su temi di bruciante attualità.
Il Discorso è stato scritto in un’epoca di grande fermento intellettuale, il cosiddetto “secolo dei Lumi”, durante il quale in Europa si principiò a mettere in discussione le strutture tradizionali del sapere e del potere. Rousseau si inserisce in questo dibattito con una posizione originale e spesso in contrasto con altri pensatori illuministi, come Voltaire e Diderot, critici nei suoi confronti. Il suo pensiero si fa portavoce di un ritorno alla natura e alla semplicità originaria dell’uomo, concetti che prefigurano i temi romantici e rivoluzionari successivi.
Il trattato è diviso in due parti principali. Nella prima, è descritto lo stato di natura dell’uomo, un periodo ideale in cui gli individui vivevano isolati, pacifici e in armonia con la natura, liberi da bisogni artificiali e dalla corruzione morale. Questa condizione utopica è segnata da una perfetta eguaglianza tra gli uomini, in netto contrasto con lo stato attuale. Nella seconda parte, è analizzato come l’umanità sia passata da questo stato di natura a quello di società civile. “Il primo uomo che, avendo recinto un terreno, ebbe l’idea di proclamare questo è mio, e trovò altri così ingenui da credergli, costui è stato il vero fondatore della società civile. Quanti delitti, quante guerre, quanti assassinii, quante miserie, quanti orrori avrebbe risparmiato al genere umano colui che, strappando i pali o colmando il fosso, avesse gridato ai suoi simili: «Guardatevi dall’ascoltare questo impostore; se dimenticherete che i frutti sono di tutti e che la terra non è di nessuno, sarete perduti!»”, scrive Rousseau, ponendo l’accento sul ruolo della proprietà privata come origine principale delle diseguaglianze: con l’accumulo e la delimitazione della proprietà, si sviluppano invidia, competizione e, di conseguenza, il governo e le leggi come mezzi di protezione delle ricchezze acquisite. Questa transizione segna per Rousseau la perdita dell’originaria libertà e uguaglianza, dando vita a un’infelicità diffusa e a conflitti continui.
Uno dei pilastri filosofici del Discorso è proprio la riflessione su come la proprietà privata sia la radice delle diseguaglianze. Rousseau sostiene che, con la sua introduzione, gli esseri umani siano diventati competitivi, gelosi e aggressivi. Questa idea ha influenzato le successive teorie filosofiche e politiche, ponendo le basi per le discussioni moderne sul capitalismo e sul comunismo.


Rousseau, poi, esamina la relazione tra libertà individuale e accettazione del potere politico, interrogandosi sulla legittimità delle istituzioni che privano l’individuo della libertà a favore dell’ordine sociale. Questo dibattito, tra l’altro, è fondamentale nella storia della filosofia politica e continua a influenzare il pensiero liberale e democratico.
Il filosofo ginevrino è chiaro nel distinguere le diseguaglianze naturali (di forza o intelligenza) da quelle sociali, che derivano da convenzioni umane, come la legge e la proprietà. La sua opera spinge anche a riflettere su come le strutture sociali modellino e, talvolta, distorcano le relazioni umane.
Sebbene Rousseau sia stato un filosofo dell’Illuminismo, molte sue idee conducono una critica radicale del concetto di progresso tecnologico e culturale che altri suoi contemporanei celebravano. Infatti, vede proprio nel progresso la causa di nuove diseguaglianze e dipendenze, una visione che prefigura le moderne critiche al neoliberismo e alla globalizzazione. La sua visione di un’armonia perduta tra l’uomo e la natura è diventata un riferimento per i movimenti ecologisti, mentre la sua critica delle diseguaglianze alimenta il dibattito sulla redistribuzione delle risorse e sulla giustizia economica.
L’analisi di Rousseau, quindi, invita a una riflessione critica sulle basi stesse delle nostre società moderne. Egli suggerisce che le diseguaglianze non siano un inevitabile prodotto naturale ma il risultato di scelte politiche e sociali, spesso radicate in istituzioni ingiuste. La sua critica alla proprietà privata e il suo ideale di un ritorno a uno stato più naturale e egualitario continuano a influenzare le discussioni contemporanee su giustizia sociale, diritti umani e ambientalismo.
Nel Discorso, Rousseau non solo traccia un ritratto critico dell’evoluzione sociale dell’umanità ma pone anche le fondamenta per una filosofia della libertà e dell’eguaglianza. Le sue considerazioni filosofiche e sociali continuano a essere di straordinaria attualità, sfidando le nostre concezioni di giustizia, potere e umanità. La sua opera, quindi, rimane una lettura essenziale per chiunque sia interessato a comprendere le radici filosofiche delle diseguaglianze sociali ed economiche.
La capacità di Rousseau di connettere la filosofia con le questioni sociali concrete rende il suo lavoro immortale, provocatorio e profondamente umano, offrendo spunti di riflessione validi ancora oggi, in un’epoca in cui le diseguaglianze continuano a essere al centro del dibattito politico e sociale globale.

 

 

 

La filosofia inglese e le sue leggi “concrete”

 

Perché gli inglesi hanno dominato il mondo per almeno quattro secoli

 

di

Riccardo Piroddi

 

 

Gli inglesi, per quel che concerne la storia del pensiero, si sono distinti dagli altri popoli europei, antichi e moderni, a causa di quella impronta, ad essi del tutto peculiare, tendenzialmente antimetafisica ed essenzialmente pragmatica. A scorrere rapidamente quella storia, infatti, ciò può essere facilmente notato: quando il Medioevo volgeva ormai al termine, mentre nelle scuole del resto d’Europa i dotti erano ancora impelagati nelle dispute scolastiche sulle prove dell’esistenza di Dio, sugli universali, sulla Trinità e sui quodlibeta, Roger Bacon, filosofo, scienziato e mago, il doctor mirabilis (dottore dei miracoli), fondava la gnoseologia empirica, secondo la quale l’esperienza sia il vero e unico mezzo per acquisire conoscenza del mondo. Tre erano, secondo il filosofo, i modi con cui l’uomo potesse comprendere la verità: con la conoscenza interna, data da Dio tramite l’illuminazione; con la ragione, la quale, però, non è bastevole, e, infine, con l’esperienza sensibile, ovvero tramite i cinque sensi, il non plus ultra di cui esso possa disporre e che gli consente di avvicinarsi alla reale conoscenza delle cose. Il frate francescano William of Ockham, il doctor invincibilis (dottore invincibile), con il suo famosissimo rasoio, semplificò al massimo la spiegazione dei fenomeni, mostrando l’inutilità di moltiplicare le cause e di introdurre enti al di là della fisica: “Frustra fit per plura, quod fieri potest per pauciora” (è inutile fare con più, ciò che si può fare con meno). Francis Bacon, il filosofo dell’adagio “Sapere è potere”, padre della rivoluzione scientifica e del metodo scientifico nell’osservazione e nello studio dei fenomeni attraverso l’induzione, meglio definita e rinnovata rispetto a quella aristotelica, fu avversatore dei pregiudizi, da lui chiamati idola (idoli o immagini), che impedivano la reale conoscenza e intelligenza della natura, e fu ispiratore di un’altra grande mente inglese, Isaac Newton, lo scienziato-osservatore empirico per eccellenza. Thomas Hobbes diede spiegazione a tutti gli aspetti della realtà col suo materialismo meccanicistico, annullando la res cogitans (sostanza pensante) di Cartesio e il suo ambiguo rapporto con la res extensa (sostanza materiale), retroterra sul quale basò la sua concezione della natura umana, della condizione di guerra di tutti contro tutti (l’homo homini lupus), del patto di unione e del patto di società, dai quali sarebbero poi nati, rispettivamente, la civiltà e, attraverso la rinuncia da parte di ogni uomo al suo diritto su tutto e la cessione di questo al sovrano, lo Stato, il Leviathan (Leviatano). John Locke, l’empirista, l’autore di An essay concerning human under standing (Saggio sull’intelletto umano), sosteneva che tutta la conoscenza umana derivasse dai sensi. Indagò le idee e i processi conoscitivi della mente, criticando l’innatismo cartesiano e leibniziano e, tra l’altro, fu strenuo propugnatore del liberalismo politico e della tolleranza religiosa. David Hume, l’estremo dell’empirismo inglese, asseriva, come Locke, che la conoscenza non fosse innata, ma scaturisse dall’esperienza. Egli negò sia la sostanza materiale che quella spirituale, tutto riducendo a sensazione e stato di coscienza. Demolì il concetto di causa, ritenendolo mero costume della mente, suscitato dall’abitudine, e postulò, quali conoscenze universali e necessarie, soltanto quelle della geometria, dell’algebra e dell’aritmetica. Adam Smith, filosofo ed economista, teorizzò l’idea che la concorrenza tra vari produttori e consumatori avrebbe generato la migliore distribuzione possibile di beni e servizi, poiché avrebbe incoraggiato gli individui a specializzarsi e migliorare il loro capitale, in modo da produrre più valore con lo stesso lavoro. E, infine, l’Utilitarismo di Jeremy Bentham e John Stuart Mill prima, con tutte le implicazioni morali (o moralmente inglesi), legate ai concetti di “utile” e di “felicità“, e quello di Henry Sidgwick, poi, col suo edonismo etico, mediante il quale aggiunse importanti precisazioni ai concetti dell’utilitarismo classico. Queste riflessioni filosofiche hanno certo corrispettivo pratico allorquando si osservano attentamente tutte le sfaccettature dell’English way of life e dei princìpi che, ancora oggi, lo animano. Il motivo per cui gli inglesi, fino a circa settant’anni fa, hanno realmente dominato il mondo (basti pensare al British Empire e al Commonwealth), ha le proprie basi nel pragmatismo che, dal 1200 in poi, ha caratterizzato le sue classi intellettuali e, di riflesso, quelle deputate all’azione. Un popolo non condizionato dalla religione, come lo sono stati, dal Medioevo alle soglie dell’età contemporanea, la maggior parte dei Paesi cattolici europei, libero di sottomettere altre genti, che non ha combattuto in nome di Dio ma degli uomini, era destinato ad avere il ruolo che ha avuto e che ancora ha. Del resto, negli stessi anni in cui un bardo venuto dalle Midlands incantava gli spettatori del Globe Theatre a Londra, mettendo in scena l’amore tra Romeo e Giulietta, la filosofia dell’essere e del non essere e la gelosia di Otello, la regina Elisabetta I nominava baronetto il più astuto e lesto pirata della storia: sir Francis Drake!

 

Sir Francis Bacon (1561-1626)

 

Pubblicato l’1 aprile 2017 su La Lumaca