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La società aperta e i suoi nemici
di Karl Popper

Il manifesto razionale di libertà

 

 

 

 

La società aperta e i suoi nemici, pubblicata da Karl Popper in due volumi, tra il 1943 e il 1945, presenta una critica radicale al totalitarismo e difende con passione il valore delle società democratiche e liberali. La sua analisi si estende attraverso la filosofia, la storia e la politica, rendendola una pietra miliare nel pensiero del XX secolo.
Il testo fu redatto durante gli anni della Seconda guerra mondiale. Popper stesso, originario di Vienna e di famiglia ebraica, visse gli orrori del totalitarismo nazista prima di fuggire in Nuova Zelanda, dove poi scrisse l’opera. Il contesto storico è fondamentale per comprendere l’urgenza e l’impeto con cui l’Autore attacca quelle teorie filosofiche che, secondo lui, avevano pavimentato la via ai regimi totalitari.
Il filosofo descrive la società aperta come un sistema sociale caratterizzato dalla flessibilità, dalla capacità di auto-correzione e dal governo attraverso decisioni consensuali piuttosto che coercitive. La società aperta promuove l’innovazione e il cambiamento continuo, incoraggiando il dibattito, la critica e la diversità di opinioni. La sua essenza sta nell’abilità degli individui di vivere senza imposizioni da parte dell’autorità e di partecipare attivamente alla formazione delle politiche pubbliche. Per meglio comprendere la società aperta è utile considerare il suo opposto: la società chiusa. Questa è caratterizzata da strutture statiche e gerarchiche, dove il cambiamento è percepito come una minaccia all’ordine sociale stabilito. Le società chiuse spesso mitizzano il passato e aderiscono a ideologie rigidamente deterministiche, che giustificano il controllo autoritario e la limitazione delle libertà individuali. Popper vede tali caratteristiche proprio nei regimi totalitari del suo tempo, che sfruttano tali ideologie per sopprimere il dissenso e mantenere il potere.
Il filosofo critica aspramente le teorie storico-deterministiche di Platone, Hegel e Marx, accusandoli di essere “nemici” della società aperta, a causa delle loro visioni utopiche e totalitarie, che sostengono una inevitabile marcia verso determinati ideali politici, giustificando così il sacrificio degli individui per obiettivi collettivi supposti. Egli sostiene che questa visione della storia sia scientificamente infondata e pericolosamente vicina a giustificare i peggiori eccessi dei regimi autoritari. La storia, al contrario, è fatta di scelte imprevedibili e l’azione umana è caratterizzata da una responsabilità morale individuale, non da traiettorie prefissate. Per questo, propone ciò che chiama “razionalismo critico”, un approccio che valorizza la discussione aperta e il miglioramento incrementale della società attraverso la scienza e la critica piuttosto che con rivoluzioni violente.
Popper stigmatizza Platone per il suo idealismo e la sua teoria dello Stato governato da filosofi-re, che giudica come l’antitesi della democrazia. Il modello platonico promuove una società chiusa e statica, dove il cambiamento è inteso quale corruzione dell’ordine ideale. Attacca Hegel per il suo orientamento assolutista e la sua filosofia della storia, che presenta uno sviluppo dialettico verso uno stato finale di libertà assoluta, riscontrandovi addirittura l’antecedente ideologico del nazionalsocialismo tedesco e del fascismo italiano, valutazione che si estende anche a teorie che predicono inevitabili conclusioni storiche, compreso il marxismo. Anche riconosce in Marx un’intenzione morale di migliorare le condizioni delle classi lavoratrici, disapprova il suo determinismo economico, sostenendo che, nonostante le sue intenzioni, finisca per fornire una giustificazione filosofica all’autocrazia rivoluzionaria, che si presume agisca nel nome dell’inevitabile marcia della storia verso il comunismo.La parte conclusiva dell’opera è dedicata alla difesa della società aperta, che Popper identifica con la democrazia liberale, interpretata non solo come un sistema politico, ma come ethos culturale che valorizza la libertà individuale, il pluralismo e il cambiamento progressivo attraverso metodi pacifici e razionali. La democrazia liberale è innanzitutto un processo. Non è statica né definita da una particolare configurazione istituzionale, ma è un sistema dinamico che consente il cambiamento e l’adattamento. Il filosofo critica le visioni utopiche che vedono la politica come ricerca di un ordine ideale e immutabile. Al contrario, asserisce che la società aperta sia caratterizzata da “una disposizione a imparare dall’errore”, qualità che permette alle società democratiche liberali di correggersi e migliorarsi continuamente. Eleva il concetto di tolleranza a principio fondamentale della società aperta, pur avvertendo contro il “paradosso della tolleranza”: infatti, la tolleranza illimitata può portare alla distruzione della tolleranza stessa, se si permette ai tolleranti di sfruttare la libertà offerta per sopprimere i diritti altrui. In una società aperta, la tolleranza richiede un equilibrio attivo, a cui i limiti sono posti per prevenire l’ascesa di forze intolleranti e autoritarie. Un aspetto risolutivo della democrazia liberale è costituito dall’importanza del disaccordo e del dibattito aperto. Popper sostiene che il progresso scientifico e sociale si verifichi per mezzo di un costante processo di congettura e confutazione, dove le teorie sono proposte, testate e spesso confutate. Analogamente, la democrazia deve operare attraverso un dialogo aperto e critico, in cui le politiche sono proposte, discusse e modificate in risposta ai giudizi e ai cambiamenti delle circostanze. Infine, pone una forte enfasi sui diritti individuali quale fondamento della democrazia liberale. La loro protezione non è solo una questione di giustizia legale o morale ma è essenziale per la creazione di un ambiente in cui gli individui possono pensare, esprimersi e agire senza paura di repressione, considerando ciò essenziale per il mantenimento di una società aperta e per il progresso continuo verso una migliore condizione umana.
La società aperta e i suoi nemici, quindi, non è solo un testo di filosofia politica, ma anche un appello accorato alla vigilanza e alla responsabilità individuale nelle società democratiche. L’analisi di Popper rimane estremamente rilevante oggi, in un’epoca in cui le democrazie sono nuovamente messe alla prova da forze autoritarie e populiste. La sua visione della società aperta offre un quadro prezioso per comprendere e affrontare le sfide contemporanee nel mondo politico e sociale. In un’era di crescente polarizzazione, populismo e attacchi alle istituzioni democratiche, il modello di società aperta di Popper serve come promemoria dell’importanza di mantenere e difendere i principi di apertura, tolleranza e dialogo democratico. La sua teoria rimane un potente strumento analitico per i difensori della libertà e della democrazia in tutto il mondo, esortando a non dare mai per scontata quella libertà e a combattere continuamente per la trasparenza, la comprensione e il dialogo, pilastri di ogni società veramente aperta.

 

 

 

 

State, sovereignty, law and economics
in the era of globalization

 

 

 

Taken from my lectures as a Teaching Fellow in International Law, these reflections highlight how State sovereignty and International Law are profoundly influenced by globalization, economic integration and digital technologies, raising fundamental questions about global governance, State autonomy and the adaptation of legal structures to new economic and technological realities.

 

Part VII

International Law and Tax Law

 

 

The process of conflict mediation emerges as a daunting challenge at the nexus of law and politics, embarking on a journey through duality and transformation. This text is imbued with deep reflections on the genesis of legal systems: every stable structure springs from chaos, perpetually sailing on the turbulent waters of uncertainty and potential dissolution. The figure of Janus, the Roman god with two faces looking towards both past and future, symbolizes this endless transition between creation and destruction, order and chaos, the internal and the external. Law, akin to Janus, embraces this essential duality, delving into the dynamics of construction and deconstruction, and contrasting warfare with peace, justice with force, State with territory, and politics with economy. “Janus in the mirror” mirrors the complex self-examination of law, challenging static perception and inviting to a fourfold reflection. This duality extends to the sovereignty of States, transformed and expanded beyond national boundaries by technology, suggesting a new understanding of space and territoriality in the digital age. The relationship between “de-nomosized” spaces and those to be “re-nomosized” reveals an ongoing dialogue between past and future, highlighting the need for a balance between tradition and innovation in law.
The sovereignty of a State, characterized by its capacity to autonomously regulate other wills within a given territory, is confronted with the challenges of globalization and power sharing. Legislation, inherently linked to State sovereignty, becomes a battleground between traditional exercises of power and the pressures of globalization, which reshape the coordinates of political and legal space. The progressive erosion of State sovereignty, catalysed by global interconnectedness and supranational dynamics, questions the very foundations of State power. In this context, new forms of cooperation and governance emerge, requiring a rethinking of traditional norms and principles in favour of a more inclusive and multilateral approach, reflecting the complexity of international and transnational relationships in an interconnected world.
The concept of fiscal sovereignty, understood as the State’s capacity to levy taxes within its territorial borders and as an expression of independence in international relations, reflects the complexity of global economic dynamics. The distinction between the power of taxation tied to territory and the transnational nature of investments raises fundamental questions about the regulation and application of fiscal laws. With the expansion of international trade, there is a highlighted need to adapt fiscal regulations to the realities of a globalized economy, recognizing both the territorial limits of the State and its ability to influence economic situations beyond its borders. This debate on the extraterritorial character of tax discipline underscores the importance of finding a balance between national sovereignty and international cooperation in the era of globalization.
The context of international law is characterized by its intricate web of rules, distinguished by the diversity of their sources and a substantive consistency in their aims. This framework reflects the sovereignty of each nation, seen as an autonomous and sovereign entity, particularly in the context of tax legislation, where the principle of exclusive territorial jurisdiction prevails.
Despite this, there is no unified body of laws governing international tax matters between States. Instead, tax law and international law merge to facilitate the harmonious coexistence of States, considered equal in their right to exercise sovereignty and in maintaining their supreme authority. This integration is based on international cooperation to resolve disputes between different tax jurisdictions, driven by global interaction and economic relations.
Thus, the concept of international tax law relies on conventions against double taxation in the absence of direct tax imposition. This branch of law, unlike private international law, does not aim to resolve discrepancies between laws but rather to manage conflicts between different fiscal claims. International tax treaties seek to limit the legislative power of States to mitigate instances of double taxation, with each State agreeing to relinquish a portion of its taxation right in favour of the other, based on principles of reciprocity and mutually agreed arrangements.
On the other hand, supranational tax law is distinguished by being issued by entities that override States, such as international organizations with their own legal personality, significantly broadening the scope of application compared to convention-based tax law. While the latter focuses primarily on preventing double taxation, supranational law can directly regulate the substance of tax laws, deeply influencing national legislations.
A prime example is the tax law of the European Union, which highlights the EU’s supremacy over its member States and whose impact on national laws is widely recognized. However, this does not necessarily imply a divergence between international tax law and EU law. Community law integrates into national legal systems through a process of adoption based on the founding treaties of the EU, thus highlighting its uniqueness and its particular effect on national legal systems, while remaining part of the broader context of international tax law.

 

 

 

 

State, sovereignty, law and economics
in the era of globalization

 

 

 

Taken from my lectures as a Teaching Fellow in International Law, these reflections highlight how State sovereignty and International Law are profoundly influenced by globalization, economic integration and digital technologies, raising fundamental questions about global governance, State autonomy and the adaptation of legal structures to new economic and technological realities.

 

Part VI

On Hegel again

 

The market narrative transforms into a tale of synchronism, capturing the temporal reality of individuals and propelling them into an electronic and offshore dimension where spatial and State boundaries dissolve. This process occurs in a context where anchorage becomes purely formal on a legal level and deeply meaningful economically. At the heart of market dynamics lies its very essence, outlined by a sphere where competition and the repetition of competitive challenges find their place. However, the existence of the market presupposes a legal and institutional framework, manifested through a set of laws, regulations, principles, and practices, thus inviting the State to participate, in a relationship where the market law becomes a matter for the State, sometimes in competition with other State entities.
In the global context, the uninterrupted presence of financial technology dominates, opening doors to new possibilities. The modern lex mercatorum operates in a globally undifferentiated and spatially de-qualified market, but still characterized by the political division into different States, aiming to overcome legal discontinuities and regulate uniformly the spatial deformity of territories, reconciling the needs of the stateless mercantile society with those of national States.
This situation introduces a dilemma between universality and multiplicity, renewing the concept of nomos, which no longer identifies with the unification of law and territory, but reflects the interdependence and independence of actors from the State, highlighting a permanent friction between States and markets. Consequently, the law finds itself weakened between the limited territoriality of norms and the universality of economic relations, challenging the old narratives of State.
This new dynamic sets Earth and Sea as symbols of the different potentialities of existence and contrasting scenarios of human history, where the Earth is seen as the mother of law and the Sea as a domain free from juridical and spatial boundaries, symbolizing infinite freedom.
Finally, the ancient act of land occupation, nomos, clashes with the universalism of economic exchanges, leading to the necessity of a new legal category that can rationalize the chaotic space of globalization. This need leads to the conception of a law that transcends terrestrial constraints, offering new perspectives to regulate the vast and indeterminate space of major economic exchanges, with technology emerging as a regulating principle. In this scenario, the law adapts to regulate the digital and transnational economy, challenging the traditional opposition between territorial law and global economy.
The rhetorical figure of the owl associated with Minerva is often invoked to attribute to Hegel and his philosophical thought a belated, almost posthumous role: that of intervening in reality only to confirm and ratify events that have already occurred. In this interpretation, Hegel’s philosophy would be reduced to an ideology that retroactively legitimizes what has already happened, thus representing a historical narrative written by the victors, emerging at twilight similarly to the appearance of an owl.
However, Hegel’s assertion that “what is real is rational, and what is rational is real” invites us to view the present through a conceptual lens, allowing the intellect to become an active agent in shaping reality. Consequently, the symbolism of the owl should not be interpreted as mere legitimization of the existing state of affairs, but rather as a call for thought to embark on a gradual and profound process of understanding, in order to mould the future. The task of conceptual elaboration thus proves essential for mediating and resolving conflicts, organizing them into a dynamic unity that, despite its cohesion, does not erase the distinctive peculiarities of each position.
Hegel thus emerges as the architect of thoughtful mediation, strongly opposing any attempt at immediate or superficial solutions. He criticizes the pursuit of intuitive and spontaneous genius, as well as rejects any form of mystical ecstasy or charisma, abhorring the presumption of those who claim to be direct spokespersons of divinity or interpreters of the absolute through altered states of consciousness. Dialectics, for Hegel, is precisely that method of thought capable of organizing and synthesizing conflict through careful and gradual elaboration, merging universality with the vital needs of every single component.

 

 

 

 

 

Discorso sull’origine e i fondamenti della diseguaglianza
tra gli uomini

di Jean-Jacques Rousseau

Un terreno recintato e la società civile

 

 

 

 

Jean-Jacques Rousseau, nel suo Discorso sull’origine e i fondamenti della diseguaglianza tra gli uomini, pubblicato nel 1755, esamina le radici profonde e le conseguenze della diseguaglianza umana, presentando una critica serrata alle società moderne, basate sulle istituzioni e sulla proprietà privata. Quest’opera si distingue quale uno dei testi fondamentali nella storia della filosofia politica e sociale, proponendo una riflessione profonda che interpella ancora oggi il lettore su temi di bruciante attualità.
Il Discorso è stato scritto in un’epoca di grande fermento intellettuale, il cosiddetto “secolo dei Lumi”, durante il quale in Europa si principiò a mettere in discussione le strutture tradizionali del sapere e del potere. Rousseau si inserisce in questo dibattito con una posizione originale e spesso in contrasto con altri pensatori illuministi, come Voltaire e Diderot, critici nei suoi confronti. Il suo pensiero si fa portavoce di un ritorno alla natura e alla semplicità originaria dell’uomo, concetti che prefigurano i temi romantici e rivoluzionari successivi.
Il trattato è diviso in due parti principali. Nella prima, è descritto lo stato di natura dell’uomo, un periodo ideale in cui gli individui vivevano isolati, pacifici e in armonia con la natura, liberi da bisogni artificiali e dalla corruzione morale. Questa condizione utopica è segnata da una perfetta eguaglianza tra gli uomini, in netto contrasto con lo stato attuale. Nella seconda parte, è analizzato come l’umanità sia passata da questo stato di natura a quello di società civile. “Il primo uomo che, avendo recinto un terreno, ebbe l’idea di proclamare questo è mio, e trovò altri così ingenui da credergli, costui è stato il vero fondatore della società civile. Quanti delitti, quante guerre, quanti assassinii, quante miserie, quanti orrori avrebbe risparmiato al genere umano colui che, strappando i pali o colmando il fosso, avesse gridato ai suoi simili: «Guardatevi dall’ascoltare questo impostore; se dimenticherete che i frutti sono di tutti e che la terra non è di nessuno, sarete perduti!»”, scrive Rousseau, ponendo l’accento sul ruolo della proprietà privata come origine principale delle diseguaglianze: con l’accumulo e la delimitazione della proprietà, si sviluppano invidia, competizione e, di conseguenza, il governo e le leggi come mezzi di protezione delle ricchezze acquisite. Questa transizione segna per Rousseau la perdita dell’originaria libertà e uguaglianza, dando vita a un’infelicità diffusa e a conflitti continui.
Uno dei pilastri filosofici del Discorso è proprio la riflessione su come la proprietà privata sia la radice delle diseguaglianze. Rousseau sostiene che, con la sua introduzione, gli esseri umani siano diventati competitivi, gelosi e aggressivi. Questa idea ha influenzato le successive teorie filosofiche e politiche, ponendo le basi per le discussioni moderne sul capitalismo e sul comunismo.


Rousseau, poi, esamina la relazione tra libertà individuale e accettazione del potere politico, interrogandosi sulla legittimità delle istituzioni che privano l’individuo della libertà a favore dell’ordine sociale. Questo dibattito, tra l’altro, è fondamentale nella storia della filosofia politica e continua a influenzare il pensiero liberale e democratico.
Il filosofo ginevrino è chiaro nel distinguere le diseguaglianze naturali (di forza o intelligenza) da quelle sociali, che derivano da convenzioni umane, come la legge e la proprietà. La sua opera spinge anche a riflettere su come le strutture sociali modellino e, talvolta, distorcano le relazioni umane.
Sebbene Rousseau sia stato un filosofo dell’Illuminismo, molte sue idee conducono una critica radicale del concetto di progresso tecnologico e culturale che altri suoi contemporanei celebravano. Infatti, vede proprio nel progresso la causa di nuove diseguaglianze e dipendenze, una visione che prefigura le moderne critiche al neoliberismo e alla globalizzazione. La sua visione di un’armonia perduta tra l’uomo e la natura è diventata un riferimento per i movimenti ecologisti, mentre la sua critica delle diseguaglianze alimenta il dibattito sulla redistribuzione delle risorse e sulla giustizia economica.
L’analisi di Rousseau, quindi, invita a una riflessione critica sulle basi stesse delle nostre società moderne. Egli suggerisce che le diseguaglianze non siano un inevitabile prodotto naturale ma il risultato di scelte politiche e sociali, spesso radicate in istituzioni ingiuste. La sua critica alla proprietà privata e il suo ideale di un ritorno a uno stato più naturale e egualitario continuano a influenzare le discussioni contemporanee su giustizia sociale, diritti umani e ambientalismo.
Nel Discorso, Rousseau non solo traccia un ritratto critico dell’evoluzione sociale dell’umanità ma pone anche le fondamenta per una filosofia della libertà e dell’eguaglianza. Le sue considerazioni filosofiche e sociali continuano a essere di straordinaria attualità, sfidando le nostre concezioni di giustizia, potere e umanità. La sua opera, quindi, rimane una lettura essenziale per chiunque sia interessato a comprendere le radici filosofiche delle diseguaglianze sociali ed economiche.
La capacità di Rousseau di connettere la filosofia con le questioni sociali concrete rende il suo lavoro immortale, provocatorio e profondamente umano, offrendo spunti di riflessione validi ancora oggi, in un’epoca in cui le diseguaglianze continuano a essere al centro del dibattito politico e sociale globale.

 

 

 

La filosofia inglese e le sue leggi “concrete”

 

Perché gli inglesi hanno dominato il mondo per almeno quattro secoli

 

di

Riccardo Piroddi

 

 

Gli inglesi, per quel che concerne la storia del pensiero, si sono distinti dagli altri popoli europei, antichi e moderni, a causa di quella impronta, ad essi del tutto peculiare, tendenzialmente antimetafisica ed essenzialmente pragmatica. A scorrere rapidamente quella storia, infatti, ciò può essere facilmente notato: quando il Medioevo volgeva ormai al termine, mentre nelle scuole del resto d’Europa i dotti erano ancora impelagati nelle dispute scolastiche sulle prove dell’esistenza di Dio, sugli universali, sulla Trinità e sui quodlibeta, Roger Bacon, filosofo, scienziato e mago, il doctor mirabilis (dottore dei miracoli), fondava la gnoseologia empirica, secondo la quale l’esperienza sia il vero e unico mezzo per acquisire conoscenza del mondo. Tre erano, secondo il filosofo, i modi con cui l’uomo potesse comprendere la verità: con la conoscenza interna, data da Dio tramite l’illuminazione; con la ragione, la quale, però, non è bastevole, e, infine, con l’esperienza sensibile, ovvero tramite i cinque sensi, il non plus ultra di cui esso possa disporre e che gli consente di avvicinarsi alla reale conoscenza delle cose. Il frate francescano William of Ockham, il doctor invincibilis (dottore invincibile), con il suo famosissimo rasoio, semplificò al massimo la spiegazione dei fenomeni, mostrando l’inutilità di moltiplicare le cause e di introdurre enti al di là della fisica: “Frustra fit per plura, quod fieri potest per pauciora” (è inutile fare con più, ciò che si può fare con meno). Francis Bacon, il filosofo dell’adagio “Sapere è potere”, padre della rivoluzione scientifica e del metodo scientifico nell’osservazione e nello studio dei fenomeni attraverso l’induzione, meglio definita e rinnovata rispetto a quella aristotelica, fu avversatore dei pregiudizi, da lui chiamati idola (idoli o immagini), che impedivano la reale conoscenza e intelligenza della natura, e fu ispiratore di un’altra grande mente inglese, Isaac Newton, lo scienziato-osservatore empirico per eccellenza. Thomas Hobbes diede spiegazione a tutti gli aspetti della realtà col suo materialismo meccanicistico, annullando la res cogitans (sostanza pensante) di Cartesio e il suo ambiguo rapporto con la res extensa (sostanza materiale), retroterra sul quale basò la sua concezione della natura umana, della condizione di guerra di tutti contro tutti (l’homo homini lupus), del patto di unione e del patto di società, dai quali sarebbero poi nati, rispettivamente, la civiltà e, attraverso la rinuncia da parte di ogni uomo al suo diritto su tutto e la cessione di questo al sovrano, lo Stato, il Leviathan (Leviatano). John Locke, l’empirista, l’autore di An essay concerning human under standing (Saggio sull’intelletto umano), sosteneva che tutta la conoscenza umana derivasse dai sensi. Indagò le idee e i processi conoscitivi della mente, criticando l’innatismo cartesiano e leibniziano e, tra l’altro, fu strenuo propugnatore del liberalismo politico e della tolleranza religiosa. David Hume, l’estremo dell’empirismo inglese, asseriva, come Locke, che la conoscenza non fosse innata, ma scaturisse dall’esperienza. Egli negò sia la sostanza materiale che quella spirituale, tutto riducendo a sensazione e stato di coscienza. Demolì il concetto di causa, ritenendolo mero costume della mente, suscitato dall’abitudine, e postulò, quali conoscenze universali e necessarie, soltanto quelle della geometria, dell’algebra e dell’aritmetica. Adam Smith, filosofo ed economista, teorizzò l’idea che la concorrenza tra vari produttori e consumatori avrebbe generato la migliore distribuzione possibile di beni e servizi, poiché avrebbe incoraggiato gli individui a specializzarsi e migliorare il loro capitale, in modo da produrre più valore con lo stesso lavoro. E, infine, l’Utilitarismo di Jeremy Bentham e John Stuart Mill prima, con tutte le implicazioni morali (o moralmente inglesi), legate ai concetti di “utile” e di “felicità“, e quello di Henry Sidgwick, poi, col suo edonismo etico, mediante il quale aggiunse importanti precisazioni ai concetti dell’utilitarismo classico. Queste riflessioni filosofiche hanno certo corrispettivo pratico allorquando si osservano attentamente tutte le sfaccettature dell’English way of life e dei princìpi che, ancora oggi, lo animano. Il motivo per cui gli inglesi, fino a circa settant’anni fa, hanno realmente dominato il mondo (basti pensare al British Empire e al Commonwealth), ha le proprie basi nel pragmatismo che, dal 1200 in poi, ha caratterizzato le sue classi intellettuali e, di riflesso, quelle deputate all’azione. Un popolo non condizionato dalla religione, come lo sono stati, dal Medioevo alle soglie dell’età contemporanea, la maggior parte dei Paesi cattolici europei, libero di sottomettere altre genti, che non ha combattuto in nome di Dio ma degli uomini, era destinato ad avere il ruolo che ha avuto e che ancora ha. Del resto, negli stessi anni in cui un bardo venuto dalle Midlands incantava gli spettatori del Globe Theatre a Londra, mettendo in scena l’amore tra Romeo e Giulietta, la filosofia dell’essere e del non essere e la gelosia di Otello, la regina Elisabetta I nominava baronetto il più astuto e lesto pirata della storia: sir Francis Drake!

 

Sir Francis Bacon (1561-1626)

 

Pubblicato l’1 aprile 2017 su La Lumaca

 

State, sovereignty, law and economics
in the era of globalization

 

 

 

Taken from my lectures as a Teaching Fellow in International Law, these reflections highlight how State sovereignty and International Law are profoundly influenced by globalization, economic integration and digital technologies, raising fundamental questions about global governance, State autonomy and the adaptation of legal structures to new economic and technological realities.

 

Part V

Sovereignty’s contexts

 

The territorial dimension characterizes and shapes the exercise of national sovereignty, outlining its foundational principles, strategies, and actions. It establishes the contexts in which sovereignty is manifested, implemented, or denied, in relation to the territorial realms of other nations. This dynamic of inclusion and exclusion, traditionally depicted through the dichotomy of “inside” versus “outside” (“in” versus “out”), emerges as the central issue. Here, “in” represents the activation of jurisprudence while “out” symbolizes the deactivation of economic dynamics, a suspension of State supremacy in relation to that similarly exercised by another State. However, this switching state (“on/off”) presents itself as almost a given mechanic, theoretically obvious but sometimes complex in practice, with reference to specific territorial areas delineated by borders. Conversely, in the homogenizing context of globalization: 1) the perception of limit, boundary, and territorial demarcation typical of the nation-State fades away, ceasing to be a reference point; 2) the conception of space expands, encompassing the entire planet and its surface. As a result, the world globe loses the distinctive colours of nations, fading under the visual effect created by the electronic whirlwind. The uniform non-colour of the market prevails, dominating with its monochromatic financial tone, and with the dissolution of territoriality as the organizing principle of the economy, it becomes unnatural for economic activities conducted on a global scale to depend on the nation-State framework. States, with increasingly indistinct borders, find themselves in a paradoxical condition: though not openly acknowledging it, they realize they are too small and inadequate for handling global phenomena, yet at the same time too large and sometimes not suitable for addressing local issues.


Economic power, by its nature and generally, appears indifferent to the space defined by political power: the former aspires to an unlimited spatial conception, while the latter is based on the premise of a limited space within which to exert influence. This does not imply that economic development should occur in a rule-free context, but rather that it can be facilitated by supranational institutions, which promote expansion beyond traditional national borders. The legal norm, the expression of a will impervious to conflict or competition, manifests the so-called “dominion power” of the State over the territory and the tangible. The relocation of a significant portion of economic relationships into an “a-spatial domain” de facto erodes the authority of national States and limits their territorial legal capacity. This phenomenon effectively establishes the right to choose one’s own legal system. The absence of universally recognized principles lays the groundwork for the governance of globalization actors: subjects operating in abstract relations from territorial contexts, on free paths, and without tangible physicality, within spaceless networks. This “requires a new law of spaces,” a blend of interstate, abstract, and artificial normativity. This, closely allied with technical and economic artificiality, implemented through interstate agreements, capable of adapting to any spatial configuration, represents the only effective method for addressing global issues through law. Here, the focus is on artificial normativity: 1) developed at the State level but expanded and enhanced through interstate agreements; 2) predestined to chase global phenomena and borderless markets, ubiquitous in the network; 3) aimed at unleashing an action potential equivalent to the breadth of global exchanges and mediating between territoriality and spatiality on a legal plane. In this context, “what predominates are not international conventions of uniform law”; rather, “the predominant element is the international circulation of standardized contractual models,” whose function as flexible and meta-national instruments is to consolidate the unity of law within the global market’s entirety.

 

 

 

 

Utopia di Thomas More

L’isola che non c’è

 

 

 

Utopia, pubblicata nel 1516 da Thomas More, è un’opera che non solo ha introdotto un nuovo genere letterario, quello della letteratura utopica, ma ha anche offerto uno spaccato profondo delle tensioni politiche e filosofiche del Cinquecento inglese ed europeo. Attraverso la descrizione di un’isola immaginaria e della sua società ideale, More esplora temi di giustizia sociale, organizzazione politica e morale individuale.
L’Autore scrive Utopia nel contesto dell’Inghilterra del XVI secolo, un periodo di grandi cambiamenti e di instabilità politica. L’Europa è attraversata dalle prime ondate di Riforma protestante e dalla dissoluzione dei monopoli ecclesiastici, mentre i regni si trovano a navigare le complesse dinamiche del capitalismo nascente. In questo quadro, More, uomo di legge e Lord Cancelliere sotto Enrico VIII, propone un modello di convivenza che critica tanto le monarchie assolute quanto le tensioni economiche prodotte dall’emergente mercantilismo.
Il libro è diviso in due parti: la prima contiene una critica pungente delle politiche europee dell’epoca, specialmente quelle inglesi, mentre la seconda descrive l’isola di Utopia. Questa divisione riflette la doppia visione di More che, da un lato, denuncia le ingiustizie del suo tempo e, dall’altro, propone un modello alternativo basato su principi di equità e comunanza delle risorse.
Utopia è rappresentata come una società che ha abolito la proprietà privata, dove i beni sono condivisi e l’avidità è vista come un vizio non solo morale ma anche sociale. Il lavoro è obbligatorio per tutti, garantendo che nessuno possa accumulare ricchezze a discapito di altri. More introduce anche un sistema educativo avanzato e inclusivo, mirato al miglioramento morale oltre che intellettuale.
L’opera è ricca di implicazioni filosofiche che non solo delineano una critica sociale, ma invitano anche a un esame delle basi etiche e dei principi su cui si potrebbe costruire una società ideale.
La nozione di bene comune è centrale in Utopia. More immagina una società dove la proprietà privata non esista; tutti i beni sono di proprietà comune e gestiti dallo Stato. Ciò elimina non solo la povertà, ma anche l’invidia e il crimine che, secondo l’Autore, sono spesso prodotti dalla disuguaglianza economica. Questa visione utopica riflette influenze platoniche, in particolare l’idea della proprietà comune tra i guardiani nel dialogo Repubblica. More utilizza questo modello per criticare le ingiustizie del capitalismo nascente, proponendo un’alternativa radicale che oggi potremmo associare al comunismo utopico.


Il lavoro, poi, è obbligatorio per tutti i cittadini e si basa su un’etica che valorizza il contributo individuale al bene comune. Questo non solo assicura che ogni individuo contribuisca alla società, ma promuove anche un senso di solidarietà e cooperazione. L’obbligo di lavorare riduce la dipendenza da servitù o schiavitù, concetti molto presenti nell’Europa del XVI secolo. La visione di More sul lavoro come dovere sociale e fonte di realizzazione individuale anticipa discussioni moderne sull’etica del lavoro e sul suo ruolo nell’autorealizzazione.
L’approccio di More alla legalità è notevolmente progressista. Le leggi sono poche e semplici, progettate per essere facilmente comprensibili da tutti i cittadini, evitando così la corruzione e l’abuso di potere, che spesso accompagnano sistemi legali complessi e arcuati. Inoltre, il sistema giuridico di Utopia è orientato più alla prevenzione del crimine e alla rieducazione del criminale che non al suo semplice castigo. Questa visione riformista della legge come strumento di giustizia sociale riflette le idee dell’Autore sulla moralità applicata alla legislazione, dove le pene severe sono rare e considerate contrarie all’etica della rieducazione.
More, inoltre, propone un modello di tolleranza religiosa che è eccezionale per il suo tempo. L’isola accoglie una varietà di credenze religiose e i conflitti teologici sono risolti attraverso il dialogo e la persuasione piuttosto che la coercizione. Questo pluralismo non solo critica la tendenza dell’Europa coeva di risolvere le differenze religiose attraverso la violenza, ma propone anche un modello di coesistenza pacifica che prefigura le moderne società laiche.
Le proposte di More, pertanto, sebbene idealizzate, fungono da critica alle strutture di potere del suo tempo e offrono spunti ancora rilevanti per le discussioni contemporanee su come costruire società più giuste e equilibrate. Utopia, quindi, non è solo un’opera di critica sociale, ma un manifesto filosofico che interroga i fondamenti stessi della società umana. Sebbene l’isola di Utopia possa apparire come un’ideale irraggiungibile, le questioni che solleva sono di straordinaria attualità. L’opera invita a un esame critico delle strutture di potere e delle disuguaglianze, mostrando come la letteratura possa fungere da catalizzatore per il cambiamento sociale e culturale. La visione di More non offre solo una fuga dall’iniquità, ma una mappa per una rifondazione della società basata su principi di equità e giustizia condivisa.

 

 

 

 

State, sovereignty, law and economics
in the era of globalization

 

 

 

Taken from my lectures as a Teaching Fellow in International Law, these reflections highlight how State sovereignty and International Law are profoundly influenced by globalization, economic integration and digital technologies, raising fundamental questions about global governance, State autonomy and the adaptation of legal structures to new economic and technological realities.

 

Part IV

Hegel’s political legacy

 

The titanic struggle between the Lord and the Servant, interpreted through the Marxist lens, highlights the parallel between the feudal lord and the capitalist master. Just as the feudal lord appropriates the products of the Servant’s labour by consuming them directly, the capitalist master strips away the material labour of the worker, converting it into the abstract form of surplus value, the source of his profit. Consequently, the entrepreneur emerges as the adversary of community fabric and its ethical closeness, introducing the cold distance of the abstraction of exchange value.
This analysis overlooks the fact that every trend toward a new feudalism, observable in every projection that privileges the tangible in an era dominated by the abstract, is inherently anachronistic. It presupposes a return to borders in a boundless age, to land in the epoch of space, reinstating demarcations in a universe devoid of constant reference points.
The contemporary reaction to globalization, which inclines towards the recovery of national and community identity, the rediscovery of ethical authenticity devoid of external comparisons, the valorisation of the tangible devoid of commercial exchanges, and of relations devoid of political commitment, reflects a strong political inclination. In this context of total mobilization, the opposition to globalism does not offer a path to emancipation but rather anticipates the birth of new dominators who, exploiting abstraction, leave the current and future Servants to fight for a soil and an existence unalienated: 1) a soil made unproductive not by domination, but by the obsolescence of a thought that seeks legitimacy exclusively in the land; 2) an aspiration to non-alienation that, at the heart of the system, highlights a theft, the alienation of real labour for the gain of capital.
The challenge of globalization cannot be addressed by simply opposing and attempting to reverse positions in the name of values, since even values fit into the logic of the same domain being critiqued. Capitalism is based not so much on the exchange value and the importance of the consumer but on the remuneration of risk and the capacity for entrepreneurial initiative.
The real dynamic between State and market lies in the mutuality of services, a relationship that encompasses the economic, legal, and relational. Contrary to the isolation of the subject theorized by neoclassical economics, the actors in the enterprise are those who enter into a relationship of mutual openness in the market. And on this particular point, the philosophical debate on the relationship between Lord and Servant has much more to explore.
The renewal of the Hegelian conflict between the dominant and the subaltern manifests in the contrast between mobile and globalized individuals and those static, confined to a State or territory. On one side are the Lords who can choose the legal conditions most advantageous to them, on the other are the Servants, anchored to a territory, who therefore suffer increased taxation by impoverished States.
Hegel had already interpreted this conflict as a confrontation between the abstract and the tangible: the Lord, having at his disposal money and language, dispenses with the concreteness of things, substituting them with symbols, just as money does. Instead, the Servant, devoid of substance, possesses only a language and a dialect, incapable of communicating on a universal scale. While the Servants remain anonymous and without public recognition, the Lord, not even needing a surname, is universally recognized.
Money and language emerge from the willingness to risk physical presence, including one’s life. This courage characterizes the entrepreneurial bourgeoisie, admired by Hegel, who celebrates the maritime peoples pioneering in risky trade, such as the Dutch, the English, and the future nation of the United States of America, born from a sea journey. Hegel also admires the Revolution for its capacity to form a state of Servants emancipated from feudal subjection through enterprise rather than arms, introducing intelligence (Geist) into the traditional economy, tied to the land and agriculture. The State thus becomes an expression of this intelligence, overcoming the individualism of particular interests.
Hegel’s reflection on politics and law, filtered through Marxism, identifies the Lord as the master of capital and the Servant as the worker, reduced to a new serf by economic exploitation. However, according to Hegel, emancipation does not occur by replacing the Servant with the Master, a move that historically has generated new Masters, but by breaking the determinism of Marxism through the unpredictability of entrepreneurial initiative. In this perspective, the market reveals itself not as a mere arena of exploitation but as a space where the abstraction of finance can expand the entrepreneurial capacities and social wealth, overcoming the predation of the globalized economy.
Finally, globalization should not be seen merely as a predatory dynamic but rather as the stage on which such a dynamic unfolds, serving as the means through which the predatory action manifests and nourishes itself. The war of techno-finance is not fought through traditional conflicts between States but rather through strategies that exploit States for personal advantages, operations that go beyond traditional territorial boundaries, acting in a parallel cybernetic dimension, without the need for physical movements or advanced armaments.

 

 

 

 

DEMOCRACY THROUGH POLITICS
A philosophical and historical inquiry

 

 

The work delves into the intricate relationship between politics, power, and democracy through an integration of political philosophy and the history of democratic thought. The text examines how various models of governance and power have shaped human societies from antiquity to the modern era, with a particular focus on the anthropological and social foundations of politics and the asymmetry of political power. Author investigates political power in relation to military power and the legitimation of political authority through laws, norms, and justice. Tracing a historical trajectory from fifth-century BC Athenian democracy to the challenges faced by democracy in the twentieth century, the book provides critical reflections on how democracy might adapt in response to the demands of a complex and rapidly changing world. The epilogue contemplates the death of Socrates as a symbol of the conflict between political power and moral integrity, linking historical-philosophical themes to the contemporary context.

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State, sovereignty, law and economics
in the era of globalization

 

 

Taken from my lectures as a Teaching Fellow in International Law, these reflections highlight how State sovereignty and International Law are profoundly influenced by globalization, economic integration and digital technologies, raising fundamental questions about global governance, State autonomy and the adaptation of legal structures to new economic and technological realities.

 

Part III

Globalization and political power

 

The economic globalization has fundamentally redefined the relationship with State-imposed regulations, turning it fluid, unstable, and continuously evolving. The contraction of space and time, driven by technological progress, culminates in the obliteration of physical distances; an emblematic phenomenon of our digital age. Technology, by erasing geographical boundaries, ushers in a new global order, a boundaryless mosaic where time seems to condense into an ethereal instant and physical reality transforms into a digital domain, dissolving matter into a virtual ether. The current era witnesses the merging of the real and the virtual into a singular, indistinguishable reality that is simultaneously dual-faced, surpassing the traditional dichotomy. This fusion marks the end of the national borders era, propelling us into a homogenized global dimension, where unified space heralds an era of universal time.
In the realm of transnational dynamics, an identity emerges that is hybrid, devoid of territorial roots, challenging conventional social and political categories, transforming the legal framework in response to the demands of a global market. In this context, transnational corporations sketch a new order – a “nomos” – that navigates between the local and the global, between the aspirations of a borderless market and the constraints of nation-States, reflecting the complexity of an interconnected world.

The re-evaluation of the State in the global age reveals a radical transformation: the State, traditionally a pillar of authority, power, and decision-making, confronts the pervasiveness of the global economy and the thinning of its sovereignty. Digital technologies and the Internet rewrite the geopolitical rules, eroding the territorial foundations of State sovereignty and promoting an economy’s de-territorialization that transcends national borders, ushering in an era of interconnected global markets elusive to definite localization.
Against this backdrop, new geometries of power and law emerge, where the virtual reality of the economy and the tangible reality of law intertwine, outlining a landscape where transnational dynamics redefine the relationship between State and market. Economic globalization challenges State supremacy, giving rise to an era of reversals: the market assumes a position of dominance over the State, redefining traditional hierarchies and marking a profound discontinuity between the national dimensions of law and the transnational dimensions of the economy.
In this fluid and dynamic context, transnational corporations emerge as new protagonists, shaping legal and economic spaces according to logics independent of State sovereignty. The transnational economic reality and national law coexist in constant tension, reflecting the complexity of a world where old certainties are questioned, and new forms of dominance and resistance emerge. In such a landscape, a new binary order of dominators and dominated manifests, a dichotomy reflecting the inherent inequalities of the globalization era, where technology and finance rewrite the rules of the game, relegating many to the margins of a system that privileges a few chosen ones.